Divorati da Cronenberg
La fantascienza e il conflitto dei corpi
Fantascienza e conflitto
Giusto per fare qualche esempio
si pensi a come le figure di Frankenstein e Dracula abbiano incarnato le
lacerazioni della incipiente società di massa, i conflitti tra l’individuo e le
nuove possibilità della scienza positivista, tra l’essere umano e le macchine
dell’industria, tra natura e cultura, tra linguaggi specialistici e incapacità
linguistiche, tra omologazione e distinzione. Nelle distopie della prima metà
del Novecento, nei mondi disegnati da Huxley, Orwell e Bradbury, il Sistema
politico, culturale, economico, militare si vuole e si pretende perfetto,
esente da conflitti, addirittura capace di suscitare la convinta adesione dei
suoi cittadini-sudditi. Eppure anche in quei mondi emerge e si dispiega –
seppure con esiti a volte tragici – una via di fuga, la necessità di opporsi, la
spinta a mettere in discussione e contrastare le certezze ufficiali e le bontà
predicate dai sistemi di dominio vigenti: l’ambito delle libertà, civili e
politiche ma ancor prima emotive, segna il conflitto con i regimi totalitari
dominanti. Le narrazioni di Philip K. Dick condensano un mondo postbellico e
postatomico: la seconda guerra mondiale e soprattutto la guerra fredda
divengono conflitti tra mondi, tra forme di vita, tra civiltà umane e non
umane, tra natura e tecnica, tra realtà abituali e stati di alterazione
mentale. Un ultimo esempio per giungere alla fine del secolo scorso è offerto
da William Gibson che nel suo ciberspazio condensa scontri epici tra forze
globali (la finanza, la tecnica, la criminalità) e nuove soggettività politiche
come i cowboy della consolle che sfruttando le pieghe di quelle stesse forze
globali aprono crepe per indispensabili spazi di libertà.
In generale, dunque, si può
affermare che non esistono mondi della fantascienza in cui “everything goes” e
non vi siano incrinature e increspature. Insomma, la fantascienza non è mai
stata utopia, semmai ambigua utopia. Non riconducibile alle costruzioni di
Platone, Moro e Campanella. Ma sempre capace di svelare un altro lato,
inquietante, destabilizzante, perturbante del mondo immaginato, cioè capace di
svelare l’ambiguità del nostro stesso mondo.
Orizzonte postumano
L’eco dell’annuncio nietzschiano
della morte di Dio si è riverberato in tanti passaggi della storia culturale
novecentesca. Ma all’approssimarsi della fine del secolo o, per il maggior
richiamo simbolico, del millennio si è intensificato il sentimento di chiusura
di un’epoca e dunque si è sempre più avvertita la necessità di individuare i
segni di una tale svolta: dalla fine delle grandi narrazioni al postmoderno,
dalla fine della storia alla postdemocrazia tutto è parso indicare un
compimento. In questa stessa temperie culturale si è iniziato a discutere di
postumano, della questione di cos’è o meglio di come deve comprendersi l’essere
umano. Le maschere attraverso cui noi ci comprendiamo o quanto meno ci
interroghiamo su noi stessi cambiano nel corso del tempo, inestricabilmente
legate ai contesti culturali, tecnologici, politici nei quali via via
avvertiamo di trovarci. E indubbiamente sul finire del Novecento le scoperte scientifiche,
le innovazioni tecnologiche, le prospettive globali hanno spinto in definitiva
a ripensare il senso stesso dell’umano. Mettendo a frutto esperienze e
paradigmi già maturati nel corso del secolo (si pensi solo al darwinismo e allo
sviluppo della psicologia) si è dispiegato un nuovo orizzonte concettuale.
