Procedimento
dell’arte è il procedimento dello “straniamento” degli oggetti e il
procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della
percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se
stesso e deve essere prolungato. Viktor Sklovskij
Sono lontani gli anni in cui, preparandoci (senza
saperlo, è ovvio) al nostro sessantotto politico e sociale, ci sottoponevamo,
emozionati ma fieri di poter guardare con occhio nuovo fenomeni che fino a
allora non ci erano parsi rilevanti, a alcune piccole e grandi rivoluzioni
culturali, per così dire, propedeutiche. Il 1965, per esempio, se non erro, è
l’anno in cui comincia le sue pubblicazioni “Linus”; l’anno prima era comparso Apocalittici
e integrati. Guidati da nomi prestigiosi come appunto Oreste del Buono (che di
lì a pochi anni avrebbe sostituito Gandini alla direzione di “Linus”) e Umberto
Eco, e con numi tutelari ancora più prestigiosi, e adeguatamente leggendari,
nella fattispecie e rispettivamente Vittorini e McLuhan, scoprivano che la
cultura di massa poteva essere non solo consumata passivamente, ma anche fatta
oggetto di una riflessione che ce ne restituisse motivazioni, finalità e
procedimenti. La fruizione poteva essere più consapevole; e se c’erano
“messaggi” da cui difenderci, la difesa poteva essere non più l’esorcismo, ma
qualcosa che assomigliasse di più a un’analisi critica. Forse pecco di
individualismo, e faccio indebite generalizzazioni: ma chi non ha cominciato
con un brivido sottile la Lettura di Steve canyon? E all’epoca, chi non era
molto addentro ai circoli accademici, o non frequentava costantemente le cose
francesi, non sapeva che tutto questo era “semiologia”… Comunque, e qualunque
sia il giudizio che si voglia dare di quei primi studi e di come essi abbiano
influito su un paio di generazioni, dobbiamo ammettere che, almeno per il
fumetto, il discorso ha funzionato: nel senso che ha contribuito a creare, per
quella forma espressiva, una sensibilità minimamente più avvertita e alcuni
strumenti critici che potevano, quantomeno, essere oggetto di discussione. La
fantascienza, bisogna dire, non ne è uscita così bene, e alcuni equivoci che ci
trasciniamo dietro ancora oggi hanno forse la loro origine, o si sono
rafforzati, in quegli anni. Uno di questi equivoci – e mi sentirei quasi di
dire il principale – è una definizione della fantascienza (quella scritta) come
“letteratura di idee.” Spiegherò meglio, tra un attimo, che cosa intendo dire.
Bisogna però notare preliminarmente che la fantascienza, unica o quasi tra le
forme letterarie di massa, ha dato vita a un fenomeno di aggregazione dei
lettori attorno a club, riviste, e forme simili, che è di un certo interesse:
il fenomeno appunto dei fan (abbreviazione americana da fanatic, appassionato,
fanatico). I fan stampano rivistine non professionali, amatoriali (le fanzine,
fan-magazines, cioè riviste dei fan), sviluppano discussioni interminabili su
autori, tendenze, edizioni, partecipano alle conventions, cioè ai congressi in
cui vengono premiate annualmente le migliori opere di fantascienza, e
sviluppano in genere un atteggiamento di difesa esclusiva, settaria, della
fantascienza rispetto a ogni altra produzione letteraria e cinematografica.
Questo fenomeno, che già negli USA, sua patria d’origine, aveva dato luogo a
non pochi aspetti grotteschi e risibili, una volta trasportato in Italia ha
finito per limitarsi quasi solo a questi ultimi. Eppure non mancano, nel
fandom, nel mondo dei fan, o in genere dei lettori di fantascienza, persone con
altri interessi culturali e umani, per i quali, prima o poi, il problema del
rapporto con altre forme di cultura di massa e con la stessa cultura
“ufficiale” si pone. Questo fenomeno si manifestò per la prima volta in Italia,
proprio negli anni Sessanta e trovò nelle iniziative della Casa Editrice La
Tribuna, di Piacenza un primo naturale punto di coagulo. Dobbiamo infetti ai
curatori delle riviste “Galaxy” e “Galassia” di quegli anni, e principalmente a
Roberta Rambelli e Ugo Malaguti, il primo tentativo di avviare un discorso
critico sul genere dall’interno del fenomeno “fantascienza.” Si trattò – forse
necessariamente, dato il carattere iniziale del tentativo e il tipo di pubblico
a cui si rivolgeva – di un discorso ancora rozzo e ingenuo, che sembrava più
che altro preoccupato di fornire motivazioni purchessia a chi leggeva
fantascienza senza doversi, per così dire, vergognare rispetto a chi leggeva
“letteratura” vera e propria. Di qui l’atteggiamento, di cui i due nomi citati
fornirono l’esempio più chiaro in quegli anni, di amore-odio della fantascienza
italiana nei confronti della letteratura ufficiale (il mainstream, la corrente
principale, come si scriveva e si scrive negli ambienti fantascientifici): da
un lato si rivendica l’autonomia, e quasi una naturale supremazia della
