Quest’anno 2018 è il 50° anniversario del ’68 ma è
anche, rispettivamente, il 20° e 5° anniversario della scomparsa di due
protagonisti, scomodi e poco ricordati, di quegli anni di gioiose, quanto
tragiche, rivolte: Primo Moroni e Antonio Caronia. Entrambi, oltre alle lotte,
hanno condiviso una grande passione per due pilastri della fantascienza ribelle
di allora: Philip K. Dick e James G. Ballard. Dalla rivista Decoder n. 11
(Speciale J. G. Ballard) https://archive.org/details/decoder-11 le riflessioni di Primo Moroni su Ballard.
La grande polemica e lo scandalo, per noi
scandaloso, sull’uscita del film Crash, rischia di mettere il bavaglio anche a
J. G. Ballard autore del romanzo omonimo uscito in Italia nel 1990, con grande
ritardo rispetto al mercato inglese (l’edizione originale è addirittura del
1973) e che al tempo ebbe in sorte di finire sugli scaffali dei remainder.
Ballard è considerato nei paesi di lingua anglosassone uno dei più grandi
scrittori contemporanei e una delle firme più prestigiose di “The Guardian”, ma
in Italia è uno scrittore che vende poco e per lo più in edicola. Ma quali sono
i temi centrali della sua scrittura e perché egli stesso viene talvolta
censurato (come accaduto tra gli altri per La
mostra delle atrocità, che nella sua prima edizione americana del 1970, fu
totalmente distrutta dall’editore Doubleday,
preoccupato per le possibili conseguenze legali di uno dei testi
compresi nel libro: Ecco perché voglio
fottere Ronald Reagan)? La radicalità di Ballard sta nel fatto di
estremizzare la modernità, una modernità che diventa mitologia – e proprio per
questo condivisa dai giovani – portando alle più radicali conseguenze
situazioni già esistenti nel nostro quotidiano. In Condominium, un megaresidence diventa teatro, a causa di una serie
di eventi straordinari, di una lotta postmoderna di bande di coinquilini
coalizzati sulla base del piano del proprio appartamento (quasi a evocare con
largo anticipo, estremizzandoli, i livori metropolitani legati alle esistenze
perimetrate, alle difese dei microterritori urbani, ai localismi dei comitati di quartiere). In Isola di cemento un banale incidente
proietta l’autista in una sorta di terra di nessuno, contornata da grande
autostrade che ne impediscono ogni via di uscita. Ma è soprattutto nei quattro
magistrali racconti (Vento dal nulla,
Deserto d’acqua, Terra bruciata e Foresta
di cristallo) che la metafora della modernità dispiegata e i suoi pericoli
raggiungono tonalità quasi apocalittiche e primordiali. Le foreste di simboli
che vi si sovrappongono diventano un evidente archeologia del presente e del
recente passato, e nella loro immediata simbiosi fondono le memorie “genetiche”
dei tempi e delle ere scolpiti nelle tracce dell’inconscio collettivo. I
protagonisti, sono posti di fronte a repentini, sconvolgenti eventi che
modificano la loro relativa tranquillità quotidiana e sono costretti a dare
risposte. Risposte drammatiche che ricercano dentro di loro e nelle immense
risorse del proprio bagaglio di conoscenze e di propri universi vitali. E se è
vero che acqua, sabbia, cemento e cristallo sono elementi che si incontrano in
tutta l’opera di Ballard – e che gli stessi hanno molteplici significati
simbolici all’interno dei quali l’estetica ballardiana costruisce questo inno
alle “infinite possibilità del presente” – altrettanto chiara risulta
l’ambivalenza delle scelte legate ai dilemmi della modernità ininterrotte di
questo secolo morente. E qui siamo in tutta evidenza a Marshall Berman che
rilegge il Marx della rivoluzione ininterrotta di sé e del rapporto mortale tra
uomo, natura e tecnica, tra epistème e
technè. Spesso, riconosce Berman, “il
prezzo di una modernità in via di sviluppo e in espansione è la distruzione non
solo di situazioni e ambienti tradizionali e premoderni, ma – e qui è la vera
tragedia – anche di tutto quanto vi è di più bello e vitale nello stesso mondo
moderno”. I personaggi di Ballard sono costantemente posti di fronte a questi
dilemmi, costretti a sfidare forze materiali, economiche e tecnologiche
spaventose, a morire a rinascere di sé e delle proprie appartenenze e
convinzioni, come in Guernica di Picasso dove le figure
lottano per tenersi in vita, proprio mentre urlano la loro morte. C’è poi la
scrittura e lo scavo dei personaggi e delle loro psicologie. Qui tutta la
storia personale di Ballard (basti pensare all’Impero del sole) risulta nella sua complessità. Ma ciò che poteva
essere rimosso come in incubo, un trauma originario, diventa invece materia
vitale di una scrittura tesa a trasformare l’autore stesso in un raffinato
psicologo delle situazioni estreme. Si comprendono quindi le difficoltà di
comprensione di questi universi estetici. È un segno dei tempi e della
staticità di molte soggettività. Osserva Nietzsche: “C’è in giro una
moltitudine di ’piccoli suonatori di corno’, la cui soluzione al caso e alla
difficoltà del moderno è cercare di non ‘non vivere’ affatto: per loro
‘divenire mediocri’ è ormai l’unica morale che produce senso”. Qui sta la
grandezza di Ballard e delle sue sfide, sfide contro le quali l’uomo cerca una
nuova difficoltosa e avventurosa via per “ricollocarsi” in un tempo psichico
interiore che spesso si dilata nell’allucinazione. E che la ricerca sia
difficile lo testimonia, più di tutto, il suo stile che ricrea l’angoscia
contemporanea del vivere (sbaglia totalmente Tullio Ketzich su “Corriere della
Sera” a definire la scrittura di Ballard come involuta) Ballard è sempre stato
uno scrittore ripetitivo e ossessivo, e proprio in Crash, lo è come non mai. Qui, infatti, la franchezza sessuale e le
lunghe descrizioni di ferite e mutilazioni, la strana radicale unione tra carne
e macchina (che Cronenberg riproduce solamente in maniera moderata) si
esplicitano in una scrittura che è più medico scientifica che letteraria,
perfetta immagine di rapporti sociali totalmente disgregati e vissuti senza
alcun sentimento: un incubo ad aria condizionata molto umida qual è la nostra
epoca.