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sabato 21 novembre 2015

Antonio Tursi: intervento al convegno Logic Lane


Divorati da Cronenberg
La fantascienza e il conflitto dei corpi

Fantascienza e conflitto

 La fantascienza, genere della narrazione moderna e dei suoi media (stampa e cinema), ha giocato un ruolo strategico nelle dinamiche culturali e politiche di secoli nei quali la tecno-scienza ha ampliato e accelerato il suo ruolo sino indurre l’emergere di qualità diverse in riferimento a quelle stesse dinamiche. Tra Ottocento e Novecento, la fantascienza ha saputo, in alcuni casi meglio che in altri naturalmente, manifestare i conflitti centrali nelle società occidentali. Manifestare non tanto nel senso di anticipare (come comunemente si tende a credere ripensando agli aspetti futuristici di romanzi e film di fantascienza) quanto nel senso di condensare e rendere percepibili conflitti prima facie non ancora avvertiti dalle forze sociali e politiche, nonché dagli individui, e non ancora o non compiutamente tematizzati da filosofi e sociologi. Condensare nel senso di racchiudere in immagini potenti, evocative, fulminanti processi di ampia portata e per questo difficili da cogliere nel loro stesso farsi. Dunque, la fantascienza – come l’arte in genere – ha sempre permesso di guardare dal parabrezza piuttosto che dallo specchietto retrovisore le dinamiche che hanno segnato la modernità e spinto in ultimo al suo superamento. E si è trattato di dinamiche affatto ireniche, bensì conflittuali e spesso laceranti.
Giusto per fare qualche esempio si pensi a come le figure di Frankenstein e Dracula abbiano incarnato le lacerazioni della incipiente società di massa, i conflitti tra l’individuo e le nuove possibilità della scienza positivista, tra l’essere umano e le macchine dell’industria, tra natura e cultura, tra linguaggi specialistici e incapacità linguistiche, tra omologazione e distinzione. Nelle distopie della prima metà del Novecento, nei mondi disegnati da Huxley, Orwell e Bradbury, il Sistema politico, culturale, economico, militare si vuole e si pretende perfetto, esente da conflitti, addirittura capace di suscitare la convinta adesione dei suoi cittadini-sudditi. Eppure anche in quei mondi emerge e si dispiega – seppure con esiti a volte tragici – una via di fuga, la necessità di opporsi, la spinta a mettere in discussione e contrastare le certezze ufficiali e le bontà predicate dai sistemi di dominio vigenti: l’ambito delle libertà, civili e politiche ma ancor prima emotive, segna il conflitto con i regimi totalitari dominanti. Le narrazioni di Philip K. Dick condensano un mondo postbellico e postatomico: la seconda guerra mondiale e soprattutto la guerra fredda divengono conflitti tra mondi, tra forme di vita, tra civiltà umane e non umane, tra natura e tecnica, tra realtà abituali e stati di alterazione mentale. Un ultimo esempio per giungere alla fine del secolo scorso è offerto da William Gibson che nel suo ciberspazio condensa scontri epici tra forze globali (la finanza, la tecnica, la criminalità) e nuove soggettività politiche come i cowboy della consolle che sfruttando le pieghe di quelle stesse forze globali aprono crepe per indispensabili spazi di libertà.
In generale, dunque, si può affermare che non esistono mondi della fantascienza in cui “everything goes” e non vi siano incrinature e increspature. Insomma, la fantascienza non è mai stata utopia, semmai ambigua utopia. Non riconducibile alle costruzioni di Platone, Moro e Campanella. Ma sempre capace di svelare un altro lato, inquietante, destabilizzante, perturbante del mondo immaginato, cioè capace di svelare l’ambiguità del nostro stesso mondo.