Con postumano si è così messa in
discussione quell’eredità umanistica di antropocentrismo che, nel mentre
dichiarava l’essere umano (o meglio un certo essere umano: uomo, bianco, colto,
razionale e possidente) misura di tutte le cose, lasciava sul terreno macerie e
tragedie impensabili. Dell’essere umano si è compresa la dinamica emergenziale:
non si tratta di un essere fisso e immodificato (di cui rinvenire l’essenza) ma
di un’entità costruita nei tempi lunghi della sua filogenesi. Un processo nel
quale ciò che siamo abituati a riconoscere come non-umano ha giocato un ruolo
decisivo. L’antroposfera si è costruita infatti nel commercio continuo con la
tecnosfera e la teriosfera. L’uomo è il frutto di processi di contaminazione e
ibridazione con suoi i simili, che a volte si rivelano profondamente diversi,
con l’ambiente (animali, piante), con la tecnica di cui si è dotato e dalla
quale ha ricevuto spinte verso una riconfigurazione del suo stesso esserci (si
pensi a come le tecnologie di comunicazione intervengano nel configurare i
nostri brainframes).
Nell’orizzonte postumano si aprono
o si riaprono diverse e fondamentali partite. La prima tra esse riguarda ciò
che più e da sempre sentiamo ancoraggio “naturale”: il nostro corpo. Anch’esso
va ripensato e compreso non come datità ma come retaggio di lunghi processi
filogenetici, processi di adattamento e sfida all’ambiente nel quale abitiamo.
Esso “diventa uno spazio di accoglienza, è un corpo teatro capace di ospitare
le alterità” (Marchesini, 2014. 51). Le antropotecniche, oggi sempre più legate
agli sviluppi dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie, ci confrontano
quotidianamente con processi che intervengono direttamente e profondamente nel
disegno del nostro corpo. E con le sfide, in tutto e per tutto politiche, su
chi decide le direzioni di questi processi.
Come scrivevamo insieme a
Caronia: “l’atteggiamento più giusto, di fronte alle tematiche del postumano,
ci pare quello che Karl Marx propose di fronte al capitalismo: non rifugiarsi
in un impossibile «ritorno al passato», ma assumere coraggiosamente la nuova
situazione economica, sociale e culturale per fare emergere al suo interno le
possibilità di liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dal dominio, un
obiettivo che solo le nuove condizioni, e non le antiche, permettevano. Così
oggi affrontare i problemi del postumano significa lavorare perché le nuove
possibilità dispiegate dalla tecnologia significhino possibilità di emancipazione
e di sviluppo di nuove soggettività” (Caronia, Pireddu, Tursi, 2007).
Dalla tv alle reti: un regista mediologo
David Cronenberg ha segnato uno
dei momenti in cui la fantascienza, attraverso il medium cinematografico, ha
saputo meglio condensare uno dei
passaggi mediologici cruciali del secolo scorso: cioè il ruolo profondo dei
media elettronici e in particolare della televisione. Videodrome (1983) ci ha messo di fronte alle caratteristiche
decisive della televisione: al suo essere ambientale (e non riducibile ad un
mero strumento) e al suo essere tattile (e non legato unicamente al regime
visivo).
Se la nostra cultura tipografica
secolare aveva affrontato la sfida televisiva riconducendola ad un’ennesima
traduzione dello spazio alfabetico (visione e linearità), McLuhan da parte sua
aveva provato a mostrare che la televisione impianta uno spazio diverso segnato
da un profondo coinvolgimento submuscolare, tattile se non sinestetico. Cambia
tutto. Cambia la nostra percezione dello spazio e del tempo, cambiano i modelli
di relazione sociale, cambia l’immagine di noi stessi. Ci siamo trovati
lanciati in un villaggio globale assai turbolento senza però aver cambiato le
nostre modalità di interpretazione. Di fatto, McLuhan è stato per diverso tempo
considerato un pensatore eccentrico, borderline,
al limite bizzarro. Incapace di elaborare un condivisibile paradigma di
comprensione dei media e in generale del nostro mondo.
