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domenica 25 febbraio 2018

Antonio Caronia: Incarnazioni dell'immaginario


Procedimento dell’arte è il procedimento dello “straniamento” degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato.    Viktor Sklovskij

Sono lontani gli anni in cui, preparandoci (senza saperlo, è ovvio) al nostro sessantotto politico e sociale, ci sottoponevamo, emozionati ma fieri di poter guardare con occhio nuovo fenomeni che fino a allora non ci erano parsi rilevanti, a alcune piccole e grandi rivoluzioni culturali, per così dire, propedeutiche. Il 1965, per esempio, se non erro, è l’anno in cui comincia le sue pubblicazioni “Linus”; l’anno prima era comparso Apocalittici e integrati. Guidati da nomi prestigiosi come appunto Oreste del Buono (che di lì a pochi anni avrebbe sostituito Gandini alla direzione di “Linus”) e Umberto Eco, e con numi tutelari ancora più prestigiosi, e adeguatamente leggendari, nella fattispecie e rispettivamente Vittorini e McLuhan, scoprivano che la cultura di massa poteva essere non solo consumata passivamente, ma anche fatta oggetto di una riflessione che ce ne restituisse motivazioni, finalità e procedimenti. La fruizione poteva essere più consapevole; e se c’erano “messaggi” da cui difenderci, la difesa poteva essere non più l’esorcismo, ma qualcosa che assomigliasse di più a un’analisi critica. Forse pecco di individualismo, e faccio indebite generalizzazioni: ma chi non ha cominciato con un brivido sottile la Lettura di Steve canyon? E all’epoca, chi non era molto addentro ai circoli accademici, o non frequentava costantemente le cose francesi, non sapeva che tutto questo era “semiologia”… Comunque, e qualunque sia il giudizio che si voglia dare di quei primi studi e di come essi abbiano influito su un paio di generazioni, dobbiamo ammettere che, almeno per il fumetto, il discorso ha funzionato: nel senso che ha contribuito a creare, per quella forma espressiva, una sensibilità minimamente più avvertita e alcuni strumenti critici che potevano, quantomeno, essere oggetto di discussione. La fantascienza, bisogna dire, non ne è uscita così bene, e alcuni equivoci che ci trasciniamo dietro ancora oggi hanno forse la loro origine, o si sono rafforzati, in quegli anni. Uno di questi equivoci – e mi sentirei quasi di dire il principale – è una definizione della fantascienza (quella scritta) come “letteratura di idee.” Spiegherò meglio, tra un attimo, che cosa intendo dire. Bisogna però notare preliminarmente che la fantascienza, unica o quasi tra le forme letterarie di massa, ha dato vita a un fenomeno di aggregazione dei lettori attorno a club, riviste, e forme simili, che è di un certo interesse: il fenomeno appunto dei fan (abbreviazione americana da fanatic, appassionato, fanatico). I fan stampano rivistine non professionali, amatoriali (le fanzine, fan-magazines, cioè riviste dei fan), sviluppano discussioni interminabili su autori, tendenze, edizioni, partecipano alle conventions, cioè ai congressi in cui vengono premiate annualmente le migliori opere di fantascienza, e sviluppano in genere un atteggiamento di difesa esclusiva, settaria, della fantascienza rispetto a ogni altra produzione letteraria e cinematografica. Questo fenomeno, che già negli USA, sua patria d’origine, aveva dato luogo a non pochi aspetti grotteschi e risibili, una volta trasportato in Italia ha finito per limitarsi quasi solo a questi ultimi. Eppure non mancano, nel fandom, nel mondo dei fan, o in genere dei lettori di fantascienza, persone con altri interessi culturali e umani, per i quali, prima o poi, il problema del rapporto con altre forme di cultura di massa e con la stessa cultura “ufficiale” si pone. Questo fenomeno si manifestò per la prima volta in Italia, proprio negli anni Sessanta e trovò nelle iniziative della Casa Editrice La Tribuna, di Piacenza un primo naturale punto di coagulo. Dobbiamo infetti ai curatori delle riviste “Galaxy” e “Galassia” di quegli anni, e principalmente a Roberta Rambelli e Ugo Malaguti, il primo tentativo di avviare un discorso critico sul genere dall’interno del fenomeno “fantascienza.” Si trattò – forse necessariamente, dato il carattere iniziale del tentativo e il tipo di pubblico a cui si rivolgeva – di un discorso ancora rozzo e ingenuo, che sembrava più che altro preoccupato di fornire motivazioni purchessia a chi leggeva fantascienza senza doversi, per così dire, vergognare rispetto a chi leggeva “letteratura” vera e propria. Di qui l’atteggiamento, di cui i due nomi citati fornirono l’esempio più chiaro in quegli anni, di amore-odio della fantascienza italiana nei confronti della letteratura ufficiale (il mainstream, la corrente principale, come si scriveva e si scrive negli ambienti fantascientifici): da un lato si rivendica l’autonomia, e quasi una naturale supremazia della fantascienza rispetto al mainstream, identificato  con la sua tendenza dominante, la narrativa realistica; dall’altro si insisteva sulla totale accettabilità “letteraria” della fantascienza, si respingeva sdegnosamente la sua classificazione come “letteratura di serie B,” in nome di criteri e parametri, tutto sommato, presi a prestito proprio dalla letteratura ufficiale. I primi tentativi di analisi delle opere di fantascienza oscillavano, allora, tra la rivendicazione di valori propriamente “stilistici per quelle opere , e la totale messa tra parentesi del problema dello stile a tutto vantaggio dell’esaltazione dell’intreccio e dei contenuti presenti. Ma il materiale era quello che era: e se Asimov, Heinlein, Simak – gli autori degli anni Quaranta e Cinquanta che si andavano conoscendo allora da noi – potevano benissimo reggere il confronto, diciamo, con Cronin, anche