Orizzonte postumano


L’eco dell’annuncio nietzschiano della morte di Dio si è riverberato in tanti passaggi della storia culturale novecentesca. Ma all’approssimarsi della fine del secolo o, per il maggior richiamo simbolico, del millennio si è intensificato il sentimento di chiusura di un’epoca e dunque si è sempre più avvertita la necessità di individuare i segni di una tale svolta: dalla fine delle grandi narrazioni al postmoderno, dalla fine della storia alla postdemocrazia tutto è parso indicare un compimento. In questa stessa temperie culturale si è iniziato a discutere di postumano, della questione di cos’è o meglio di come deve comprendersi l’essere umano. Le maschere attraverso cui noi ci comprendiamo o quanto meno ci interroghiamo su noi stessi cambiano nel corso del tempo, inestricabilmente legate ai contesti culturali, tecnologici, politici nei quali via via avvertiamo di trovarci. E indubbiamente sul finire del Novecento le scoperte scientifiche, le innovazioni tecnologiche, le prospettive globali hanno spinto in definitiva a ripensare il senso stesso dell’umano. Mettendo a frutto esperienze e paradigmi già maturati nel corso del secolo (si pensi solo al darwinismo e allo sviluppo della psicologia) si è dispiegato un nuovo orizzonte concettuale. 
Con postumano si è così messa in discussione quell’eredità umanistica di antropocentrismo che, nel mentre dichiarava l’essere umano (o meglio un certo essere umano: uomo, bianco, colto, razionale e possidente) misura di tutte le cose, lasciava sul terreno macerie e tragedie impensabili. Dell’essere umano si è compresa la dinamica emergenziale: non si tratta di un essere fisso e immodificato (di cui rinvenire l’essenza) ma di un’entità costruita nei tempi lunghi della sua filogenesi. Un processo nel quale ciò che siamo abituati a riconoscere come non-umano ha giocato un ruolo decisivo. L’antroposfera si è costruita infatti nel commercio continuo con la tecnosfera e la teriosfera. L’uomo è il frutto di processi di contaminazione e ibridazione con suoi i simili, che a volte si rivelano profondamente diversi, con l’ambiente (animali, piante), con la tecnica di cui si è dotato e dalla quale ha ricevuto spinte verso una riconfigurazione del suo stesso esserci (si pensi a come le tecnologie di comunicazione intervengano nel configurare i nostri brainframes).
Nell’orizzonte postumano si aprono o si riaprono diverse e fondamentali partite. La prima tra esse riguarda ciò che più e da sempre sentiamo ancoraggio “naturale”: il nostro corpo. Anch’esso va ripensato e compreso non come datità ma come retaggio di lunghi processi filogenetici, processi di adattamento e sfida all’ambiente nel quale abitiamo. Esso “diventa uno spazio di accoglienza, è un corpo teatro capace di ospitare le alterità” (Marchesini, 2014. 51). Le antropotecniche, oggi sempre più legate agli sviluppi dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie, ci confrontano quotidianamente con processi che intervengono direttamente e profondamente nel disegno del nostro corpo. E con le sfide, in tutto e per tutto politiche, su chi decide le direzioni di questi processi.
Come scrivevamo insieme a Caronia: “l’atteggiamento più giusto, di fronte alle tematiche del postumano, ci pare quello che Karl Marx propose di fronte al capitalismo: non rifugiarsi in un impossibile «ritorno al passato», ma assumere coraggiosamente la nuova situazione economica, sociale e culturale per fare emergere al suo interno le possibilità di liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dal dominio, un obiettivo che solo le nuove condizioni, e non le antiche, permettevano. Così oggi affrontare i problemi del postumano significa lavorare perché le nuove possibilità dispiegate dalla tecnologia significhino possibilità di emancipazione e di sviluppo di nuove soggettività” (Caronia, Pireddu, Tursi, 2007).


