“E lui chiese a Gargantua
d’istituire il suo Ordine al contrario di tutti gli altri. – Per prima cosa
allora – disse Gargantua – non bisognerà costruirvi muraglie all’ingiro, visto
che tutte le altre abbazie sono fieramente murate.
Francois Rabelais
“L’utopia si presenta come un
giardino ben riuscito: ogni cambio di stagione porta con sé il suo nuovo ciclo
di colori piacevoli, profumi paradisiaci e lavoro da spaccare la schiena.
John Sladek
Utopia e Fantascienza, sembrerebbe, denunciano
parentele e frequentazioni comuni indubitabili. Analogo sembra, se non il
progetto, o l’intenzione, perlomeno il mezzo scelto, la configurazione di fondo
del discorso. Entrambe ci parlano di una realtà “altra”, diversa, lontana nello
spazio o nel tempo; ma entrambe ce ne parlano con più di un occhio aperto e
spalancato sulla nostra realtà. Certo, in modo ben più consapevole negli
utopisti che negli scrittori di fantascienza. Ma è risultato ormai acquisito
generalmente (se escludiamo gli apologeti sciocchi e i detrattori per partito
preso) che, in maggiore o minore misura, comunque a prescindere dalla
consapevolezza che gli autori ne hanno, l’uso dei marchingegni, delle
situazioni, dei personaggi e degli scenari della fantascienza fornisca le opere
in cui questi marchingegni, ecc. ecc. si calano, di un discorso abbastanza
preciso sulla nostra società, sulla nostra realtà. È giusto insistere su questo
punto, perché la sua negazione rappresenta uno dei pregiudizi maggiormente
diffusi sulla Fantascienza, fra chi non la legge come fra chi ne legge troppa
e/o troppo distrattamente. E non parliamo qui dei capolavori, egli autori più
avvertiti e più interessanti della Fantascienza, ma del prodotto, per così
dire, commerciale medio. Anche nelle space
operas, più superficiali, nei più squallidi romanzi di Ron Goulart o di
Vargo Statten (tanto per fare degli esempi e farci qualche altro nemico)
troveremo in controluce un discorso su di noi, su qualche aspetto della nostra
condizione sociale o morale o affettiva; un discorso forse inconsapevolmente da
parte dell’autore, ma intenzionale, sul piano dell’opera. Diverso quindi, tento
per intenderci, da quello che troviamo in altri generi di narrativa popolare,
dal giallo all’orrore al romanzo di avventure. Non che questi ultimi siano, per
così dire, atemporali. È ovvio che ritroviamo anche in loro, per lo stile, per
l’ideologia rispecchiata o proposta, per il tipo di maschere che vi fungono da
personaggi, il marchio del loro tempo, il discorso letterario (e quindi di
potere) egemone. Ma questo nel giallo, o nell’orrore, avviene per così dire,
una volta per tutte: il marchio si imprime nel genere in quanto tale, non nelle
sue variazioni e articolazioni concrete che sono i singoli romanzi e racconti1:
non è così nella fantascienza. Qui il discorso sull’oggi, su di noi, non è dato
una volta per tutte, impresso nelle caratteristiche di un genere che, a meno di
varianti tutto sommato inessenziali, si ritrova immutato nelle varie opere e, in
ultima analisi, riscrive sempre la stessa storia. Qui il discorso è ricco,
articolato, spazia su tutti i temi della condizione umana, non ripete mai lo
stesso cliché: anche se, a voler fare un discorso statistico, è ovvio che
questo discorso risulta nella maggior parte dei suoi casi reazionario,
conservatore, un puro contributo alla conservazione dei rapporti di potere
esistenti.