le loro opere migliori non potevano pretendere di offuscare, sempre per fare un nome, Faulkner, e non diciamo il Faulkner di L’urlo e la furia, ma neppure quello di La paga del soldato. Era inevitabile, perciò, che i primi tentativi di interpretazione e valorizzazione della fantascienza pencolassero sempre più verso quella implicita definizione di questa forma narrativa come “letteratura di idee” che in parte ci trasciniamo dietro ancora oggi. Inevitabile voglio dire, non in assoluto, ma relativamente al clima culturale di quegli anni, in Italia, dominato in tutti i campi dal fantasma di croce e dalle presenze, non fantasmatiche invece, dei crociani di tutti i tipi, per cui ogni analisi letteraria si misurava sull’immarcescibile binomio “forma-contenuto,” e si precludeva così qualsiasi via verso la comprensione dei fenomeni letterari e in genere di scrittura in termini di autonomia (o eteronomia) del linguaggio. Il Gruppo ’63 era già nato, e la sua azione, nel bene e nel male, si faceva sentire qua e là. Non purtroppo, per quanto riguarda la fantascienza, se anche chi lavorava in quegli anni a una comprensione della cultura di massa in termini non più subalterni e soffocati dal dilemma (crociano, non si scappa!) “poesia-non poesia,” finiva per portare acqua, forse involontariamente, alla definizione della fantascienza come “letteratura di idee.” Capitava per esempio a Umberto Eco di recensire alcuni volumi di fantascienza in un articolo sul “Corriere della Sera” del 1963 (poi ristampato nel già citato volume Apocalittici e integrati) dal quale traspariva sì l’intenzione di strappare questo genere alla “letteratura di puro intrattenimento” accreditandolo come “ala progressista” della cultura di massa; ma la definizione che poi ne veniva data era quella di “letteratura allegorica a sfondo educativo,” con il conseguente invito a esercitare su di essa quella “’critica dei contenuti’ che in altra sede, applicata ad esperimenti artistici volti a un discorso attraverso le strutture formali, ci appare superficiale, dogmatica, burocratica e zdanoviana.” Non si vogliono far polemiche retrospettive su cose di poco conto (le posizioni di Eco, tra l’altro, hanno avuto tutto il tempo di affinarsi, in questi diciassette anni). E poi la fantascienza che si conosceva in Italia, allora, era quella che era. Ma l’articolo citato mi sembra, obbiettivamente, abbastanza rappresentativo delle opinioni prevalenti della critica anche più “impegnata” sulla fantascienza: in quegli anni, e non solo in quegli anni. Certo, oggi che almeno una tendenza – e non insignificante – della fantascienza si è qualificata proprio sul terreno degli “esperimenti volti a un discorso attraverso le strutture formali,” lo strumento della “critica dei contenuti” appare finalmente inadeguato: e bisognerà decidersi a affrontare il problema in termini insieme più globali e modesti, approfittando fra l’altro del fatto che una serie di categorie e di strumenti messi a punto da varie tendenze della critica americana ed europea (sia fantascientifica in senso stretto, sia universitaria) comincia, con il solito ritardo, a circolare anche da noi.1 Un’osservazione preliminare potrà contribuire a mettere a fuoco i problemi. La fantascienza non è l’unico, fra i generi letterari della cultura di massa, a vantare ascendenze nella cultura ufficiale di secoli passati: il giallo, per dirne uno, ha qualche freccia al suo arco da questo punto di vista (per esempio Poe). Ma è l’unico per cui le (reali o supposte) ascendenze si spingono così indietro e in modo così ramificato nel passato: alla fantascienza sono stati rivendicati, con maggiore o minor fondamento, Luciano di Samosata, i viaggi fantastici medievali, tutta la tradizione letteraria utopica e antiutopica da Moro, Campanella, Rabelais, fino a Swift, Voltaire, il socialismo utopistico e chi più ne ha più ne metta, per finire, naturalmente, a Wells. Non intendiamo, né in questa introduzione, né nel corso del libro entrare direttamente in questa discussione, che divide da anni tutta la critica. Considereremo “fantascienza” quello che si intende generalmente con questo nome in senso commerciale, cioè la produzione che appare con questa etichetta, negli USA e nel resto del mondo, dal 1926 in poi, dalla fondazione cioè di quella che viene da tutti considerata come la prima rivista di fantascienza moderna, “Amazing Stories.” Ciò non impedisce, tuttavia, che si possa cercare di dare una spiegazione a questa a volte forsennata ricerca di quarti di nobiltà. Il fatto è che la fantascienza presenta, a prima vista, alcuni caratteri che la distaccano dagli altri generi di narrativa popolare. Il più importante di questi caratteri è quello che si potrebbe definire un’estrema mobilità delle convenzioni e delle forme narrative. Anche limitandoci alla fantascienza in senso stretto, escludendo cioè tutti gli altri generi più propriamente “fantastici” (horror, fantasia eroica, ecc.) che il mercato editoriale le associa, è evidente la grande varietà di situazioni, schemi narrativi, personaggi, scenari: laddove gli altri generi si limitano a riscrivere in eterno variazioni dello stesso schema-base. Prendiamo per esempio il giallo, il suo schema è invariabile: c’è una situazione iniziale di equilibrio, più o meno stabile, di cui – all’inizio o nel corso del libro – ci vengono forniti i dati, il parallelogramma delle forze; poi questa situazione viene rotta dal crimine, che introduce una situazione di disordine e incertezza; segue l’intervento delle forze della razionalità (il detective, il commissario) che ripristina il vecchio equilibrio. Nel giallo, come in altri generi di narrativa popolare, il marchio dell’ideologia, il “senso” della narrazione è in qualche modo