Dalla tv alle reti: un regista mediologo


David Cronenberg ha segnato uno dei momenti in cui la fantascienza, attraverso il medium cinematografico, ha saputo meglio condensare uno dei passaggi mediologici cruciali del secolo scorso: cioè il ruolo profondo dei media elettronici e in particolare della televisione. Videodrome (1983) ci ha messo di fronte alle caratteristiche decisive della televisione: al suo essere ambientale (e non riducibile ad un mero strumento) e al suo essere tattile (e non legato unicamente al regime visivo).
Se la nostra cultura tipografica secolare aveva affrontato la sfida televisiva riconducendola ad un’ennesima traduzione dello spazio alfabetico (visione e linearità), McLuhan da parte sua aveva provato a mostrare che la televisione impianta uno spazio diverso segnato da un profondo coinvolgimento submuscolare, tattile se non sinestetico. Cambia tutto. Cambia la nostra percezione dello spazio e del tempo, cambiano i modelli di relazione sociale, cambia l’immagine di noi stessi. Ci siamo trovati lanciati in un villaggio globale assai turbolento senza però aver cambiato le nostre modalità di interpretazione. Di fatto, McLuhan è stato per diverso tempo considerato un pensatore eccentrico, borderline, al limite bizzarro. Incapace di elaborare un condivisibile paradigma di comprensione dei media e in generale del nostro mondo.
Cronenberg, non estraneo al dettato mchluhaniano, ha saputo cogliere e rendere percepibile il medium televisione: Videodrome ci ha offerto scene di pulsazioni degli aggeggi televisivi, di piccoli schermi che risucchiano corpi, di corpi che ospitano e liberano aggeggi, di desideri che si incontrano sulle superfici dei tubi catodici, di ibridazioni tra umano e tecnologico, di immersioni profonde in ambienti televisivi, di emergenza di una nuova forma di vita.
Inoltre, Videodrome rappresenta il consolidarsi del nuovo regime mediale come conflitto tra progetti alternativi, tra istanze divergenti. “Ci dimostra che il processo non è affatto indolore, che attorno alle nuove caratteristiche del mezzo, attorno all’esperienza totale di quella televisione avvolgente e violenta che è «Videodrome» si scatena il conflitto dei poteri e degli interessi” (Caronia, 2010: 23). Come spiega nello stesso film, O’Blivion, bizzarro massmediologo, attraverso un videomessaggio: “la lotta per il possesso delle menti in America dovrà essere combattuta in una videoarena, col Videodrome. Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione”.
Un conflitto che dunque ridisegna l’essere umano, la sua carne, sino a far emergere un ibrido tra corpo e comunicazione, tra psiche e segnali dell’etere, tra sistema nervoso e immaginario, tra “realtà” e allucinazioni. “I processi biologici [sono presentati da Cronenberg] come origine, tramite, centro organizzatore e campo di battaglia dell’immaginario” (Caronia, 2001: 81). Il protagonista, Max Renn, alla fine desidera andare oltre sé stesso, oltre la sua umanità: si spara gridando “Gloria e vita alla nuova carne!”. Allo stesso tempo il teleschermo di fronte a lui esplode in una proliferazione di membra e interiora, in un diluvio di sangue. Così la fusione tra uomo e ambiente televisivo è completa e profonda. Ed è avvenuta spingendo oltre l’uomo e oltre il suo rassicurante ambiente abituale, verso una superficie scontornata che amalgama pelle e transistor, carni e metalli, desideri e immaginari senza soluzioni di continuità.
Le stesse tematiche si ritroveranno in eXistenZ (1998), proiettate però in questo caso nel mondo dei videogiochi. A segnalare che quella condensazione del regime televisivo, incentrata sul ruolo decisivo del sensorio corporeo, si proietta nei nuovi media digitali e reticolari, ne segna il terreno di coltura. A segnalare che le poste in gioco in entrambi i casi sono i nostri corpi e i nostri ambienti quotidiani. A segnalare che sfide e conflitti continuano a presentarsi e a coinvolgerci in profondità. Sin dentro le nostre viscere.