Cronenberg, non estraneo al
dettato mchluhaniano, ha saputo cogliere e rendere percepibile il medium
televisione: Videodrome ci ha offerto
scene di pulsazioni degli aggeggi televisivi, di piccoli schermi che
risucchiano corpi, di corpi che ospitano e liberano aggeggi, di desideri che si
incontrano sulle superfici dei tubi catodici, di ibridazioni tra umano e
tecnologico, di immersioni profonde in ambienti televisivi, di emergenza di una
nuova forma di vita.
Inoltre, Videodrome rappresenta il consolidarsi del nuovo regime mediale
come conflitto tra progetti alternativi, tra istanze divergenti. “Ci dimostra
che il processo non è affatto indolore, che attorno alle nuove caratteristiche
del mezzo, attorno all’esperienza totale di quella televisione avvolgente e
violenta che è «Videodrome» si scatena il conflitto dei poteri e degli
interessi” (Caronia, 2010: 23). Come spiega nello stesso film, O’Blivion,
bizzarro massmediologo, attraverso un videomessaggio: “la lotta per il possesso
delle menti in America dovrà essere combattuta in una videoarena, col
Videodrome. Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne
consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del
cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno della
televisione”.
Un conflitto che dunque ridisegna
l’essere umano, la sua carne, sino a far emergere un ibrido tra corpo e
comunicazione, tra psiche e segnali dell’etere, tra sistema nervoso e
immaginario, tra “realtà” e allucinazioni. “I processi biologici [sono
presentati da Cronenberg] come origine, tramite, centro organizzatore e campo di
battaglia dell’immaginario” (Caronia, 2001: 81). Il protagonista, Max Renn,
alla fine desidera andare oltre sé stesso, oltre la sua umanità: si spara
gridando “Gloria e vita alla nuova carne!”. Allo stesso tempo il teleschermo di
fronte a lui esplode in una proliferazione di membra e interiora, in un diluvio
di sangue. Così la fusione tra uomo e ambiente televisivo è completa e
profonda. Ed è avvenuta spingendo oltre l’uomo e oltre il suo rassicurante
ambiente abituale, verso una superficie scontornata che amalgama pelle e
transistor, carni e metalli, desideri e immaginari senza soluzioni di
continuità.
Le stesse tematiche si
ritroveranno in eXistenZ (1998),
proiettate però in questo caso nel mondo dei videogiochi. A segnalare che
quella condensazione del regime televisivo, incentrata sul ruolo decisivo del
sensorio corporeo, si proietta nei nuovi media digitali e reticolari, ne segna
il terreno di coltura. A segnalare che le poste in gioco in entrambi i casi
sono i nostri corpi e i nostri ambienti quotidiani. A segnalare che sfide e
conflitti continuano a presentarsi e a coinvolgerci in profondità. Sin dentro
le nostre viscere.
La quotidianità tecnologica di un romanzo
Cronenberg negli ultimi suoi
film, film girati dopo il passaggio di millennio (da Spider a Cosmopolis, da The History of Violence a The Dangerous Method), non ha più trattato
in modo diretto e ossessivo di tecnologie, in particolare di tecnologie di
comunicazione, della loro profonda ibridazione con il corpo umano. Inoltre,
pare difficile riportare questi film al genere fantascienza. Ha trattato altri
temi e approfondito vissuti psicologici senza però mai tradire la sua
attenzione alla bio-chimica dei corpi. Quello che potrebbe sembrare un
ampliamento tematico o addirittura un superamento di certe tematiche, potrebbe però
valere come spia di altro: altro che riguarda ancora e fortemente lo scenario
mediale.
A un certo punto, dopo una
stesura che sappiamo essere stata lunga, un affermato e visionario regista
cinematografico ha dato alle stampe il suo primo (e sinora unico) romanzo: Consumed (Divorati nella traduzione italiana). Naturalmente questo passaggio
di piattaforma espressiva induce a interrogarsi sul perché un regista che,
attraverso i suoi film, nei temi trattati sul grande schermo, con il suo
peculiare stile, ha lavorato su un immaginario che a stento poteva trovare
espressione in un medium, il cinema, in tutto moderno, ha deciso di utilizzare
una forma mediale modernissima quale il libro stampato (e nella fattispecie un
romanzo) per ritornare ad esplorare alcune questioni per lui centrali, per
tornare a dar voce alle sue tradizionali ossessioni.