impresso nel genere in quanto tale nello schema base, e le possibili evasioni sono limitate (anche se significative: Hammett, Chandler, e tutta la hard boiled school, per esempio). Nella fantascienza non è così: l’ideologia (quella dominante, in genere) deve trovare di volta in volta una mediazione con il singolo intreccio, con la singola storia, con il complesso della singola narrazione; deve spesso, combattere una battaglia più dura per affermarsi. E questo genera, nelle opere migliori ma spesso anche in quelle minori, le più superficiali, quel senso di ambiguità che, azzarderei, è quasi più connaturato alla fantascienza del famoso sense of wonder, il senso del meraviglioso che imperava nella fantascienza delle origini. Che tutta la cultura di massa, e la narrativa popolare in particolare, ci parli di noi, dei rapporti sociali, di potere, che ci attraversano, anche quando fa le viste di parlarci d’altro, è ormai comunemente accettato. Che la fantascienza ce ne parli in modo più ricco e articolato, in quanto genere, rechi in sé la potenzialità di un discorso più preciso e aderente alla nostra condizione, è paradossalmente da collegarsi con il suo essere svincolata da convenzioni narrative di rispecchiamento realistico della realtà. La fantascienza gioca direttamente con l’immaginario, esplora i campi del possibile. Ma è un possibile, un immaginario, storicamente determinato. Per questo i ricercatori di archetipi, gli esegeti alla Elemire Zolla della “sostanza ideale eterna” che dal mito e dalla fiaba si trasformerebbe nella fantascienza, sono condannati a non cogliere mai che un aspetto di questa narrativa sfuggente. O a limitare le loro analisi più brillanti alle ricostruzioni lucide e un po’ fredde, degli universi mitico-eroici, da Tolkien in giù. I quali, fra l’altro, non sempre si dimostrano refrattari a analisi più storicamente ravvicinate. Perché i confini o le configurazioni dell’immaginario – è certo banale ripeterlo – sono funzione delle possibilità immaginative collettive (sociali) di una data epoca, e le mappe dei suoi terreni si modulano in relazione ai bisogni predominanti, o a quelli emergenti, visto che è proprio della scrittura, in tutte le sue manifestazioni, portare alla luce il corso sotterraneo dei fiumi, e perciò anticipare i tempi, anche, di bisogni che altrimenti non si riconoscerebbero come sociali. Ha notato Darko Suvin che “mutanti o Marziani, formiche o nautiloidi intelligenti possono essere usati come significanti, ma possono significare solo relazioni umane, dal momento che – almeno finora – non ne possiamo immaginare altre.”2 Rovesciando l’affermazione , si può dire che la ricchezza di significati che la fantascienza ha a disposizione per la rappresentazione dei rapporti umani garantisce, a livello di conversazioni narrative del genere, risultati emozionali e estetici, nel lettore, più profondi. Suvin osserva ancora che il procedimento di cui si serve la fantascienza è molto simile all’effetto di “straniamento” che, secondo Sklovskij e i formalisti russi (ma anche secondo Brecht) costituisce l’essenza del procedimento artistico. L’ambiguità di cui parlava Solmi3 (altri direbbe, forse meno felicemente, il senso del meraviglioso) nella fantascienza è effetto proprio della contraddizione fra lo scenario, l’intreccio, gli elementi di novità scientifica (in senso lato) e le emozioni, i sentimenti dei personaggi. I rapporti umani, in genere gli elementi della nostra esperienza sociale (nostra e dell’autore) vengono proiettati su uno sfondo insospettato, inedito, e così “straniati” risultano più nitidi, in modo che possiamo vederne particolari che ci sarebbero altrimenti sfuggiti, interrogarne aspetti che ci sarebbero altrimenti sembrati irrilevanti. Né tutto ciò è limitato alle opere più nettamente “d’anticipazione.” Che lo sfondo sia il futuro (un diverso tempo), le lontane galassie (un diverso spazio), o un mondo parallelo (un diverso spazio-tempo), lo straniamento opera fondamentalmente con lo stesso meccanismo. Da questo punto di vista, appare più evidente la parentela che lega la fantascienza alla letteratura utopica. C’è chi ha sostenuto che la fantascienza è la più grande produzione di utopie del nostro tempo. Se questo vuol dire che la fantascienza è un’ennesima variazione del discorso sull’”altro,” che sia l’utopia che la fantascienza ci parlano di una realtà con gli occhi bene aperti e spalancati sulla nostra, il rilievo è essenzialmente giusto. Anche nella fantascienza, come in un gioco di specchi, il mondo reale e quello fittizio si rimandano, amplificati e sottolineati dal grottesco, dal patetico, dall’ironico, da cento altri procedimenti di straniamento, figure, frammenti di realtà, teorie e pratiche sociali. Ma se non vogliamo ridurre l’utopia e la fantascienza alla manipolazione, al gioco letterario sul possibile sotto qualsiasi forma, bisognerà anche registrarne i tratti distintivi e le opposizioni.4 E intento dire subito che la stagione dell’utopia, che ha coperto parecchi secoli della cultura occidentale, da Thomas More a Fourier, è oggi irrimediabilmente finita.5 È finita perché non ci sono più le condizioni materiali e culturali che la hanno resa possibile. L’utopia classica è fondamentalmente religiosa. Religiosa non nel senso di “irrazionale,” ma nel senso di “connotata da una tensione verso il trascendente,” e questo al di là della valenza politica dei singoli prodotti letterari e delle ideologie degli autori (per cui, per esempio, possiamo distinguere nell’utopia rinascimentale una corrente “progressista” – uso questi termini con un certo disagio – rappresentata da More e Rabelais, e una conservatrice-autoritaria, iniziata da Campanella e risultata poi prevalente fino al XVIII