Utopie
e antiutopie
Ma torniamo all’utopia. Utopia e Fantascienza,
dunque, parlano di altri mondi per parlarci di noi. Da un certo punto di vista
si potrebbe forse sostenere che la fantascienza è la più grande produzione di
utopie del nostro tempo. Per affermare questo occorrerebbe però servirsi di
un’accezione del termine “utopia” un po’ troppo ampia. Identificare l’utopia
con la manipolazione, il gioco letterario sul possibile sotto qualsiasi forma
può essere forse affascinante, ma rischia di far perdere spessore a quello che
l’utopia storicamente è stata. Ora non c’è dubbio (come del resto ha mostrato
bene Henri Desrosche nell’articolo che precede)(*) che l’Utopia
scritta e praticata, dai primordi alla fioritura rinascimentale fino ai grandi
sistemi socialisti del XVIII/XIX secolo, è stata costantemente intesa come
società ideale, perfetta, immagine o simulacro non localizzabile ma proposto
come valore, contrapposto alla società esistente2. Da questo punto
di vista, allora, cercheremmo invano le utopie nella fantascienza. O meglio, ne
troveremmo alcune, ma isolate, eccezionali. E insomma non tali da
caratterizzare la fantascienza come genere “utopico” /e anche questi casi
isolati meritano esami particolareggiati, perché la loro classificazione come
“utopia” non è del tutto pacifica: ad alcuni di essi accenneremmo più avanti).
Se un rapporto più preciso con l’Utopia è intrattenuto dalla Fantascienza, si
tratta piuttosto – sul piano contenutistico e stilistico – di un rapporto
negativo: la Fantascienza abbonda, insomma, di quelle che sono state definite
“antiutopie” o “distopie”. Non è difficile tracciare una linea (neanche poi
tanto contorta) che parta da Wells (in particolare La macchina del tempo) tocchi due o tre scrittori la cui
appartenenza al campo fantascientifico è più reclamata dagli appassionati e dai
critici specializzati che ammessa dagli interessati – diciamo ovviamente l’Orwell
di 1984 e La fattoria degli animali, l’Huxley di Il mondo nuovo, il Vonnegut di Player
Piano – e arrivi alla stagione della Fantascienza di critica sociale –
quella fiorita sulla rivista americana Galaxy
a metà fra i ’50 e i ’60 e nota presso gli appassionati col nome di
“fantascienza sociologica”. Questa linea ha alcune propaggini che arrivano sino
ai nostri giorni, e io vi includerei anche Ursula Le Guin, che è probabilmente
l’ultima grande scrittrice di fantascienza “classica”,3 e ovviamente
in particolare il suo I reietti
dell’altro pianeta, che potrebbe essere annoverato fra le poche eccezioni
“utopistiche” della fantascienza di cui si parlava qualche rigo sopra. Mentre
nella letteratura utopica abbiamo in genere il modello di un Viaggiatore, proveniente
dal nostro tempo, o dalla nostra società, che visita la società alternativa, e
quindi istituisce, intenzionalmente o no, un parallelo fra istituzioni sociali,
politiche, religiose, economiche (e a volte anche vita quotidiana) del mondo
reale e di quello immaginario, il modello del racconto anti-utopico si basa
generalmente su un conflitto fra la società del futuro (o dell’allegoria) e il
Ribelle, che può anche essere portatore delle convinzioni in nome delle quali
l’autore si oppone al tipo di società raffigurata. Il modello “conflitto fra
Ribelle e Società totalitaria” può combinarsi sia con il modello tratto dalla
grande tradizione europea del “romanzo di sviluppo”, sia con il vecchio modello
dei viaggi meravigliosi e della letteratura utopica classica, quello del
viaggiatore. Nel primo
caso, che è quello di 1984, o di Mercanti dello spazio di Pohl e
Kornbluth, il Ribelle è un membro disciplinato della società, che all’inizio ne
accetta almeno apparentemente regole e
convenzioni, ed è portato a ribellarsi per effetto di un processo di
maturazione, di sviluppo individuale, che a poco a poco gli svela la “vera
natura” della società in cui vive e lo convince della necessità di opporvisi.