Una forma mediale, il libro, che
inoltre pone un altro medium moderno, la fotografia, in una posizione centrale
nella vicenda narrata, ne fa una sorta di indispensabile oggetto narrativo. I
due protagonisti, Naomi Seberg e Nathan Math, sono fotogiornalisti freelance. E
durante tutta la narrazione si discorre di macchinette fotografiche, di diversi
modelli e marche, e poi ancora di pellicole, obiettivi, inquadrature, angolazioni,
luminosità, foto autentiche e contraffatte.
Infine, come gli ultimi suoi
film, anche Divorati, sebbene pervaso
da ossessioni antiche di Cronenberg e perciò attento agli scenari mediali, è
solo parzialmente riconducibile al genere fantascienza.
Insomma, Cronenberg non mostra
per diverso tempo tecnologie futuristiche o comunque invasive, giunge infine a
scrivere un romanzo non proprio di fantascienza e ne pone al centro la
fotografia. Quale conclusione possiamo trarre da queste circostanze? L’autore
canadese ci sta segnalando qualcosa? Qualcosa che forse vale come negativo di queste stesse circostanze?
Divorati si apre con uno schermo di un computer portatile, quello
attraverso il quale Naomi esplora l’abitazione dei coniugi Aristide Arosteguy e
Célestine Moreau (“Naomi era nello schermo” sono le prime parole del romanzo).
Durante tutto il romanzo, le nostre
tecnologie e piattaforme di comunicazione sono costantemente richiamate: dall’iPhone
all’iPad, dal MacBook Air alle schedine di memoria SD, da Adobe Lightroom a
Photoshop, da YouTube a Skype, da Facebook a Google. Esse rappresentano lo
sfondo della vita quotidiana di Naomi e Nathan esattamente come rappresentano
lo sfondo della vita quotidiana di ciascuno di noi. E naturalmente come l’acqua
per i pesci queste tecnologie rischiano di essere sempre più inavvertite nel
momento stesso in cui si normalizzano e ci circondano nelle routine quotidiane.
Cronenberg, astenendosi dal mostrare tecnologie futuristiche e invasive nei suoi
ultimi film e richiamando le nostre macchinette quotidiane in un libro che
ruota intorno alla fotografia, ci avverte proprio di questa quotidianizzazione dei media digitali.
Comprendere il loro carattere ambientale, da un lato, diventa più difficile perché
ormai ne siamo costantemente immersi ma, dall’altro, è una possibilità offerta
a ciascuno e non più solo un’esperienza eccezionale, qual’era quella a cui
aveva avuto accesso – nel caso di Videodrome
– il produttore televisivo Max Renn. Una possibilità che diviene più che mai
necessario cogliere per muoversi agilmente nel nuovo scenario mediale, individuarne
gli elementi conflittuali e non lasciarsi risucchiare in una narcosi da Narcisi
postmoderni, non lasciarsi sommergere dalla “inesorabile, rovente colata lavica
della tecnologia” (23).
La nuova carne e l’approdo dei corpi
Le macchinette fotografiche
utilizzate costantemente da Naomi e Nathan servono a catturare i corpi o meglio
la carne pulsante di molti dei personaggi che appaiono nelle pagine del
romanzo. Un’azione di mediazione che non è affatto neutra ma densa di
significato. Per esempio, osservare le diverse foto di Chase Roiphe scattate
con differenti obiettivi da Nathan, permette a Naomi di scoprire la progressiva
attrazione erotica tra i due. Un’azione quella fotografica che si estende
attraverso le reti telematiche. Dunja, ragazza slovena prossima alla morte,
chiede a Nathan: “mettile in internet e manda queste immagini di me
nell’universo, dove proseguirò la mia esistenza extracorporea” (37). E più
generalmente, “non essere fotografati giornalmente, magari da se stessi, non
essere registrati e videoripresi e dispersi nei turbolenti venti della rete
signific[a] lambire l’inesistenza” (56). Questi venti fanno sì che le foto
(oltre alle dicerie) circolino velocemente e stabiliscano il senso provvisorio
ma comune di una storia: in Divorati,
le ipotesi sul caso di omicidio-suicidio sessual-cannibal-filosofico di
Célestine Arosteguy.
