Natura
e produzione.
Ma perché insomma, non troviamo utopie nella
fantascienza? Perché la raffigurazione del futuro o del possibile è utilizzata
prevalentemente o in funzione anti-utopica o in funzione di conservare e
preservare l’esistente? Thomas Disch non ha dubbi. Secondo lui, le utopie sono
“notoriamente noiose, stupide, e ripugnanti”, (e tuttavia aggiunge “comunque
abbiamo bisogno di utopie”)9. Ma così il problema è solo spostato:
perché a Disch – e ad un osservatore del XX secolo – le utopie appaiono tali?
Azzardiamo un’ipotesi: una delle differenze di fondo fra la letteratura utopica
e quella di fantascienza al di là delle analogie nella configurazione del
discorso di cui parlavamo all’inizio, potrebbe risiedere nel carattere
fondamentalmente religioso della prima e, diciamo così, laico della seconda. Ma
forse è ancora troppo poco. Che cosa significa, infatti, la religiosità
dell’utopia classica? (Che la religiosità ne sia un carattere portante pare
difficile contestarlo, da Moro e Campanella fino a Fourier) Significa il
vagheggiamento di una natura – e di un rapporto dell’uomo con la natura come
parte di essa – o incontaminata, restituita ad una purezza originaria (l’età
dell’oro), o nuovamente fondata, ma sulle basi di una razionalità indiscussa,
ideale, che non può avere il suo fondamento che in Dio – una razionalità
trascendente, insomma. L’immaginario dell’Utopia è un immaginario trascendente,
insomma. L’immaginario dell’Utopia è un immaginario trascendente. Quello della
fantascienza, al contrario , è completamente immanente. Esso non procede da
un’idea originaria o ideale di Natura, ma dalla realtà della natura, così come
il capitalismo in espansione la ha trasformata o la sta trasformando. La
fantascienza classica è la letteratura della produzione, della sua espansione
illimitata, dell’energia e di tutto ciò che essa è in grado di far funzionare
(di “materiale” e di “spirituale”), della macchina come prolungamento dell’uomo
e della sua capacità, del modo di produzione capitalistico che si espande e si
afferma su tutto l’universo. La distanza fra l’Utopia e la Fantascienza non
sarebbe, insomma, altro che quella che separa l’organizzazione del sapere nei
secoli XVII e XVIII nello spazio dell’Ordine, della Rappresentazione,
dell’organizzazione del sapere affermatasi nel XIX secolo attorno al concetto
di Storia.10 Questo potrebbe forse essere messo in relazione con il
passaggio dal carattere spaziale, locativo delle Utopie classiche (l’isola
felice, il paese della Cuccagna) a quello prevalentemente temporale della
Fantascienza (non alludiamo solo ai viaggi nel tempo, ovviamente, ma alla
caratteristica ambientazione nel futuro): “Una borghesia trionfante introduce
una storica rottura epistemologica nell’immaginazione umana, attraverso cui il
tempo lineare o scandito dall’orologio diviene lo spazio dello sviluppo umano
perché esso è lo spazio della produzione industriale capitalistica”11.
Non troveremo utopie in senso classico nella Fantascienza, in altri termini,
perché lo spazio per pensare l’immaginario si è ristretto, nel senso che
l’immaginario si identifica sempre più con la gamma delle varie possibilità
aperte a partire dalla situazione data. L’utopia
di uno sviluppo illimitato e tutto inglobante, al limite l’ideologia
tecnocratica, tipiche della fantascienza “tecnologica”, e l’antiutopia satirica
o drammatica non sarebbero, viste da questa prospettiva, che due facce della
stessa medaglia. Le utopie della fantascienza non possono dunque che essere
“ambigue”, nel migliore dei casi: Anarres reca dentro di sé i germi che
possono, a lungo andare, trasformarla in una nuova Urras. E le stesse eccezioni
più rilevanti a questa difficoltà della Fantascienza di trattare l’Utopia –
vogliamo dire le utopie di società solo femminili, che si incontrano di recente
in varie opere scritte da donne – non ci consegnano certo un messaggio univoco
e refrattario alla sua messa in discussione12.