fantascienza rispetto al mainstream, identificato con la sua tendenza dominante, la narrativa
realistica; dall’altro si insisteva sulla totale accettabilità “letteraria”
della fantascienza, si respingeva sdegnosamente la sua classificazione come
“letteratura di serie B,” in nome di criteri e parametri, tutto sommato, presi
a prestito proprio dalla letteratura ufficiale. I primi tentativi di analisi
delle opere di fantascienza oscillavano, allora, tra la rivendicazione di
valori propriamente “stilistici per quelle opere , e la totale messa tra
parentesi del problema dello stile a tutto vantaggio dell’esaltazione
dell’intreccio e dei contenuti presenti. Ma il materiale era quello che era: e
se Asimov, Heinlein, Simak – gli autori degli anni Quaranta e Cinquanta che si
andavano conoscendo allora da noi – potevano benissimo reggere il confronto,
diciamo, con Cronin, anche le loro opere migliori non potevano pretendere di
offuscare, sempre per fare un nome, Faulkner, e non diciamo il Faulkner di
L’urlo e la furia, ma neppure quello di La paga del soldato. Era inevitabile,
perciò, che i primi tentativi di interpretazione e valorizzazione della
fantascienza pencolassero sempre più verso quella implicita definizione di
questa forma narrativa come “letteratura di idee” che in parte ci trasciniamo
dietro ancora oggi. Inevitabile voglio dire, non in assoluto, ma relativamente
al clima culturale di quegli anni, in Italia, dominato in tutti i campi dal
fantasma di croce e dalle presenze, non fantasmatiche invece, dei crociani di
tutti i tipi, per cui ogni analisi letteraria si misurava sull’immarcescibile
binomio “forma-contenuto,” e si precludeva così qualsiasi via verso la
comprensione dei fenomeni letterari e in genere di scrittura in termini di
autonomia (o eteronomia) del linguaggio. Il Gruppo ’63 era già nato, e la sua
azione, nel bene e nel male, si faceva sentire qua e là. Non purtroppo, per
quanto riguarda la fantascienza, se anche chi lavorava in quegli anni a una
comprensione della cultura di massa in termini non più subalterni e soffocati
dal dilemma (crociano, non si scappa!) “poesia-non poesia,” finiva per portare
acqua, forse involontariamente, alla definizione della fantascienza come
“letteratura di idee.” Capitava per esempio a Umberto Eco di recensire alcuni
volumi di fantascienza in un articolo sul “Corriere della Sera” del 1963 (poi
ristampato nel già citato volume Apocalittici e integrati) dal quale traspariva
sì l’intenzione di strappare questo genere alla “letteratura di puro
intrattenimento” accreditandolo come “ala progressista” della cultura di massa;
ma la definizione che poi ne veniva data era quella di “letteratura allegorica
a sfondo educativo,” con il conseguente invito a esercitare su di essa quella
“’critica dei contenuti’ che in altra sede, applicata ad esperimenti artistici
volti a un discorso attraverso le strutture formali, ci appare superficiale,
dogmatica, burocratica e zdanoviana.” Non si vogliono far polemiche
retrospettive su cose di poco conto (le posizioni di Eco, tra l’altro, hanno
avuto tutto il tempo di affinarsi, in questi diciassette anni). E poi la
fantascienza che si conosceva in Italia, allora, era quella che era. Ma
l’articolo citato mi sembra, obbiettivamente, abbastanza rappresentativo delle
opinioni prevalenti della critica anche più “impegnata” sulla fantascienza: in
quegli anni, e non solo in quegli anni. Certo, oggi che almeno una tendenza – e
non insignificante – della fantascienza si è qualificata proprio sul terreno
degli “esperimenti volti a un discorso attraverso le strutture formali,” lo
strumento della “critica dei contenuti” appare finalmente inadeguato: e
bisognerà decidersi a affrontare il problema in termini insieme più globali e
modesti, approfittando fra l’altro del fatto che una serie di categorie e di
strumenti messi a punto da varie tendenze della critica americana ed europea
(sia fantascientifica in senso stretto, sia universitaria) comincia, con il
solito ritardo, a circolare anche da noi.1 Un’osservazione
preliminare potrà contribuire a mettere a fuoco i problemi. La fantascienza non
è l’unico, fra i generi letterari della cultura di massa, a vantare ascendenze
nella cultura ufficiale di secoli passati: il giallo, per dirne uno, ha qualche
freccia al suo arco da questo punto di vista (per esempio Poe). Ma è l’unico
per cui le (reali o supposte) ascendenze si spingono così indietro e in modo
così ramificato nel passato: alla fantascienza sono stati rivendicati, con
maggiore o minor fondamento, Luciano di Samosata, i viaggi fantastici
medievali, tutta la tradizione letteraria utopica e antiutopica da Moro,
Campanella, Rabelais, fino a Swift, Voltaire, il socialismo utopistico e chi
più ne ha più ne metta, per finire, naturalmente, a Wells. Non intendiamo, né
in questa introduzione, né nel corso del libro entrare direttamente in questa