Solo verso la fine del romanzo,
cioè solo dopo le vicende concitate, gli spostamenti planetari e
l’investigazione on the ground
portata avanti da Naomi, scopriamo che quelle foto testimonianza di un atto
efferato e sanguinolento sono contraffazioni. La conclusione a cui giungiamo
(in un finale comunque aperto) è che Célestine non sia stato affatto uccisa ma
si sia trasferita in Corea del Nord, abbia disertato la République, estremo gesto politico da parte di “un patrimonio
nazionale”, di “un ideale francese”, che non è mai stata attratta
dall’astrattezza della politica. Su quelle foto, sulla loro capacità di
catturare o ancor di più costruire e veicolare la nuova carne, si è giocata una
partita globale tra poteri. Quello degli intellettuali protagonisti delle
vicende, quello degli investigatori francesi, quello dei cospiratori, quello
dei depistatori e quello dei fotogiornalisti. Oltre che quello di un’opinione
pubblica globale i cui nervi sono sempre più facilmente sollecitabili
attraverso la Rete, vero sistema nervoso centrale dell’attuale villaggio
globale, “una tribuna per la pubblica accusa” (167).
La contraffazione delle foto è
operata però grazie ad un'altra tecnologia, non futuribile ma sicuramente
ancora in fase di sviluppo e diffusione: le stampanti 3D. Macchinette di un
cortocircuito tra regimi diversi e dimensioni eterogenee. Capaci di tradurre la
visione in tangibilità, lo schermo in oggetto, i bit in atomi. Sono esse, più
che le fotografie, ad aver costruito in bioplastica la carne oggetto del
romanzo: le membra straziate e disperse di Célestine, compresi tendini
strappati, vasi sanguigni rotti, ghiandole ormonali esposte, muscoli sfibrati
(oltre che le membra di altri personaggi che veicolano se stessi o parti di sé across the world). Grazie a queste
stampanti e al ritocco artigianale degli oggetti da loro prodotti, si sono costruite
le prove dell’omicidio efferato, segnato da presunti atti di cannibalismo,
della filosofa francese. Prove che catturate dalle fotografie e disseminate
nella rete hanno orientato le vicende del romanzo e le indagini svolte dai diversi
personaggi.
Tecnologie – la fotografia e
ancor di più e prima le stampanti 3D – che costruiscono corpi, organi, viscere,
una carne del mondo, un paesaggio corporeo attraverso il quale definiamo le
nostre identità. E lo stesso fanno le tecnologie audio, protesi acustiche la
cui sofisticatezza è stata incrementata dal digitale “ben oltre la
fantascienza” e che vengono riprogrammate per offrire nuovi paesaggi sonori o
detto in altri termini per offrire la possibilità di sperimentare nuove
identità. Tecnologie che sono perciò al centro di conflitti globali di potere.
La Corea del Nord, dittatura paradigmatica in un mondo di free countries, è base operativa per cospirazioni globali che hanno
al centro la riprogrammazione delle tecnologie audio e lo sviluppo delle nuove
stampanti, la costruzione attraverso il dominio sulla tecnica di un nuovo
impero economico-tecno-neurologico-politico.
