Linus febbraio 1985
Antonio Attisani fa notare, in un articolo
pubblicato su Alfabeta di questo
mese, l’emergere di un nuovo filone all’interno del teatro di ricerca,
caratterizzato fra l’altro da una ritrovata attenzione per la parola e per la
narrazione. Non trattandosi di una vera e propria “tendenza” teatrale basata su
assunti di poetica coscientemente formulati e condivisi, risulterebbe impresa
vana e superflua tracciare dei confini precisi. Dando per scontato che le
caratteristiche specifiche dei gruppi (Studio 3, Santagata e Morganti, Panna
Acida, per fare solo qualche esempio) sono ancora prevalenti rispetto a degli
ipotetici tratti unificanti, quello che è interessante per noi, qui e adesso, è
registrare un’ulteriore pratica di alcuni di questi gruppi, collegata al
riemergere di una funzione “narrativa” del testo teatrale: la pratica del
saccheggio e della rielaborazione in contesto teatrale di testi narrativi
preesistenti. Un esmpio ce lo offre il gruppo ravennate Albe di Verhaeren, che ha messo in piedi un progetto dal titolo
“Cantiere Dick”, sviluppato su tre spettacoli ispirati ai temi dello scrittore
di fantascienza californiano (i primi due sono già realizzati, Mondi paralleli e Effetti Rushmore; il terzo, che andrà in scena tra qualche mese,
tenterà di rileggere Un uomo è un uomo di
Brecht attraverso la lente di Le tre
stimmate di Palmer Eldritch, meraviglioso e allucinato romanzo di Dick da
tempo esaurito e reso adesso disponibile nel catalogo della Nord, nell’ambito
di un progetto di ristampa di tutta l’opera di questo autore). Messo a
confronto con altri spettacoli più o meno ispirati alla fantascienza nel corso
di una rassegna svoltasi lo scorso dicembre a Bagnocavallo, Ucronie, il lavoro delle Albe ha dimostrato di essere un caso
più unico che raro di aderenza e di fedeltà progettuale all’opera di un autore.
In effetti le Albe hanno trovato in
Dick un denso e sterminato magazzino di materiali per quella che, al momento,
pare essere la loro cifra distintiva: una forte ispirazione concettuale (al
limite della tematica filosofica) filtrata attraverso un’esasperata emotività.
È questo intreccio che rende centrale, nei loro spettacoli, il lavoro
dell’attore,, caratteristica questa che li accomuna un po’ ai gruppi già
citati. Ma questa centralità dell’attore non significa affatto ritorno del
personaggio tradizionale, come del resto la riscoperta di una funzione
narrativa non vuol dire che sulla scena si racconti una storia lineare, con un
prima e un poi. Per questo il riferimento alle opere letterarie non si traduce
in una loro “messa in scena”, ma in una estrazione di temi e di situazioni che
si incarnano in frammenti fluttuanti di soggettività, in brandelli di quella
carcassa dell’io di cui parlava Artaud, alla ricerca di collegamenti e di comunicazioni
sempre più difficili. In questo senso (l’osservazione è ancora di Antonio
Attisani) si tratta di un teatro “post-beckettiano”. Mi sembra si possa dire
che non a caso un teatro di questo tipo incontra generi di narrativa popolare,
come la fantascienza o l’horror. In questa narrativa popolare, infatti, la
distruzione del personaggio tradizionale è compiuta da un pezzo, a vantaggio di
una narrativa, si potrebbe dire, “di situazione”. Per un riscontro, prendiamo
in mano la più recente antologia dell’orrore e del soprannaturale (Creature dell’altro mondo, Sugarco, pp.
152, L. 6.500), sei racconti quasi tutti inediti di Shiel, Derleth, Russel
Wakefield, Bierce, Hodgson e Leiber). I due racconti più lunghi e più riusciti,
quelli di Wakefield e di Leiber, esibiscono uno schema comune: due uomini
dediti ad attività eminentemente “razionali” (rispettivamente un professore di
matematica e un giocatore di scacchi) entrano in contatto con fenomeni insoliti
o soprannaturali, che finiranno per travolgerli. In entrambi i casi l’avvenimento
soprannaturale è in relazione con una occlusione della memoria (il professore
non può o non vuole ricordare se l’incidente che ha ucciso il suo predecessore
fu causato da lui; il giocatore non ricorda, da sveglio, le regole della
partita che gioca ogni notte in sogno) collegata evidentemente con un senso
soverchiante di colpa o di responsabilità. Elementi “psicologici”, come si
vede, che però rimangono isolati, utilizzati solo per la loro funzione nella
macchina narrativa e non per costruire
un “personaggio” (ogni altra caratteristica dei due protagonisti è ininfluente
ai fini del racconto). Ma, da un altro versante, che cosa ha mai fatto il
nostro Calvino con il suo misterioso Qfwfq, “io narrante” della più divertente
saga scientifica e cosmica dei nostri tempi, se non costruire un simulacro di
personaggio, un personaggio-passepartout che percorre le età della terra e gli
eoni delle galassie, ora pesce, ora dinosauro, ora impalpabile e indeterminato
manipolatore di elettroni e protoni? La recente riedizioni di tutti i racconti
cosmici di Italo Calvino (Cosmicomiche
vecchie e nuove, Garzanti, pp. 320, L. 22.000) permetterà a tutti i suoi
vecchi e nuovi lettori, oltreché di godere di un piccolo capolavoro, di
pronunciarsi sulla abusata questione dei rapporti tra Calvino e la
fantascienza. Il mio modestissimo parere è che le Cosmicomiche siano avvicinabili alla fantascienza, più che dal
punto di vista contenuto (una scienza possibile e futura nella fantascienza, la
scienza contemporanea e puntualmente documentata, in Calvino) da quello di una
procedura narrativa, che consiste nel rendere “letterali” le metafore. Calvino
parte da una teoria scientifica (quella della creazione di nuovi atomi d’idrogeno
per mantenere stabile la densità media dell’universo in espansione, per
esempio) e la rende visibile, descrivendo i giochi di due “bambini” cosmici che
usano gli atomi come biglie, li fanno correre, scoprono i luoghi segreti dove
si formano i nuovi atomi e tentano di nasconderseli l’un l’altro… Che è poi, in
grande, quello che ciascuno di noi (non scienziati e non specialisti) fa,
quando deve rappresentarsi in qualche modo i progressi sempre più rarefatti e
complessi della scienza contemporanea.