discussione, che divide da anni tutta la critica. Considereremo “fantascienza”
quello che si intende generalmente con questo nome in senso commerciale, cioè
la produzione che appare con questa etichetta, negli USA e nel resto del mondo,
dal 1926 in poi, dalla fondazione cioè di quella che viene da tutti considerata
come la prima rivista di fantascienza moderna, “Amazing Stories.” Ciò non
impedisce, tuttavia, che si possa cercare di dare una spiegazione a questa a
volte forsennata ricerca di quarti di nobiltà. Il fatto è che la fantascienza
presenta, a prima vista, alcuni caratteri che la distaccano dagli altri generi
di narrativa popolare. Il più importante di questi caratteri è quello che si
potrebbe definire un’estrema mobilità delle convenzioni e delle forme
narrative. Anche limitandoci alla fantascienza in senso stretto, escludendo
cioè tutti gli altri generi più propriamente “fantastici” (horror, fantasia
eroica, ecc.) che il mercato editoriale le associa, è evidente la grande
varietà di situazioni, schemi narrativi, personaggi, scenari: laddove gli altri
generi si limitano a riscrivere in eterno variazioni dello stesso schema-base.
Prendiamo per esempio il giallo, il suo schema è invariabile: c’è una
situazione iniziale di equilibrio, più o meno stabile, di cui – all’inizio o
nel corso del libro – ci vengono forniti i dati, il parallelogramma delle
forze; poi questa situazione viene rotta dal crimine, che introduce una situazione
di disordine e incertezza; segue l’intervento delle forze della razionalità (il
detective, il commissario) che ripristina il vecchio equilibrio. Nel giallo,
come in altri generi di narrativa popolare, il marchio dell’ideologia, il
“senso” della narrazione è in qualche modo impresso nel genere in quanto tale
nello schema base, e le possibili evasioni sono limitate (anche se
significative: Hammett, Chandler, e tutta la hard boiled school, per esempio).
Nella fantascienza non è così: l’ideologia (quella dominante, in genere) deve
trovare di volta in volta una mediazione con il singolo intreccio, con la
singola storia, con il complesso della singola narrazione; deve spesso,
combattere una battaglia più dura per affermarsi. E questo genera, nelle opere
migliori ma spesso anche in quelle minori, le più superficiali, quel senso di
ambiguità che, azzarderei, è quasi più connaturato alla fantascienza del famoso
sense of wonder, il senso del meraviglioso che imperava nella fantascienza
delle origini. Che tutta la cultura di massa, e la narrativa popolare in
particolare, ci parli di noi, dei rapporti sociali, di potere, che ci
attraversano, anche quando fa le viste di parlarci d’altro, è ormai comunemente
accettato. Che la fantascienza ce ne parli in modo più ricco e articolato, in
quanto genere, rechi in sé la potenzialità di un discorso più preciso e
aderente alla nostra condizione, è paradossalmente da collegarsi con il suo
essere svincolata da convenzioni narrative di rispecchiamento realistico della
realtà. La fantascienza gioca direttamente con l’immaginario, esplora i campi
del possibile. Ma è un possibile, un immaginario, storicamente determinato. Per
questo i ricercatori di archetipi, gli esegeti alla Elemire Zolla della
“sostanza ideale eterna” che dal mito e dalla fiaba si trasformerebbe nella
fantascienza, sono condannati a non cogliere mai che un aspetto di questa
narrativa sfuggente. O a limitare le loro analisi più brillanti alle
ricostruzioni lucide e un po’ fredde, degli universi mitico-eroici, da Tolkien
in giù. I quali, fra l’altro, non sempre si dimostrano refrattari a analisi più
storicamente ravvicinate. Perché i confini o le configurazioni dell’immaginario
– è certo banale ripeterlo – sono funzione delle possibilità immaginative
collettive (sociali) di una data epoca, e le mappe dei suoi terreni si modulano
in relazione ai bisogni predominanti, o a quelli emergenti, visto che è proprio
della scrittura, in tutte le sue manifestazioni, portare alla luce il corso
sotterraneo dei fiumi, e perciò anticipare i tempi, anche, di bisogni che
altrimenti non si riconoscerebbero come sociali. Ha notato Darko Suvin che
“mutanti o Marziani, formiche o nautiloidi intelligenti possono essere usati
come significanti, ma possono significare solo relazioni umane, dal momento che
– almeno finora – non ne possiamo immaginare altre.”2 Rovesciando
l’affermazione , si può dire che la ricchezza di significati che la
fantascienza ha a disposizione per la rappresentazione dei rapporti umani
garantisce, a livello di conversazioni narrative del genere, risultati
emozionali e estetici, nel lettore, più profondi. Suvin osserva ancora che il
procedimento di cui si serve la fantascienza è molto simile all’effetto di
“straniamento” che, secondo Sklovskij e i formalisti russi (ma anche secondo
Brecht) costituisce l’essenza del procedimento artistico. L’ambiguità di cui
parlava Solmi3 (altri direbbe, forse meno felicemente, il senso del