Questi scontri globali sulle
tecnologie che costruiscono la nuova carne del mondo configurano uno scontro
profondo sul modo stesso in cui ci comprendiamo, comprendiamo i nostri corpi, configuriamo
le nostre identità ibride. Cronenberg rispolvera in Divorati la sua indagine più proficua e perspicua, quella
sull’estetica contemporanea, vera cartina di tornasole delle dinamiche politiche
attuali. Un’estetica nuova si configura nell’ibridazione tra tecnologie e
corpi, un’estetica che spinge “verso l’accettazione culturale di concetti di
bellezza in passato ritenuti tabù, concetti che un tempo indicavano malattia e
prossimità alla morte ma che adesso avrebbero ipnotizzato e sedotto” (64). La
malattia che eccita, la seduzione del decadimento, il profumo della morte, le
disfunzioni corporee (come quella di Peyronie), la disabilità umana, i nuovi
corpi che emergono dall’amputazione di parti (apotemnofilia): modalità di una
bellezza che si contrappone a quella classica basata sulla conformità e
sull’armonia. Una bellezza capace di competere con quella naturale o addirittura
di superarla per capacità di seduzione, una bellezza all’altezza delle nuove
condizioni industriali/tecnologiche dell’uomo. Un riallineamento dell’estetica
che fa perno sulla diversità stessa, diventata “afrodisiaca e stuzzicante”
(241). E intorno a questa bellezza che si costruiscono nuove identità, che si
giocano perciò gli scontri di potere. In un mondo in cui il “vero oggetto
dell’innata brama di bellezza erano adesso le merci, i prodotti industriali”
(99), in cui il corpo stesso è ridotto a merce, è omologato, è triturato
dall’“insaziabile ethos consumista occidentale che tutto divora” (335), è
costruito come prodotto dalle tecnologie, non ci resta che diventare
consumatori di noi stessi, appropriarcene in modo estremo, essere divoratori
della carne ormai sconfinata oltre i confini della nostra pelle. Ritagliare
nella carne del mondo, il nostro corpo. E farlo con un gesto chirurgico, di
profonda incisione, più profonda del morso del vampiro. Si tratta di
incorporare “con la bocca, le labbra, con il mordere, il masticare, l’ingoiare,
il digerire, lo scoreggiare, il cacare” (156). E solo sperimentando “questa
bocca, la bocca del cannibale, la bocca dei mille morsi, mille atrocità umane”
(156) si potrà abitare in un nuovo paesaggio corporeo. Abitare un corpo ibrido,
aperto, contaminato. Che non rappresenterà più il porto di partenza dal quale
sicuri guardare il mondo ma l’approdo instabile del nostro cammino nel mondo[1].
[1] “Per
carne si può intendere una vita corporea espansa, una massa organica che si
spinge cioè oltre la prigione di ciò che chiamiamo corpo, oltre la pelle che la
racchiude e le ossa che la sostengono. La carne non fa da sostegno alle
raffigurazioni sociali dell’identità, mentre invece è appunto il corpo a
farsene carico. Questa differenza tra carne come materia vivente senza confini
e, di contro, corpi come soggetti socialmente confinati, è molto importante”
(Abruzzese, 2005: 201). E proprio la questione dei confini è decisiva. Ciò che
caratterizza la “carne che emette calore, colore, odore, peso” è “l’assenza di
forma” (Abruzzese, 2008: [w]). La carne è dunque s-confinata. Di contro
troviamo la “postura figurale del corpo messo a distanza, inquadrato, valutato
secondo parametri ottici”. Se la carne è il mondo, il corpo riguarda la
società: “il corpo sociale si chiude in sé configurandosi come insieme di soggetti
separati dal fluire del mondo” (Abruzzese, 2008: [w]). Questa distinzione tra
carne e corpo permette dunque di comprendere le reti digitali come “una via di
fuga della carne dai corpi” (Abruzzese, 2005: 221).
La carne è “quella parte,
zona, membrana del corpo che non fa tutt’uno con esso, che eccede i suoi
confini o si sottrae alla sua chiusura” (Esposito, 2004: 173). Con tutta
evidenza la Carne non potrà mai tradursi in istituzioni essendo “una materia
mondiale antecedente, o successiva, alla costituzione del soggetto di diritto”
(Esposito, 2004: 182)
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