secolo). L’utopia al contrario, si vuole razionale, e non senza fondamento. Essa contrappone al disordine esistente, alla società così come si presenta, essa sì, irrazionale, il sogno di una diversa razionalità. Una razionalità che è sempre, in forme diverse, conciliazione dell’uomo con la natura, o tramite la restituzione di una natura incontaminata, ricondotta a una purezza originaria – come nelle utopie che riprendono i motivi classici dell’età dell’oro -, o tramite una rifondazione della natura (e, insieme, della società). Questa riconciliazione dell’uomo con la natura, questa nuova razionalità, è il fondamento di un ordine ideale, la cui superiorità indiscutibile riposa, non può che riposare, su un’idea di divinità. La fantascienza delle origini, quella degli anni Venti e Trenta, dei pulps (le riviste popolari a basso prezzo come “Amazing Stories,” e quella successiva degli anni Quaranta, dominata dalla rivista “Astounding Science Fiction” e dal suo direttore John W. Campbell, riprende a modo suo l’ispirazione dell’utopia classica. Che lo scenario sia quello della space opera (il “melodramma spaziale” che riscrive ambientandolo nello spazio il vecchio romanzo di avventure, marinaro, picaresco o western), o quello della più rigorosa ”fantascienza tecnologica” predicata da Casmpbell, in cui il “verosimile scientifico,” o almeno tecnologico, gioca il ruolo centrale, si legge nella fantascienza di questi anni uno spirito di fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di realizzazione, tramite appunto la scienza, che non è distante dall’ispirazione utopica. Ma la religiosità dell’utopia classica è tramontata per sempre. Tanto l’immaginario dell’utopia è trascendente, quanto quello della fantascienza è immanente.6 L’immaginario della fantascienza non procede da un’idea originaria di natura, da una natura ideale, ma lavora sulla proiezione: parte dalla natura come è stata trasformata dal capitalismo in espansione, e su quella lavora, estrapola, proietta. È un immaginario collegato al sogno di un’espansione illimitata della produzione, un sogno che non è più trascendente, perché non fa altro che  estendere all’infinito (ma un infinito che non è altro che un limite matematico, non una dimensione radicalmente diversa e superiore come quella dell’utopia) le tendenze in atto. Questa gigantesca metafora della produzione e della sua espansione illimitata, questa saga dell’energia autoriproducentesi in tutte le sue forme, questo inno alla tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle sue capacità, dopo gli anni dell’apprendistato delle mediocri avventure spaziali, esplode con l’”era Campbell.” Gli autori che si formano e iniziano a scrivere in quel periodo sono i primi “leggibili” ancora oggi, anche da parte di chi sia scarsamente interessato all’archeologia del genere; e sono rimasti in effetti fra i più popolari: Heinlein, Van Vogt, e soprattutto Asimov. Tutto in questi autori, dal ruolo delle macchine, alle figure dei robot e degli androidi, trasparenti metafore di una forza-lavoro che pone problemi di disciplina o crea crisi sempre puntualmente risolte dall’intervento umano,7 agli alieni visti come minacciosi invasori (attuali o potenziali), tutto concorre a configurare la fantascienza di quegli anni come la rappresentazione fedele, anche se straniata, delle condizioni per cui la macchina produttiva possa continuare a produrre e delle crisi che, all’interno o dall’esterno del sistema, possono inceppare quella macchina. Non mancano , anche in quegli anni, figure anomale rispetto alle tendenze predominanti: per esempio Sturgeon, che inizia un discorso molto personale, e che trova all’inizio pochi riscontri, sui mutanti, i diversi, come portatori di nuove potenzialità della specie, ma circondati dall’incomprensione dei benestanti, dalla gente comune chiusa nel cerchio ristretto dell’egoismo. O, in misura minore, Simak, creatore di scenari pastorali e di figure che incarnano un sogno di fratellanza cosmica che si scontra pressappoco con gli stessi limiti denunciati da Sturgeon. Ma, a ben vedere, neppure in questi casi cambiano le premesse di fondo: che sono poi quelle di un umanesimo integrale, e a volte un po’ ingenuo, di una fiducia speranzosa nella capacità dell’uomo a risolvere tutte le contraddizioni di cui si trova prigioniero. Le cose cambiano un po’ con la metà degli anni Cinquanta, l’affermarsi della rivista “Galaxy” e l’emergere di un nuovo filone tematico, quello che sarà chiamato, con qualche forzatura, della “fantascienza sociologica.” Gli autori che emergono in quel periodo, Pohl e Kornbluth, per esempio, o Sheckley, battono nuovi terreni: praticano più sistematicamente l’anticipazione, rendono più esplicito il legame tra fantascienza e realtà nelle visioni di società che sono, in modo molto trasparente, la nostra – con pochi elementi di estrapolazione, tendenze già operanti oggi e portate al parossismo, al grottesco. Sono le “nuove mappe dell’inferno” di cui parlava un critico inglese in quegli anni. È un filone che, attraverso Wells, si ricollega in fondo a Swift a alla tradizione dell’”antiutopia,” e produce in effetti alcuni (non moltissimi, è vero) interessanti esempi di vera e propria critica sociale, in genere attraverso la satira. L’ottimismo scientista-tecnologico di Asimov, o quello umanistico di Sturgeon lasciano il posto a un pessimismo sicuramente più fondato: comincia a apparire, anche nella fantascienza, un embrionale coscienza dei difetti insiti nella macchina della produzione e degli inferni che a essa necessariamente si accompagnano. In realtà, anche la fantascienza sociologica non riesce a uscire da una convinzione di fondo, che essa esprime in negativo, con l’ironia e magari anche con la disperazione