meraviglioso) nella fantascienza è effetto proprio della contraddizione fra lo
scenario, l’intreccio, gli elementi di novità scientifica (in senso lato) e le
emozioni, i sentimenti dei personaggi. I rapporti umani, in genere gli elementi
della nostra esperienza sociale (nostra e dell’autore) vengono proiettati su
uno sfondo insospettato, inedito, e così “straniati” risultano più nitidi, in
modo che possiamo vederne particolari che ci sarebbero altrimenti sfuggiti,
interrogarne aspetti che ci sarebbero altrimenti sembrati irrilevanti. Né tutto
ciò è limitato alle opere più nettamente “d’anticipazione.” Che lo sfondo sia
il futuro (un diverso tempo), le lontane galassie (un diverso spazio), o un
mondo parallelo (un diverso spazio-tempo), lo straniamento opera
fondamentalmente con lo stesso meccanismo. Da questo punto di vista, appare più
evidente la parentela che lega la fantascienza alla letteratura utopica. C’è
chi ha sostenuto che la fantascienza è la più grande produzione di utopie del
nostro tempo. Se questo vuol dire che la fantascienza è un’ennesima variazione
del discorso sull’”altro,” che sia l’utopia che la fantascienza ci parlano di
una realtà con gli occhi bene aperti e spalancati sulla nostra, il rilievo è
essenzialmente giusto. Anche nella fantascienza, come in un gioco di specchi,
il mondo reale e quello fittizio si rimandano, amplificati e sottolineati dal
grottesco, dal patetico, dall’ironico, da cento altri procedimenti di
straniamento, figure, frammenti di realtà, teorie e pratiche sociali. Ma se non
vogliamo ridurre l’utopia e la fantascienza alla manipolazione, al gioco
letterario sul possibile sotto qualsiasi forma, bisognerà anche registrarne i
tratti distintivi e le opposizioni.4 E intento dire subito che la
stagione dell’utopia, che ha coperto parecchi secoli della cultura occidentale,
da Thomas More a Fourier, è oggi irrimediabilmente finita.5 È finita
perché non ci sono più le condizioni materiali e culturali che la hanno resa
possibile. L’utopia classica è fondamentalmente religiosa. Religiosa non nel
senso di “irrazionale,” ma nel senso di “connotata da una tensione verso il
trascendente,” e questo al di là della valenza politica dei singoli prodotti
letterari e delle ideologie degli autori (per cui, per esempio, possiamo
distinguere nell’utopia rinascimentale una corrente “progressista” – uso questi
termini con un certo disagio – rappresentata da More e Rabelais, e una
conservatrice-autoritaria, iniziata da Campanella e risultata poi prevalente
fino al XVIII secolo). L’utopia al contrario, si vuole razionale, e non senza
fondamento. Essa contrappone al disordine esistente, alla società così come si
presenta, essa sì, irrazionale, il sogno di una diversa razionalità. Una
razionalità che è sempre, in forme diverse, conciliazione dell’uomo con la
natura, o tramite la restituzione di una natura incontaminata, ricondotta a una
purezza originaria – come nelle utopie che riprendono i motivi classici
dell’età dell’oro -, o tramite una rifondazione della natura (e, insieme, della
società). Questa riconciliazione dell’uomo con la natura, questa nuova
razionalità, è il fondamento di un ordine ideale, la cui superiorità
indiscutibile riposa, non può che riposare, su un’idea di divinità. La
fantascienza delle origini, quella degli anni Venti e Trenta, dei pulps (le
riviste popolari a basso prezzo come “Amazing Stories,” e quella successiva
degli anni Quaranta, dominata dalla rivista “Astounding Science Fiction” e dal
suo direttore John W. Campbell, riprende a modo suo l’ispirazione dell’utopia
classica. Che lo scenario sia quello della space opera (il “melodramma
spaziale” che riscrive ambientandolo nello spazio il vecchio romanzo di
avventure, marinaro, picaresco o western), o quello della più rigorosa ”fantascienza
tecnologica” predicata da Casmpbell, in cui il “verosimile scientifico,” o
almeno tecnologico, gioca il ruolo centrale, si legge nella fantascienza di
questi anni uno spirito di fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di
realizzazione, tramite appunto la scienza, che non è distante dall’ispirazione
utopica. Ma la religiosità dell’utopia classica è tramontata per sempre. Tanto
l’immaginario dell’utopia è trascendente, quanto quello della fantascienza è
immanente.6 L’immaginario della fantascienza non procede da un’idea
originaria di natura, da una natura ideale, ma lavora sulla proiezione: parte
dalla natura come è stata trasformata dal capitalismo in espansione, e su
quella lavora, estrapola, proietta. È un immaginario collegato al sogno di
un’espansione illimitata della produzione, un sogno che non è più trascendente,
perché non fa altro che estendere all’infinito
(ma un infinito che non è altro che un limite matematico, non una dimensione
radicalmente diversa e superiore come quella dell’utopia) le tendenze in atto.