La quotidianità tecnologica di un romanzo


Cronenberg negli ultimi suoi film, film girati dopo il passaggio di millennio (da Spider a Cosmopolis, da The History of Violence a The Dangerous Method), non ha più trattato in modo diretto e ossessivo di tecnologie, in particolare di tecnologie di comunicazione, della loro profonda ibridazione con il corpo umano. Inoltre, pare difficile riportare questi film al genere fantascienza. Ha trattato altri temi e approfondito vissuti psicologici senza però mai tradire la sua attenzione alla bio-chimica dei corpi. Quello che potrebbe sembrare un ampliamento tematico o addirittura un superamento di certe tematiche, potrebbe però valere come spia di altro: altro che riguarda ancora e fortemente lo scenario mediale.
A un certo punto, dopo una stesura che sappiamo essere stata lunga, un affermato e visionario regista cinematografico ha dato alle stampe il suo primo (e sinora unico) romanzo: Consumed (Divorati nella traduzione italiana). Naturalmente questo passaggio di piattaforma espressiva induce a interrogarsi sul perché un regista che, attraverso i suoi film, nei temi trattati sul grande schermo, con il suo peculiare stile, ha lavorato su un immaginario che a stento poteva trovare espressione in un medium, il cinema, in tutto moderno, ha deciso di utilizzare una forma mediale modernissima quale il libro stampato (e nella fattispecie un romanzo) per ritornare ad esplorare alcune questioni per lui centrali, per tornare a dar voce alle sue tradizionali ossessioni.
Una forma mediale, il libro, che inoltre pone un altro medium moderno, la fotografia, in una posizione centrale nella vicenda narrata, ne fa una sorta di indispensabile oggetto narrativo. I due protagonisti, Naomi Seberg e Nathan Math, sono fotogiornalisti freelance. E durante tutta la narrazione si discorre di macchinette fotografiche, di diversi modelli e marche, e poi ancora di pellicole, obiettivi, inquadrature, angolazioni, luminosità, foto autentiche e contraffatte.
Infine, come gli ultimi suoi film, anche Divorati, sebbene pervaso da ossessioni antiche di Cronenberg e perciò attento agli scenari mediali, è solo parzialmente riconducibile al genere fantascienza.
Insomma, Cronenberg non mostra per diverso tempo tecnologie futuristiche o comunque invasive, giunge infine a scrivere un romanzo non proprio di fantascienza e ne pone al centro la fotografia. Quale conclusione possiamo trarre da queste circostanze? L’autore canadese ci sta segnalando qualcosa? Qualcosa che forse vale come negativo di queste stesse circostanze?
Divorati si apre con uno schermo di un computer portatile, quello attraverso il quale Naomi esplora l’abitazione dei coniugi Aristide Arosteguy e Célestine Moreau (“Naomi era nello schermo” sono le prime parole del romanzo). Durante tutto il romanzo, le nostre tecnologie e piattaforme di comunicazione sono costantemente richiamate: dall’iPhone all’iPad, dal MacBook Air alle schedine di memoria SD, da Adobe Lightroom a Photoshop, da YouTube a Skype, da Facebook a Google. Esse rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di Naomi e Nathan esattamente come rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di ciascuno di noi. E naturalmente come l’acqua per i pesci queste tecnologie rischiano di essere sempre più inavvertite nel momento stesso in cui si normalizzano e ci circondano nelle routine quotidiane. Cronenberg, astenendosi dal mostrare tecnologie futuristiche e invasive nei suoi ultimi film e richiamando le nostre macchinette quotidiane in un libro che ruota intorno alla fotografia, ci avverte proprio di questa quotidianizzazione dei media digitali. Comprendere il loro carattere ambientale, da un lato, diventa più difficile perché ormai ne siamo costantemente immersi ma, dall’altro, è una possibilità offerta a ciascuno e non più solo un’esperienza eccezionale, qual’era quella a cui aveva avuto accesso – nel caso di Videodrome – il produttore televisivo Max Renn. Una possibilità che diviene più che mai necessario cogliere per muoversi agilmente nel nuovo scenario mediale, individuarne gli elementi conflittuali e non lasciarsi risucchiare in una narcosi da Narcisi postmoderni, non lasciarsi sommergere dalla “inesorabile, rovente colata lavica della tecnologia” (23).