dell’antiutopia, invece che con l’ottimismo un po’ beota dell’”utopia tecnologica”: quella di una intrinseca razionalità del reale. Che questa razionalità sia data o da scoprire, che la conciliazione degli opposti sia implicita nel potere della scienza e della tecnologia così come esse si presentano, o debba essere perseguita con una critica, anche feroce e radicale, del loro uso, è comunque quella convinzione di fondo che accomuna tutti gli autori e le tendenze della fantascienza che si potrebbe definire “classica.” Ed è la convinzione, in fondo, della neutralità della scienza e di un possibile rovesciamento del suo uso in senso umanistico. Questa idea della conciliazione degli opposti tramite la scienza è molto chiara nell’ultima grande scrittrice di fantascienza classica, che ha portato alle conseguenze più estreme e lucide, nelle nuove condizioni degli anni Settanta, quelle premesse: Ursula Le Guin. Il substrato scientifico dei suoi romanzi, come in molti altri autori di fantascienza contemporanei, non è più costituito principalmente dalle scienze naturali o dalla tecnologia come dato puramente materiale. Nelle sue opere vengono continuamente rielaborati contributi della sociologia, dell’antropologia, della scienza politica; la tecnologia è analizzata come medium e costituente dei rapporti sociali. Dal punto di vista tematico, la Le Guin, non c’è dubbio, segna un passo avanti deciso sia rispetto a Asimov che rispetto alla fantascienza “sociologica” (Un’ambigua utopia è il sottotitolo del suo romanzo The Dispossessed, barbaramente tradotto da noi come I reietti dell’altro pianeta) la porta a esplorare le contraddizioni di molte tematiche a noi vicine, e addirittura – appunto in The Dispossessed, forse non la sua opera più bella, ma quella da noi più famosa – a interrogarsi sulle condizioni di realizzabilità e di sopravvivenza della rivoluzione. Ma proprio da I reietti appare chiaro come essa non ci proponga altro che una versione estremamente più avvertita e raffinata del razionalismo che informa tutta la fantascienza classica. Shevek, il protagonista del romanzo, è uno scienziato, l’ultima grande figura di scienziato, forse, della fantascienza, e per tutto il libro si dedica alla ricerca di una nuova teoria fisica, la Teoria Temporale Generale, capace di dar conto, insieme, dei fenomeni legati alla Sequenza e alla Simultaneità. Non ci vuole molto a riconoscere in questa teoria la realizzazione del vecchio sogno del razionalismo occidentale, una filosofia della conciliazione, capace di unificare – almeno nella teoria – tutti gli aspetti del reale, essere e divenire, sincronia e diacronia, storia e struttura.8 Ora tutta questa fantascienza, sia quando si incarni in opere mediocri come quelle di Asimov, sia quando produca invece dei belli (a volte bellissimi) romanzi classici come quelli di Ursula Le Guin, appare singolarmente inadeguata a renderci di, o semplicemente a accompagnarci nel labirinto frammentato di fenomeni, esperienze, riflessioni parziali che caratterizzano la nostra vita. E anzi, si vorrebbe dire, tanto più anacronistico e in fondo consolatorio appare il tentativo di riproporci, oggi, visioni globali e totalizzanti dell’esperienza, staccate dalle condizioni materiali e culturali che resero possibile, per esempio, la grande stagione campbelliana. Quello che mancava, in tutta quella produzione, e anche in quella successiva fino agli anni Sessanta, era una conoscenza precisa dei temi affrontati, del loro rapporto con le condizioni più generali esistenti nella vita e nella società, degli strumenti espressivi utilizzati. Un solo esempio, fra i tanti possibili. Nella fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta, a un esame anche superficiale, uno dei temi ricorrenti – anche se spesso camuffati – appare quello del corpo. Si tratta con tutta probabilità del riflesso, nell’immaginario collettivo, di paranoie profonde della società americana di quegli anni. La frequenza di racconti e romanzi i cui protagonisti intrattengono un rapporto disturbato col proprio corpo allude forse al processo continuo di espropriazione della sfera fisica e materiale prima ancora che ideologica o economica, in atto nelle società industriali massificate. L’esempio più tipico di queste tematiche negli anni Cinquanta è il famoso racconto di Pohl, Il tunnel sotto il mondo, il cui protagonista, condannato a vivere in eterno la stessa giornata, scopre alla fine che il suo cervello, staccato dal corpo ormai morto, è stato collegato a un minuscolo robot, che vive con migliaia di altri in una città miniaturizzata, teatro di indagini di mercato a basso costo per un colosso dell’industria pubblicitaria. La metafora, se vogliamo, è trasparente: ma è talmente generale, così poco specificata, il riferimento agli incubi e alle paure vissute è così poco presente alla coscienza del testo, da essere, in ultima analisi, esorcizzato. C’è sempre un apriori non discusso, tacitamente accettato, in questa fantascienza. Sono le strutture profonde, sotterranee, locali del potere. È questo che fa si che il discorso sul potere in tutti questi autori, in Pohl come in Sturgeon, sia sempre così monco: il potere viene di volta in volta identificato con i suoi simboli più appariscenti (industrie, governi) o con l’abilità a sfruttare gli umori delle masse o i pregiudizi più diffusi, mai analizzato nei suoi micromeccanismi. Di qui, dalla presunzione – collegata con quella visione del potere – di “neutralità” del linguaggio, deriva la modestia, a volte la sciatteria dello stile: non solo e non tanto dal vincolo dei “tanti centesimi a battuta” (che pure gioca il suo ruolo) o dell’effettiva modestia delle capacità degli autori. Può sembrare strano, nel pieno degli anni