Questa gigantesca metafora della produzione e della sua espansione illimitata,
questa saga dell’energia autoriproducentesi in tutte le sue forme, questo inno
alla tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle
sue capacità, dopo gli anni dell’apprendistato delle mediocri avventure
spaziali, esplode con l’”era Campbell.” Gli autori che si formano e iniziano a scrivere
in quel periodo sono i primi “leggibili” ancora oggi, anche da parte di chi sia
scarsamente interessato all’archeologia del genere; e sono rimasti in effetti
fra i più popolari: Heinlein, Van Vogt, e soprattutto Asimov. Tutto in questi
autori, dal ruolo delle macchine, alle figure dei robot e degli androidi,
trasparenti metafore di una forza-lavoro che pone problemi di disciplina o crea
crisi sempre puntualmente risolte dall’intervento umano,7 agli
alieni visti come minacciosi invasori (attuali o potenziali), tutto concorre a
configurare la fantascienza di quegli anni come la rappresentazione fedele,
anche se straniata, delle condizioni per cui la macchina produttiva possa
continuare a produrre e delle crisi che, all’interno o dall’esterno del sistema,
possono inceppare quella macchina. Non mancano , anche in quegli anni, figure
anomale rispetto alle tendenze predominanti: per esempio Sturgeon, che inizia
un discorso molto personale, e che trova all’inizio pochi riscontri, sui
mutanti, i diversi, come portatori di nuove potenzialità della specie, ma
circondati dall’incomprensione dei benestanti, dalla gente comune chiusa nel
cerchio ristretto dell’egoismo. O, in misura minore, Simak, creatore di scenari
pastorali e di figure che incarnano un sogno di fratellanza cosmica che si
scontra pressappoco con gli stessi limiti denunciati da Sturgeon. Ma, a ben
vedere, neppure in questi casi cambiano le premesse di fondo: che sono poi
quelle di un umanesimo integrale, e a volte un po’ ingenuo, di una fiducia speranzosa
nella capacità dell’uomo a risolvere tutte le contraddizioni di cui si trova
prigioniero. Le cose cambiano un po’ con la metà degli anni Cinquanta,
l’affermarsi della rivista “Galaxy” e l’emergere di un nuovo filone tematico,
quello che sarà chiamato, con qualche forzatura, della “fantascienza
sociologica.” Gli autori che emergono in quel periodo, Pohl e Kornbluth, per
esempio, o Sheckley, battono nuovi terreni: praticano più sistematicamente
l’anticipazione, rendono più esplicito il legame tra fantascienza e realtà
nelle visioni di società che sono, in modo molto trasparente, la nostra – con
pochi elementi di estrapolazione, tendenze già operanti oggi e portate al
parossismo, al grottesco. Sono le “nuove mappe dell’inferno” di cui parlava un
critico inglese in quegli anni. È un filone che, attraverso Wells, si ricollega
in fondo a Swift a alla tradizione dell’”antiutopia,” e produce in effetti
alcuni (non moltissimi, è vero) interessanti esempi di vera e propria critica
sociale, in genere attraverso la satira. L’ottimismo scientista-tecnologico di
Asimov, o quello umanistico di Sturgeon lasciano il posto a un pessimismo
sicuramente più fondato: comincia a apparire, anche nella fantascienza, un
embrionale coscienza dei difetti insiti nella macchina della produzione e degli
inferni che a essa necessariamente si accompagnano. In realtà, anche la
fantascienza sociologica non riesce a uscire da una convinzione di fondo, che
essa esprime in negativo, con l’ironia e magari anche con la disperazione
dell’antiutopia, invece che con l’ottimismo un po’ beota dell’”utopia
tecnologica”: quella di una intrinseca razionalità del reale. Che questa
razionalità sia data o da scoprire, che la conciliazione degli opposti sia
implicita nel potere della scienza e della tecnologia così come esse si
presentano, o debba essere perseguita con una critica, anche feroce e radicale,
del loro uso, è comunque quella convinzione di fondo che accomuna tutti gli
autori e le tendenze della fantascienza che si potrebbe definire “classica.” Ed
è la convinzione, in fondo, della neutralità della scienza e di un possibile
rovesciamento del suo uso in senso umanistico. Questa idea della conciliazione
degli opposti tramite la scienza è molto chiara nell’ultima grande scrittrice
di fantascienza classica, che ha portato alle conseguenze più estreme e lucide,
nelle nuove condizioni degli anni Settanta, quelle premesse: Ursula Le Guin. Il
substrato scientifico dei suoi romanzi, come in molti altri autori di
fantascienza contemporanei, non è più costituito principalmente dalle scienze
naturali o dalla tecnologia come dato puramente materiale. Nelle sue opere
vengono continuamente rielaborati contributi della sociologia,
dell’antropologia, della scienza politica; la tecnologia è analizzata come
medium e costituente dei rapporti sociali. Dal punto di vista tematico, la Le
Guin, non c’è dubbio, segna un passo avanti deciso sia rispetto a Asimov che
rispetto alla fantascienza “sociologica” (Un’ambigua
utopia è il sottotitolo del suo romanzo The
Dispossessed, barbaramente tradotto da noi come I reietti dell’altro