La nuova carne e l’approdo dei corpi


Le macchinette fotografiche utilizzate costantemente da Naomi e Nathan servono a catturare i corpi o meglio la carne pulsante di molti dei personaggi che appaiono nelle pagine del romanzo. Un’azione di mediazione che non è affatto neutra ma densa di significato. Per esempio, osservare le diverse foto di Chase Roiphe scattate con differenti obiettivi da Nathan, permette a Naomi di scoprire la progressiva attrazione erotica tra i due. Un’azione quella fotografica che si estende attraverso le reti telematiche. Dunja, ragazza slovena prossima alla morte, chiede a Nathan: “mettile in internet e manda queste immagini di me nell’universo, dove proseguirò la mia esistenza extracorporea” (37). E più generalmente, “non essere fotografati giornalmente, magari da se stessi, non essere registrati e videoripresi e dispersi nei turbolenti venti della rete signific[a] lambire l’inesistenza” (56). Questi venti fanno sì che le foto (oltre alle dicerie) circolino velocemente e stabiliscano il senso provvisorio ma comune di una storia: in Divorati, le ipotesi sul caso di omicidio-suicidio sessual-cannibal-filosofico di Célestine Arosteguy.
Solo verso la fine del romanzo, cioè solo dopo le vicende concitate, gli spostamenti planetari e l’investigazione on the ground portata avanti da Naomi, scopriamo che quelle foto testimonianza di un atto efferato e sanguinolento sono contraffazioni. La conclusione a cui giungiamo (in un finale comunque aperto) è che Célestine non sia stato affatto uccisa ma si sia trasferita in Corea del Nord, abbia disertato la République, estremo gesto politico da parte di “un patrimonio nazionale”, di “un ideale francese”, che non è mai stata attratta dall’astrattezza della politica. Su quelle foto, sulla loro capacità di catturare o ancor di più costruire e veicolare la nuova carne, si è giocata una partita globale tra poteri. Quello degli intellettuali protagonisti delle vicende, quello degli investigatori francesi, quello dei cospiratori, quello dei depistatori e quello dei fotogiornalisti. Oltre che quello di un’opinione pubblica globale i cui nervi sono sempre più facilmente sollecitabili attraverso la Rete, vero sistema nervoso centrale dell’attuale villaggio globale, “una tribuna per la pubblica accusa” (167).
La contraffazione delle foto è operata però grazie ad un'altra tecnologia, non futuribile ma sicuramente ancora in fase di sviluppo e diffusione: le stampanti 3D. Macchinette di un cortocircuito tra regimi diversi e dimensioni eterogenee. Capaci di tradurre la visione in tangibilità, lo schermo in oggetto, i bit in atomi. Sono esse, più che le fotografie, ad aver costruito in bioplastica la carne oggetto del romanzo: le membra straziate e disperse di Célestine, compresi tendini strappati, vasi sanguigni rotti, ghiandole ormonali esposte, muscoli sfibrati (oltre che le membra di altri personaggi che veicolano se stessi o parti di sé across the world). Grazie a queste stampanti e al ritocco artigianale degli oggetti da loro prodotti, si sono costruite le prove dell’omicidio efferato, segnato da presunti atti di cannibalismo, della filosofa francese. Prove che catturate dalle fotografie e disseminate nella rete hanno orientato le vicende del romanzo e le indagini svolte dai diversi personaggi.
Tecnologie – la fotografia e ancor di più e prima le stampanti 3D – che costruiscono corpi, organi, viscere, una carne del mondo, un paesaggio corporeo attraverso il quale definiamo le nostre identità. E lo stesso fanno le tecnologie audio, protesi acustiche la cui sofisticatezza è stata incrementata dal digitale “ben oltre la fantascienza” e che vengono riprogrammate per offrire nuovi paesaggi sonori o detto in altri termini per offrire la possibilità di sperimentare nuove identità. Tecnologie che sono perciò al centro di conflitti globali di potere. La Corea del Nord, dittatura paradigmatica in un mondo di free countries, è base operativa per cospirazioni globali che hanno al centro la riprogrammazione delle tecnologie audio e lo sviluppo delle nuove stampanti, la costruzione attraverso il dominio sulla tecnica di un nuovo impero economico-tecno-neurologico-politico.
Questi scontri globali sulle tecnologie che costruiscono la nuova carne del mondo configurano uno scontro profondo sul modo stesso in cui ci comprendiamo, comprendiamo i nostri corpi, configuriamo le nostre identità ibride. Cronenberg rispolvera in Divorati la sua indagine più proficua e perspicua, quella sull’estetica contemporanea, vera cartina di tornasole delle dinamiche politiche attuali. Un’estetica nuova si configura nell’ibridazione tra tecnologie e corpi, un’estetica che spinge “verso l’accettazione culturale di concetti di bellezza in passato ritenuti tabù, concetti che un tempo indicavano malattia e prossimità alla morte ma che adesso avrebbero ipnotizzato e sedotto” (64). La malattia che eccita, la seduzione del decadimento, il profumo della morte, le disfunzioni corporee (come quella di Peyronie), la disabilità umana, i nuovi corpi che emergono dall’amputazione di parti (apotemnofilia): modalità di una bellezza che si contrappone a quella classica basata sulla conformità e sull’armonia. Una bellezza capace di competere con quella naturale o addirittura di superarla per capacità di seduzione, una bellezza all’altezza delle nuove condizioni industriali/tecnologiche dell’uomo. Un riallineamento dell’estetica che fa perno sulla diversità stessa, diventata “afrodisiaca e stuzzicante” (241). E intorno a questa bellezza che si costruiscono nuove identità, che si giocano perciò gli scontri di potere. In un mondo in cui il “vero oggetto dell’innata brama di bellezza erano adesso le merci, i prodotti industriali” (99), in cui il corpo stesso è ridotto a merce, è omologato, è triturato dall’“insaziabile ethos consumista occidentale che tutto divora” (335), è costruito come prodotto dalle tecnologie, non ci resta che diventare consumatori di noi stessi, appropriarcene in modo estremo, essere divoratori della carne ormai sconfinata oltre i confini della nostra pelle. Ritagliare nella carne del mondo, il nostro corpo. E farlo con un gesto chirurgico, di profonda incisione, più profonda del morso del vampiro. Si tratta di incorporare “con la bocca, le labbra, con il mordere, il masticare, l’ingoiare, il digerire, lo scoreggiare, il cacare” (156). E solo sperimentando “questa bocca, la bocca del cannibale, la bocca dei mille morsi, mille atrocità umane” (156) si potrà abitare in un nuovo paesaggio corporeo. Abitare un corpo ibrido, aperto, contaminato. Che non rappresenterà più il porto di partenza dal quale sicuri guardare il mondo ma l’approdo instabile del nostro cammino nel mondo[1].