Cinquanta e Sessanta, l’assenza di ogni influenza del dibattito sulla crisi e la nuova (ipotetica) fondazione delle scienze deduttive e empiriche che si era svolto dall’inizio del secolo agli anni Venti e Trenta, o anche, più concretamente, l’assenza di tracce visibili della trasformazione del costume, del modo di pensare, dei rapporti degli uomini fra loro mediati dalla crescita e dall’invadenza delle tecnologie, insieme atomizzanti e totalizzanti. Si tratta di un fenomeno di scarto temporale, forse inevitabile nelle forme letterarie di massa. Ma era anche inevitabile che questa influenza, prima o poi, si producesse. Tra la metà e la fine degli anni Sessanta una serie di fenomeni sconvolgono il mondo della fantascienza. Ecco come li commenta una recente storia della fantascienza: “Il dato indiscutibile è che, da allora in poi (la fine degli anni Sessanta N.d.A.) non si è più in grado di tracciare un sentiero omogeneo per gli sviluppi della fantascienza americana. Se prima, di decade in decade, erano esistite direttive generali cui si attenevano la maggioranza degli scrittori, dando vita a movimenti di precisa consistenza, gli anni Settanta hanno portato alle estreme conseguenze quei germi di disfacimento che erano da sempre impliciti.”9 La malattia, questa volta, era scoppiata in Inghilterra, ma alcuni germi incubavano forse da tempo anche oltre l’Atlantico. Nel 1964 un giovane scrittore inglese, Michael Moorcock, la cui esigua produzione precedente ((e, a dire il vero, anche gran parte di quella seguente) non avrebbe fatto sospettare le sue simpatie per una fantascienza “non ortodossa,” assumeva la direzione della rivista “New Worlds,” trasformandola in breve tempo in un “covo” delle tendenze più sperimentalistiche  e eversive dentro la fantascienza. Cominciava il fenomeno della cosiddetta new wave, la nuova ondata, che avrebbe suscitato a sua volta un’ondata, forse ancora più massiccia, di polemiche fra gli appassionati. Coloro che erano abituati a una fantascienza più tradizionale, in realtà, mostrarono di non gradire le innovazioni: “New Worlds” chiudeva sei anni dopo, e con essa pareva esaurirsi la fase più virulenta dell’innovazione. Ma solo apparentemente. La malattia aveva avuto tutto il tempo di contagiare anche gli USA. Nel 1967 un altro giovane leone, Harlan Ellison, pubblicava un’antologia destinata a far storia: Dangerous Vision (Visioni pericolose). Il grado di innovazione formale era più limitato che in “New Worlds,” ma in quella antologia vecchi e nuovi autori facevano a gara a scandalizzare i lettori affrontando tematiche fino allora marginali, se non bandite, dalla fantascienza: il sesso, e i tabù connessi, come quello dell’incesto, l’ateismo, l’antiimperialismo. Sedimentatasi un attimo, la new wave aveva in effetti prodotto, o comunque influenzato, una nuova leva di autori che mostravano di sapersi facilmente sbarazzare di tutti gli impacci che avevano intralciato la fantascienza precedente. Con Delany, il primo Zelazny, Disch, Lafferty, Spinrad, Joanna Russ, James Tiptree jr. (pseudonimo di Alice Sheldon), la fantascienza entra in una fase “adulta”: affina i suoi strumenti di indagine, si avventura sul terreno rischioso ma fecondo di una critica a fondo delle categorie di “reale” e “immaginario,” acquista una consapevolezza più precisa dello strumento linguistico con cui si trova a operare. Certo,, tutti questi nomi (a cui altri se ne sono aggiunti più recentemente, fra cui i più interessanti sembrano Varley e la Joan Vinge) non costituiscono affatto una “scuola” o tendenza omogenea, e l’uno o l’altro autore accentuano – come magari lo stesso autore di volta in volta – l’una o l’altra direzione d’i indagine. Nel frattempo, come è ovvio, Asimov e Heinlein continuano a scrivere, Sheckley sopravvive a se stesso con funambolismi sempre più stanchi, e non mancano i nuovi autori (come Niven, o Haldeman) che con perseveranza degna di miglior causa battono i vecchi sentieri dell’avventura spaziale o della fantascienza tecnologica “pura.” A noi sembra però che le strade più interessanti siano state imboccate dagli autori che dicevamo prima. Se non altro perché si muovono in sintonia con quanto va succedendo (anche qui, in modo magari disordinato e frammentario) fuori dalla fantascienza. Una delle caratteristiche di questa “nuova fantascienza,” esemplificata meglio che da altri forse da Disch e Lafferty, è per esempio l’aver posto su basi nuove la dialettica reale-immaginario. “Porre su basi nuove” è forse un eufemismo, e forse neppure il termine “dialettica” è tra i più adeguati. Quello che molto concretamente accade, nei testi di questi autori, è che il confine fra reale e immaginario diviene tanto tenue da scomparire. Nella fantascienza classica, anche la più sofisticata, questo confine era ben netto, era il confine fra il mondo del testo e quello esterno al testo, che accomunava (si presupponeva accomunasse) autore e lettore. La condizione di esistenza dell’immaginario, del “doppio,” è che ci sia un reale, saldamente esistente, che può essere sdoppiato, deformato, criticato, rifiutato. “Noi abbiamo sempre avuto, finora, una riserva di immaginazione – e il coefficiente di realtà è proporzionale alla riserva di immaginario che ne determina il peso specifico.”10 Ora all’immaginario sembra essere accaduta la stessa cosa che accadde alla carta dell’Impero di cui parla Borges, che i cartografi allargavano sempre più, perché riproducesse sempre più perfettamente il territorio reale, fino alla versione definitiva e più perfetta, che lo ricopriva appunto tutto. L’immaginario copre perfettamente il reale, e perciò non c’è più una distinzione possibile, non è più possibile neppure costruire dell’immaginario a partire dal reale. Tutto