Dilatazione
dell’immaginario nell’epoca dei modelli
Il discorso potrebbe anche fermarsi qui, se oltre e
accanto a quella che abbiamo chiamato la “fantascienza classica” ci fosse il
vuoto. Non è così. E le tendenze più recenti meritano qualche cenno anche per
il discorso che stiamo tentando di fare qui. Che dopo l’esperienza della New Wave inglese e le sue propaggini
americane si sia scatenato il casino, e la Fantascienza stia mutando sotto i
nostri occhi verso una direzione (o direzioni?) non chiara, è stato già
osservato da chi da più anni di questo genere si occupa.13 Qualche
interpretazione, però, è possibile azzardarla. Ci ha provato Laura serra, per
esempio, in una introduzione all’antologia di Wolheim (Il meglio della fantascienza) del 197714. La Serra
osserva giustamente che un possibile filo conduttore di quell’antologia può
essere visto nel rapporto Realtà-irrealtà, o nei problemi del rapporto
uomo-realtà esterna. In effetti, in alcuni dei racconti di quell’antologia,
questo rapporto tende proprio a vanificarsi. Prendiamo La banca della memoria di John Varley: un uomo rimane intrappolato
in un computer, il cervello collegato alle sue terminazioni, e lì vive alcuni
anni soggettivi (scoprirà poi che in “tempo oggettivo” sono solo alcune ore) di
esperienze indistinguibili da quelle che avrebbe potuto vivere in un vero
“mondo esterno”. Il finale sembra ricomporre l’immagine del mondo e la
distinzione fra reale e immaginario; tuttavia non appare convincente, e le
“scorie” di indistinzione che vi rimangono hanno una corposità ben più
inquietante: un attimo prima che Fingal, l’uomo intrappolato, ritorni alla
“realtà” la sua istruttrice tramite filo, Apollonia, tenta di rassicurarlo
sulla validità degli studi che egli ha compiuto nel calcolatore, e se ne esce
con questa significativa battuta: “Ma non era soltanto un gioco. Lei ha
imparato veramente le cose che ha imparato, ed esse non le usciranno di testa,
una volta ritornato. Certamente quella carta che tiene in mano (la laurea, ndr) è immaginaria, ma chi
crede che stampi quelle vere? Nel computer lei risulta aver superato tutti i
corsi prescritti, e questo è ciò che conta. Al suo ritorno riceverà un diploma
vero”15. Situazione analoga in Problema
d’identità, di Barrington J. Bayley: Naylor viaggia nello spazio con il suo
tespitron, una sorta di apparecchio
televisivo che è capace di produrre all’infinito storie che riproducono schemi
logici e drammatici del mondo esterno e del suo proprietario. Fra la storia del
tespitron e quella che vive Naylor
nella nave spaziale si stabilisce un parallelismo mediato dalle riflessioni filosofiche
del protagonista sul problema del pensiero e dell’identità. Alla fine, punito
per aver abbandonato la “solida saggezza dell’empirismo materialista”16,
Naylor si perderà nello spazio. È
possibile che il problema della distanza fra realtà e immaginazione, fra sogno
e vita cosciente (il problema della diminuzione, al limite dell’annullamento di
questa distanza) sia un filo conduttore utile per leggere le più interessanti
tendenze dell’ultima fantascienza? Io credo di sì. Se Varley e Bayley sembrano
essersi fermati a un certo punto di questo discorso, nei due racconti citati,
Thomas Disch va ben più in là. I suoi racconti17 offrono esempi
convincentissimi di “intrecci” (se così si può dire) o situazioni che a prima
vista appaiono semplici trasposizioni di temi classici della fantascienza – o
più spesso dell’orrore: ma basta fermarsi un attimo ad analizzare la sensazione
stringentissima di angoscia che si prova nel leggerli per accorgersi che essa è
dovuta principalmente all’instaurarsi di una circolarità fra realtà e irrealtà,
in cui quest’ultima ha la stessa corposità della prima, e ne risulta
indistinguibile. Le scale mobili in discesa di un grande magazzino scendono per
centinaia di piani, e il viaggio all’inferno dura giorni e giorni; l’intuizione
del protagonista che, riuscendo ad arrivare in fondo, riuscirà a trovare anche
le scale in salita, è giusta: la morte non sopraggiunge perché il viaggio è
infinito, ma perché sulle scale in salita è appeso il cartello: “Fuori
servizio. La Direzione” (Scendendo).
La Testa non è più una parte del corpo, ma una protesi intercambiabile, con i
suoi input e otput, che garantisce tutte le sensazioni e le prestazioni… di che
cosa? Dell’originale? Non è affatto sicuro che ci sia un originale (Divertitevi con la vostra nuova testa).
John Benedict Harris, teorico dell’architettura, va ad Istanbul per liberarsi
“dal senso di quello che gli era familiare” e dimostrare che le strutture
architettoniche, come ogni altra struttura, sono costruzioni arbitrarie.