pianeta) la porta a esplorare le contraddizioni di molte tematiche a noi
vicine, e addirittura – appunto in The
Dispossessed, forse non la sua opera più bella, ma quella da noi più famosa
– a interrogarsi sulle condizioni di realizzabilità e di sopravvivenza della
rivoluzione. Ma proprio da I reietti
appare chiaro come essa non ci proponga altro che una versione estremamente più
avvertita e raffinata del razionalismo che informa tutta la fantascienza classica.
Shevek, il protagonista del romanzo, è uno scienziato, l’ultima grande figura
di scienziato, forse, della fantascienza, e per tutto il libro si dedica alla
ricerca di una nuova teoria fisica, la Teoria Temporale Generale, capace di dar
conto, insieme, dei fenomeni legati alla Sequenza e alla Simultaneità. Non ci
vuole molto a riconoscere in questa teoria la realizzazione del vecchio sogno
del razionalismo occidentale, una filosofia della conciliazione, capace di
unificare – almeno nella teoria – tutti gli aspetti del reale, essere e
divenire, sincronia e diacronia, storia e struttura.8 Ora tutta
questa fantascienza, sia quando si incarni in opere mediocri come quelle di
Asimov, sia quando produca invece dei belli (a volte bellissimi) romanzi
classici come quelli di Ursula Le Guin, appare singolarmente inadeguata a
renderci di, o semplicemente a accompagnarci nel labirinto frammentato di
fenomeni, esperienze, riflessioni parziali che caratterizzano la nostra vita. E
anzi, si vorrebbe dire, tanto più anacronistico e in fondo consolatorio appare
il tentativo di riproporci, oggi, visioni globali e totalizzanti
dell’esperienza, staccate dalle condizioni materiali e culturali che resero
possibile, per esempio, la grande stagione campbelliana. Quello che mancava, in
tutta quella produzione, e anche in quella successiva fino agli anni Sessanta,
era una conoscenza precisa dei temi affrontati, del loro rapporto con le
condizioni più generali esistenti nella vita e nella società, degli strumenti
espressivi utilizzati. Un solo esempio, fra i tanti possibili. Nella
fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta, a un esame anche superficiale,
uno dei temi ricorrenti – anche se spesso camuffati – appare quello del corpo.
Si tratta con tutta probabilità del riflesso, nell’immaginario collettivo, di
paranoie profonde della società americana di quegli anni. La frequenza di
racconti e romanzi i cui protagonisti intrattengono un rapporto disturbato col
proprio corpo allude forse al processo continuo di espropriazione della sfera
fisica e materiale prima ancora che ideologica o economica, in atto nelle
società industriali massificate. L’esempio più tipico di queste tematiche negli
anni Cinquanta è il famoso racconto di Pohl, Il tunnel sotto il mondo, il cui protagonista, condannato a vivere
in eterno la stessa giornata, scopre alla fine che il suo cervello, staccato
dal corpo ormai morto, è stato collegato a un minuscolo robot, che vive con
migliaia di altri in una città miniaturizzata, teatro di indagini di mercato a
basso costo per un colosso dell’industria pubblicitaria. La metafora, se
vogliamo, è trasparente: ma è talmente generale, così poco specificata, il
riferimento agli incubi e alle paure vissute è così poco presente alla
coscienza del testo, da essere, in ultima analisi, esorcizzato. C’è sempre un
apriori non discusso, tacitamente accettato, in questa fantascienza. Sono le
strutture profonde, sotterranee, locali del potere. È questo che fa si che il
discorso sul potere in tutti questi autori, in Pohl come in Sturgeon, sia
sempre così monco: il potere viene di volta in volta identificato con i suoi
simboli più appariscenti (industrie, governi) o con l’abilità a sfruttare gli
umori delle masse o i pregiudizi più diffusi, mai analizzato nei suoi
micromeccanismi. Di qui, dalla presunzione – collegata con quella visione del
potere – di “neutralità” del linguaggio, deriva la modestia, a volte la
sciatteria dello stile: non solo e non tanto dal vincolo dei “tanti centesimi a
battuta” (che pure gioca il suo ruolo) o dell’effettiva modestia delle capacità
degli autori. Può sembrare strano, nel pieno degli anni Cinquanta e Sessanta,
l’assenza di ogni influenza del dibattito sulla crisi e la nuova (ipotetica)
fondazione delle scienze deduttive e empiriche che si era svolto dall’inizio
del secolo agli anni Venti e Trenta, o anche, più concretamente, l’assenza di
tracce visibili della trasformazione del costume, del modo di pensare, dei
rapporti degli uomini fra loro mediati dalla crescita e dall’invadenza delle
tecnologie, insieme atomizzanti e totalizzanti. Si tratta di un fenomeno di
scarto temporale, forse inevitabile nelle forme letterarie di massa. Ma era
anche inevitabile che questa influenza, prima o poi, si producesse. Tra la metà
e la fine degli anni Sessanta una serie di fenomeni sconvolgono il mondo della
fantascienza. Ecco come li commenta una recente storia della fantascienza: “Il
dato indiscutibile è che, da allora in poi (la fine degli anni Sessanta N.d.A.)