è ormai “iper-reale,” perché ci troviamo nell’era dei modelli e della simulazione totale.11 Non ha più senso dire: “la tale cosa è reale perché è sensibile, visibile, intelligibile,” più di quanto non ne abbia dire: “la tale cosa è reale perché sta nella memoria del tale calcolatore.” Il protagonista della Banca della memoria di John Varley12 è laureato, perché il calcolatore a cui il suo cervello è stato collegato e dentro cui ha vissuto alcuni anni di esperienza soggettive (reali o immaginarie?) lo certifica: e poco importa il “livello di realtà” in cui gli studi sono stati compiuti. Non è difficile vedere, da questo punto di vista, nella nuova fantascienza degli anni Settanta, l’influenza di alcune figure isolate della fantascienza del decennio precedente, in primo luogo l’inglese James Ballard e l’americano Philip Dick. Il primo, del resto, è stato all’origine dell’esperienza di “New Worlds,” ed è stato più volte rivendicato dalla new wave, nonostante il suo rifiuto di dichiararsene parte. La sua ricerca, partita nei primi anni Sessanta con l’esplicita rivendicazione che la fantascienza si occupasse dello “spazio interno” piuttosto che dello “spazio esterno,” si è rivolta fin dall’inizio a esplorare le “realtà psichiche,” con riferimento a volte esplicito alle malattie mentali, per giungere ai risultati di The Atricity Exhibition (1969) e Crash (1973) in cui personaggi “reali,” gli eroi dei mass media, come Marilyn Monroe e John Fitzgerald Kennedy, fluttuano fra diversi livelli di realtà, in universi a metà tra il reale e il fittizio. Di Dick è significativo il riferimento all’esperienza degli allucinogeni, che ha direttamente ispirato diversi suoi romanzi, e lo stravolgimento di un luogo comune della fantascienza classica, l’universo parallelo. In La svastica sul sole il presupposto implicito delle ucronie o degli universi paralleli (la possibilità dell’esistenza di mondi paralleli al nostro, dotati in linea di principio di possibilità di realizzazione “quantificabili”) è palesemente violato: il lettore non può identificare il “proprio” universo con quelli rappresentati o a cui si fa cenno nel libro, ma non può neppure considerarlo un “universo di riferimento,” della cui realtà possa essere ragionevolmente certo. E del resto non aveva già compiuto esperienze del genere Farmer, un altro grande “isolato” degli anni Cinquanta e Sessanta, con i suoi pastiches di eroi dei fumetti e dei romanzi popolari, personaggi storici e creatori di universi? Dick e Farmer, coma la new wave degli ultimi anni Sessanta, aprono la strada dell’iperrealismo senza saperla percorrere fino in fondo. Negli autori minori di “New Worlds” lo sperimentalismo, la dissezione e ricomposizione arbitraria del testo (come nelle famose “composizioni circolari” di Butteworth), appaiono operazioni a freddo, aristocratiche: la ripresa delle esperienze delle avanguardie storiche dell’inizio del secolo ha un valore di “svecchiamento culturale” della fantascienza, ma non sa ritrovarne lo slancio e il valore critico, autoconsapevole. Le straordinarie intuizioni di Dick anticipano i tempi, ma al di là dei rari momenti felici di equilibrio (La svastica sul sole) affondano spesso nel pantano di un’organizzazione della parola che assume ancora i vecchi moduli degli anni Cinquanta senza saperli criticare e superare. Lo stravolgimento, lo straniamento sintattico cominciano ad assumere il senso di una riflessione più compiuta sul linguaggio con Jack Barron di Spinrad e Tutti a Zanzibar di Brunner, pubblicati rispettivamente nel 1968 e 1969. L’analisi più approfondita della “microfisica del potere,” in queste opere come nel Crash di Ballard o in Delany e Disch, non è separabile dalla manipolazione del linguaggio stesso. Il fatto che sia presente in queste opere, una componente “metalinguistica” espressa e cosciente, non significa una semplice aggiunta di tematiche, o la concessione un po’ intellettualistica alle mode culturali: implica un radicale cambiamento di prospettiva. Il linguaggio della fantascienza pre-new wave si limita a riflettere e ritrasmettere nell’opera i rapporti di potere della società con la sola critica (implicita o esplicita) di una prospettiva straniata: negli autori che hanno assimilato la lezione della new wave, invece, il testo è spesso attraversato da una consapevolezza del “valore del linguaggio come sapere sociale e (della) sua capacità di mediazione col reale.”13 Questa nuova fantascienza sa, come ha insegnato Foucault, che c’è  una “sintassi meno manifesta che ‘fa tenere insieme’ (a fianco e di fronte le une alle altre) le parole e le cose,”14 conosce i rapporti che questa “sintassi” intrattiene con quella “più manifesta” del linguaggio quotidiano, conosce insomma il rapporto tra linguaggio e potere. Ecco perché si può parlare, a proposito di questi autori, di una “consapevolezza della dimensione non tanto stilistica quanto politica del discorso, (e della) articolazione tramite la scrittura di una radicale diversità.”15 Bisogna insistere sul fatto che questo, e nun un’immissione di nuove tematiche, o un semplice affinamento degli strumenti stilistici, rappresenta il contributo più prezioso della nuova fantascienza. Altrimenti non riusciremmo a comprendere libri come Dhalgren o Triton di Delany, o fenomeni come il ruolo di primo piano che hanno assunto le autrici negli ultimi anni (Tiptree e Russ in primo luogo, ma il fenomeno non è limitato a questi due nomi).16 A proposito delle donne nella fantascienza, per esempio, sarebbe riduttivo considerare il loro contributo limitato all’immissione della tematica della sessualità. Il tema del corpo, già presente, come abbiamo visto, anche nella fantascienza degli anni Cinquanta, viene non solo liberato dai