Scoprirà che ogni costruzione intellettuale riposa sulla “disponibilità del
pubblico a lasciarsi ingannare, disponibilità che rappresenta il vero cemento
del contratto sociale”, e dovrà subire, suo malgrado, un costante e
inspiegabile slittamento di identità, tornando a vivere con una donna e un
bambino turchi che non aveva mai visto in precedenza ma che aveva abbandonato (Riva d’Asia). E possiamo fermarci qui. In
realtà Disch, fornendoci la descrizione dell’intellettuale che, chiuso
ermeticamente in una stanza senza contatti con l’esterno, produce storie e
scritti che gli vengono sottratti e di cui non sa la destinazione (La gabbia dello scoiattolo), ci parla
generalmente della condizione umana nell’epoca in cui sono i media a costruire il nostro reale,
producendo un enorme vortice di fatti, rappresentazioni, spettacoli, in cui il
senso si distrugge, e la gente va allo stadio con le radioline per essere
sicura che quello che sta vedendo è proprio reale18. Ma non ci parla
delle stessa cose Lafferty, quando ci racconta degli uomini raddoppiati (Cammelli e dromedari, Clem), dei
continenti che si restringono e si allargano (Crisolite intero e perfetto), dell’interscambiabilità fra sogno e
realtà (Sogno), dello sconvolgimento
del tempo (Rainbird, Continua sulla
prossima roccia?)?19. Attenzione: non è Lovecraft, non è la
certezza (che sia certezza solamente letteraria o totalmente personale da poter
essere classificata come malattia mentale, poco importa) non è la certezza,
dicevamo di un ordine sottostante o sovrastante al nostro reale, al nostro
quotidiano, in attesa di risvegliarsi e distruggerci: è la consapevolezza che
l’altro, il totalmente arbitrario, abita tra noi e invade il nostro quotidiano.
Non è il nonsense di Lewis Carrol,
strumento per arrivare ad un nocciolo di verità dissimulato sotto le cose: è la
consapevolezza che realtà e irrealtà sono ugualmente e assolutamente prive di
senso. L’immaginario, buon vecchio rassicurante duplicato – distorto e
deformato – del reale, è cresciuto come quella carta geografica dell’Impero di
cui parla Borges, sempre più perfetta, tanto da coprire esattamente il
territorio che pretendeva rappresentare. Non poteva accadere altrimenti
nell’era dei modelli. “I modelli non costituiscono più una trascendenza o una
proiezione, non costituiscono più un immaginario in rapporto al reale; sono
essi stessi anticipazione del reale, e non lasciano perciò alcuno spazio ad
alcun tipo di anticipazione finzionale; sono immanenti, e non lasciano perciò
alcuno spazio ad alcun tipo di trascendenza immaginaria. Il campo che si apre è
quello della simulazione in senso cibernetico, cioè quello della manipolazione
in tutte le direzioni di questi modelli (scenari, messe in opera di situazioni
simulate, ecc.): ma allora nulla più distingue queste operazioni dalla gestione
e dalla stessa operazione del reale: non è più finzione”20. Non c’è
utopia. E, per restare nel campo della fantascienza, tutto ciò ha dei padri, di
cui non c’è più lo spazio per parlare, qui, ma che non si può fare a meno di
ricordare, ripromettendoci di parlarne quanto meritano in futuro: Philip K.
Dick e James G. Ballard.
Nota 9: AA.VV. Domani
andrà meglio, cit., introduzione
Nota 10: Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967.
Nota 11: Darko Suvin, La Fantascienza e il “Novum”,
cit. p. 7.
Nota 12: I racconti scritti da donne che descrivono
società esclusivamente femminili
meriterebbero più lunga trattazione. Io mi limito a questo breve accenno, visto
che è preannunciato, per il prossimo fascicolo di Un’Ambigua Utopia, un contributo collettivo di alcune compagne.
Nota 13: Cfr. V. Curtoni, G. Lippi, Guida alla fantascienza, Gammalibri,
Milano 1978, pp. 133-137; e anche V. Curtoni, Succede nella SF, editoriale di Robot n. 27 (1978).
Nota 14: L. Serra, I fantastici tempi del combustibile liquido, in: La banca della memoria, Il meglio della
fantascienza nel 1976, Robot n. 30, 1978.
Nota 15: Ibid, p. 48
Nota 16: Ibid, p. 186
Nota 17 La raccolta più ricca è quella pubblicata in
Urania: Thoma M. Disch, La signora degli
scarafaggi, Urania 750, e La stanza
vuota, Urania 752 (1978) da cui sono tratti tutti i racconti citati qui.
Nota 18: Cfr. Jean Baudrillard, L’implosione del senso nei media e l’implosione sociale nelle masse,
in AUT AUT n. 169, gennaio-febbraio 1979, anche, di Baudrillard, All’ombra
della maggioranza silenziosa, ovvero la morte del sociale, Cappelli,
Bologna, 1978.
Nota 19: Raphael A. Lafferty: Strani fatti, (antologia), Robot n. 31, 1978.
Nota 20: Jean Baudrillard, Simulacres et science-fiction, intervento al convegno di Palermo,
cicl. P.2 (traduzione nostra; anche l’intervento di Baudrillard dovrebbe essere
compreso nel volume degli atti del convegno).
(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia n. 2 marzo-aprile 1979)