non si è più in grado di tracciare un sentiero omogeneo per gli sviluppi della
fantascienza americana. Se prima, di decade in decade, erano esistite direttive
generali cui si attenevano la maggioranza degli scrittori, dando vita a
movimenti di precisa consistenza, gli anni Settanta hanno portato alle estreme
conseguenze quei germi di disfacimento che erano da sempre impliciti.”9
La malattia, questa volta, era scoppiata in Inghilterra, ma alcuni germi
incubavano forse da tempo anche oltre l’Atlantico. Nel 1964 un giovane
scrittore inglese, Michael Moorcock, la cui esigua produzione precedente ((e, a
dire il vero, anche gran parte di quella seguente) non avrebbe fatto sospettare
le sue simpatie per una fantascienza “non ortodossa,” assumeva la direzione
della rivista “New Worlds,” trasformandola in breve tempo in un “covo” delle
tendenze più sperimentalistiche e
eversive dentro la fantascienza. Cominciava il fenomeno della cosiddetta new
wave, la nuova ondata, che avrebbe suscitato a sua volta un’ondata, forse
ancora più massiccia, di polemiche fra gli appassionati. Coloro che erano
abituati a una fantascienza più tradizionale, in realtà, mostrarono di non
gradire le innovazioni: “New Worlds” chiudeva sei anni dopo, e con essa pareva
esaurirsi la fase più virulenta dell’innovazione. Ma solo apparentemente. La
malattia aveva avuto tutto il tempo di contagiare anche gli USA. Nel 1967 un
altro giovane leone, Harlan Ellison, pubblicava un’antologia destinata a far
storia: Dangerous Vision (Visioni
pericolose). Il grado di innovazione formale era più limitato che in “New
Worlds,” ma in quella antologia vecchi e nuovi autori facevano a gara a
scandalizzare i lettori affrontando tematiche fino allora marginali, se non
bandite, dalla fantascienza: il sesso, e i tabù connessi, come quello
dell’incesto, l’ateismo, l’antiimperialismo. Sedimentatasi un attimo, la new
wave aveva in effetti prodotto, o comunque influenzato, una nuova leva di
autori che mostravano di sapersi facilmente sbarazzare di tutti gli impacci che
avevano intralciato la fantascienza precedente. Con Delany, il primo Zelazny,
Disch, Lafferty, Spinrad, Joanna Russ, James Tiptree jr. (pseudonimo di Alice
Sheldon), la fantascienza entra in una fase “adulta”: affina i suoi strumenti
di indagine, si avventura sul terreno rischioso ma fecondo di una critica a
fondo delle categorie di “reale” e “immaginario,” acquista una consapevolezza
più precisa dello strumento linguistico con cui si trova a operare. Certo,,
tutti questi nomi (a cui altri se ne sono aggiunti più recentemente, fra cui i
più interessanti sembrano Varley e la Joan Vinge) non costituiscono affatto una
“scuola” o tendenza omogenea, e l’uno o l’altro autore accentuano – come magari
lo stesso autore di volta in volta – l’una o l’altra direzione d’i indagine.