Nel secondo caso, un magnifico esempio del quale è Un biglietto per Tranai di Robert Sheckley, il protagonista è
invece un viaggiatore che visita la società anti-utopica (convinto magari, come
nell’esempio citato, che sia il paese di Utopia), si rende conto dell’errore e
scatena il conflitto. In entrambi i casi (più nel primo che nel secondo,
evidentemente) la “distanziazione cognitiva” di cui parla Suvin4 –
cioè, nel caso concreto, la coscienza del carattere “antiutopico”, negativo,
della società descritta – è affidata ad un confronto implicito fra la società
narrata e le potenzialità esistenti in quella reale: implicito, cioè non
affidato a prese di posizione di qualche personaggio nella narrazione, ma alla
struttura semantica e sintattica della narrazione. Il
riferimento alla realtà dell’autore è del resto, per Suvin, un carattere di
tutto il genere fantascientifico: “Dal momento che, a differenza del racconto
fantastico o mitologico, la SF non mostra un’altra realtà più alta e ‘più
reale’, ma un’alternativa sullo stesso livello ontologico della realtà empirica
dell’autore, si dovrebbe dire che la correlazione necessaria del novum
è una realtà alternativa, che
possiede un diverso tempo storico
corrispondente alle diverse relazioni umane e norme socio-culturali rese
attuali dalla narrazione. (…) La specifica modalità di esistenza (della SF) è
un’oscillazione di ritorno, che muove ora dalla norma della realtà dell’autore
e del presunto lettore verso il novum…,
in modo da capire gli eventi dell’intreccio, ora in direzione opposta da queste
novità verso la realtà dell’autore, in modo da vederla daccapo dalla nuova
prospettiva che è stata ottenuta. Questa oscillazione (è stata) chiamata
estraniamento da Skhlovsky e Brecht.”5 Naturalmente c’è una
bella differenza fra la “distanziazione cognitiva” della linea
Wells-Orwell-Vonnegut-Pohl/Kornbluth-Shekley-Le Guin, (che ha poi dietro di sé
il grande esempio di Swift) e quella dell’altra linea della “fantascienza
classica”, che dalla space opera
luccicante di acciai e lustrini va al “verosimile” tecnologico predicato da
Campbell e realizzato da Asimov6 e continuato dai suoi stanchi
epigoni di oggi, Niven, Pournelle e simili, la “cara, vecchia fantascienza di
base”, insomma che “altro non è che un implicito programma di riforma della
società secondo principi tecnocratici: il mondo visto come una trappola
perfezionata”7. L’utopia di Asimov, se così la si può chiamare, è
un’utopia della sopravvivenza. “sopravvivenza fisica dell’umanità” non meno che ”sopravvivenza dei dati
essenziali della sua cultura”, della cultura di quella “classe media, spina
dorsale dell’impero americano, (che) si costruisce nelle pagine di questo
scrittore medio e nelle imprese dei suoi
eroi medi un monumento destinato a durare oltre la fine dell’Eternità”8.
Nota 1: Facciamo qui riferimento essenzialmente al
giallo poliziesco di tipo inglese, e non al giallo americano hard-boiled per il quale, perlomeno nel
caso di Chandler e Hammet, il discorso sarebbe diverso.
Nota 2: Darko Suvin, Pour une poétique de la science-fiction, Montréal,
1977,
1.ère partie, chap. IV.
Nota 3: Il significato dell’espressione
“fantascienza classica” sarà più chiaro nel seguito dell’articolo, con esso
intendo delimitare tutte le correnti e gli autori, anche attivi in questi anni,
che non intrattengono alcun tipo di rapporto con la lezione della new wave.
Nota 4: Darko Suvin, op. cit., 1.ère partie, chap.
1.er.
Nota 5: Darko Suvin, La fantascienza e il novum, relazione introduttiva al convegno
internazionale di Palermo, cicl., p. 6 (di prossima pubblicazione negli Atti
del Convegno presso l’editore Feltrinelli).
Nota 6: Non stupisca questo accostamento, inusuale,
nelle periodizzaziobni della fantascienza in uso presso la critica nostrana,
fra la space opera e la FS
tecnologica di Campbell. Le differenze sono molte, ma l’atteggiamento nei
confronti del reale, per il discorso che qui ci interessa, è del tutto analogo.
Nota 7: AA.VV., Domani
andrà meglio, (a cura di T. Disch). Fantapocket Longanesi, Milano 1977;
introduzione di T. Disch, p. 7.
Nota 8: Alessandro Portelli, Il presente come utopia: la narrativa di Isaac Asimov, in Calibano
n. 2, Savelli, Roma, 1978, p. 175 e 179.
(*): Henri Desroche, La cavalcata delle utopie.
(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia n.2 marzo-aprile 1979)
(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia n.2 marzo-aprile 1979)
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