meccanismi di rimozione, ma esplorato in tutte le connessioni e le potenzialità sociali e comunicative. Linguaggio e corpo, insomma, appunto. Proprio perché la distanza fra immaginario e reale è abolita, proprio perché siamo immersi in un universo iperreale, la nuova fantascienza può fornirci strumenti così fini di rappresentazione e di critica della realtà. Non è più la vecchia dialettica fra utopia e antiutopia, fra letteratura apologetica (impegnata a descriverci i paradisi della tecnologia, della produzione, della libera iniziativa, della frontiera, della bontà o del socialismo) e letteratura di denuncia dei “nuovi inferni.” La scrittura della nuova fantascienza, piuttosto, è impegnata in operazioni di destrutturazione del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto. Tanto la vecchia fantascienza si teneva ancorata ai moduli stilistici e alle convenzioni di intreccio dei “sottogeneri” (fantascienza spaziale, viaggi nel tempo,, horror, heroic fantasy, e così via) anche come strumento di immediata riconoscibilità per il lettore, come elemento, in ultima analisi, di stabilizzazione del reale, quanto la nuova fantascienza gioca, con quelle convenzioni stilistiche e narrative, fino a stravolgerle, a farne degli elementi autentici di critica e di conoscenza: e abbiamo, per esempio, nei racconti di Disch, questo straordinario riciclaggio dei più vari stili e convenzioni di tutti i generi della letteratura popolare. E per tornare ai temi del corpo e della sessualità, tanto la vecchia fantascienza ne forniva immagini chiuse e rigidamente ruolizzate, anche quando si dimostrava capace di affrontarli, quei temi, con spregiudicatezza, tanto la nuova fantascienza li carica di ambiguità, ne fa strumento di conoscenza reale e di messa in crisi dei modelli. Pensiamo alla distanza che separa tre opere che affrontano, ognuna a suo modo, il tema del cambiamento di sesso o dell’androginia, per accorgerci di questa differenza: Non temerò alcun male di Heinlein (1971), La mano sinistra delle tenebre di Ursula Le Guin (1969) e Triton di Delany (1976). Queste, a grandi linee, alcune delle cose che ci può offrire la nuova fantascienza. Sappiamo certo, che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei libri. Ma, se rifiutiamo alla scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è dell’utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo alla comprensione di quello che siamo, all’elaborazione di altre forme di socialità, di altri codici di comunicazione, di qualche nuova, modesta, teoria locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono accidentati e, inevitabilmente, ambigui.

(Introduzione "Nei labirinti della fantascienza" Feltrinelli 1979 - Ristampa Mimesis 2012)

Note:
  1. Segnaliamo, di prossima apparizione presso Feltrinelli, il volume contenente gli atti del convegno di Palermo La fantascienza e la critica.
  2. Darko Suvin, La fantascienza e il “novum,” in La fantascienza e la critica, di prossima pubblicazione presso Feltrinelli.
  3. Sergio Solmi, Prefazione a Le meraviglie del possibile, Torino, Einaudi, 1959: ristampato in Sergio Solmi, Saggi sul fantastico, Torino, Einaudi, 197.
  4. Sul tema Utopia e Fantascienza, v. per esempio Metamorphoses of Scince Fiction di Darko Suvin, e il n. 2, 1979, di “Un’ambigua utopia.” Milano.
  5. E ogni tentativo di farla rivivere, magari collegandola a temi “avanzati” come quello dell’ecologia, non può portare che a risultati meschini; si allude per esempio, a Ecotopia di Ernest Callenbach, Milano, Mazzotta, 1979, che sotto il velo dell’utopia ecologica maschera una riverniciatura apologetica della “American way of life” in versione agreste.
  6. Questo parallelo fra utopia e fantascienza riprende e sviluppa un’argomentazione avanzata da Jean Baudrillard in Simulacres e Science-Fiction, intervento pronunciato al convegno di palermo. Cfr. anche, di Baudrillard,Lo scambio simbolico e la morte, milano, Feltrinelli, 1979. L’opinione dei coniugi Panshin (in Mondi interiori, Milano, Nord, 197) che la fantascienza sia la forma moderna delle vecchie “letterature del trascendente,” è difesa con argomentazioni in effetti abbastanza stiracchiate.
  7. Cfr. Alessandro Portelli, Il presente come utopia: la narrativa di Isaac Asimov, in “Calibano,” n. 2, Roma, Savelli, 1978.
  8. Cfr. l’intervento di John Fekete in La fantascienza e la critica, cit.
  9. Vittorio Curtoni, Giuseppe Lippi, Guida alla fantascienza, Milano, Gammalibri, 1978.
  10. Jean Baudrillard, in La fantascienza e la critica, cit.
  11. Jean Baudrillard, op. cit. Cfr. anche All’ombra delle maggioranze silenziose, Bologna, Cappelli, 1978, e il già citato Lo scambio simbolico e la morte.
  12. In “Robot,” Milano, Armenia, n. 30, 1978.
  13. Teresa De Lauretis: Sf in USA: Linguaggio e corpo, in “Alfabeta,” n. 3-4, Milano, 1979.
  14. Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967 e 1978 (citato nell’appendice di  Samuel R. Delany, Triton, Milano, Armenia, 1978).
  15. Teresa De Lauretis, Sf in USA, cit.
  16. Una parte non piccola purtroppo, dei riferimenti di queste ultime pagine sono ancora sconosciuti al lettore italiano. Per quanto riguarda Delany, per esempio, se Triton ha trovato ospitalità nei “Libri di Robot,” di Armenia, una traduzione di Dhalgren giace ancora nei cassetti della Libra e non si sa quando ne uscirà. Joanna Russ, poi, che rappresenta una delle voci più interessanti della nuova fantascienza femminile, ha avuto, se non andiamo errati, tre racconti tradotti in tutto (e manca, per esempio, il suo libro The Female Man il cui esame sarebbe stato indispensabile per un discorso più approfondito sul tema della sessualità). Di Dhalgren e The Female Man si parla nell’articolo di Teresa De Lauretis.