[1] “Per carne si può intendere una vita corporea espansa, una massa organica che si spinge cioè oltre la prigione di ciò che chiamiamo corpo, oltre la pelle che la racchiude e le ossa che la sostengono. La carne non fa da sostegno alle raffigurazioni sociali dell’identità, mentre invece è appunto il corpo a farsene carico. Questa differenza tra carne come materia vivente senza confini e, di contro, corpi come soggetti socialmente confinati, è molto importante” (Abruzzese, 2005: 201). E proprio la questione dei confini è decisiva. Ciò che caratterizza la “carne che emette calore, colore, odore, peso” è “l’assenza di forma” (Abruzzese, 2008: [w]). La carne è dunque s-confinata. Di contro troviamo la “postura figurale del corpo messo a distanza, inquadrato, valutato secondo parametri ottici”. Se la carne è il mondo, il corpo riguarda la società: “il corpo sociale si chiude in sé configurandosi come insieme di soggetti separati dal fluire del mondo” (Abruzzese, 2008: [w]). Questa distinzione tra carne e corpo permette dunque di comprendere le reti digitali come “una via di fuga della carne dai corpi” (Abruzzese, 2005: 221).
La carne è “quella parte, zona, membrana del corpo che non fa tutt’uno con esso, che eccede i suoi confini o si sottrae alla sua chiusura” (Esposito, 2004: 173). Con tutta evidenza la Carne non potrà mai tradursi in istituzioni essendo “una materia mondiale antecedente, o successiva, alla costituzione del soggetto di diritto” (Esposito, 2004: 182)

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