Nel frattempo, come è ovvio, Asimov e Heinlein continuano a scrivere, Sheckley
sopravvive a se stesso con funambolismi sempre più stanchi, e non mancano i
nuovi autori (come Niven, o Haldeman) che con perseveranza degna di miglior
causa battono i vecchi sentieri dell’avventura spaziale o della fantascienza
tecnologica “pura.” A noi sembra però che le strade più interessanti siano
state imboccate dagli autori che dicevamo prima. Se non altro perché si muovono
in sintonia con quanto va succedendo (anche qui, in modo magari disordinato e
frammentario) fuori dalla fantascienza. Una delle caratteristiche di questa
“nuova fantascienza,” esemplificata meglio che da altri forse da Disch e
Lafferty, è per esempio l’aver posto su basi nuove la dialettica
reale-immaginario. “Porre su basi nuove” è forse un eufemismo, e forse neppure
il termine “dialettica” è tra i più adeguati. Quello che molto concretamente
accade, nei testi di questi autori, è che il confine fra reale e immaginario
diviene tanto tenue da scomparire. Nella fantascienza classica, anche la più
sofisticata, questo confine era ben netto, era il confine fra il mondo del
testo e quello esterno al testo, che accomunava (si presupponeva accomunasse)
autore e lettore. La condizione di esistenza dell’immaginario, del “doppio,” è
che ci sia un reale, saldamente esistente, che può essere sdoppiato, deformato,
criticato, rifiutato. “Noi abbiamo sempre avuto, finora, una riserva di
immaginazione – e il coefficiente di realtà è proporzionale alla riserva di
immaginario che ne determina il peso specifico.”10 Ora
all’immaginario sembra essere accaduta la stessa cosa che accadde alla carta
dell’Impero di cui parla Borges, che i cartografi allargavano sempre più,
perché riproducesse sempre più perfettamente il territorio reale, fino alla
versione definitiva e più perfetta, che lo ricopriva appunto tutto.
L’immaginario copre perfettamente il reale, e perciò non c’è più una
distinzione possibile, non è più possibile neppure costruire dell’immaginario a
partire dal reale. Tutto è ormai “iper-reale,” perché ci troviamo nell’era dei
modelli e della simulazione totale.11 Non ha più senso dire: “la
tale cosa è reale perché è sensibile, visibile, intelligibile,” più di quanto
non ne abbia dire: “la tale cosa è reale perché sta nella memoria del tale
calcolatore.” Il protagonista della Banca
della memoria di John Varley12 è laureato, perché il calcolatore
a cui il suo cervello è stato collegato e dentro cui ha vissuto alcuni anni di
esperienza soggettive (reali o immaginarie?) lo certifica: e poco importa il
“livello di realtà” in cui gli studi sono stati compiuti. Non è difficile
vedere, da questo punto di vista, nella nuova fantascienza degli anni Settanta,
l’influenza di alcune figure isolate della fantascienza del decennio
precedente, in primo luogo l’inglese James Ballard e l’americano Philip Dick.
Il primo, del resto, è stato all’origine dell’esperienza di “New Worlds,” ed è
stato più volte rivendicato dalla new wave, nonostante il suo rifiuto di
dichiararsene parte. La sua ricerca, partita nei primi anni Sessanta con
l’esplicita rivendicazione che la fantascienza si occupasse dello “spazio
interno” piuttosto che dello “spazio esterno,” si è rivolta fin dall’inizio a
esplorare le “realtà psichiche,” con riferimento a volte esplicito alle
malattie mentali, per giungere ai risultati di The Atricity Exhibition (1969) e Crash (1973) in cui personaggi “reali,” gli eroi dei mass media,
come Marilyn Monroe e John Fitzgerald Kennedy, fluttuano fra diversi livelli di
realtà, in universi a metà tra il reale e il fittizio. Di Dick è significativo
il riferimento all’esperienza degli allucinogeni, che ha direttamente ispirato
diversi suoi romanzi, e lo stravolgimento di un luogo comune della fantascienza
classica, l’universo parallelo. In La
svastica sul sole il presupposto implicito delle ucronie o degli universi
paralleli (la possibilità dell’esistenza di mondi paralleli al nostro, dotati
in linea di principio di possibilità di realizzazione “quantificabili”) è
palesemente violato: il lettore non può identificare il “proprio” universo con
quelli rappresentati o a cui si fa cenno nel libro, ma non può neppure
considerarlo un “universo di riferimento,” della cui realtà possa essere
ragionevolmente certo. E del resto non aveva già compiuto esperienze del genere
Farmer, un altro grande “isolato” degli anni Cinquanta e Sessanta, con i suoi
pastiches di eroi dei fumetti e dei romanzi popolari, personaggi storici e
creatori di universi? Dick e Farmer, coma la new wave degli ultimi anni
Sessanta, aprono la strada dell’iperrealismo senza saperla percorrere fino in fondo.
Negli autori minori di “New Worlds” lo sperimentalismo, la dissezione e
ricomposizione arbitraria del testo (come nelle famose “composizioni circolari”
di Butteworth), appaiono operazioni a freddo, aristocratiche: la ripresa delle
esperienze delle avanguardie storiche dell’inizio del secolo ha un valore di
“svecchiamento culturale” della fantascienza, ma non sa ritrovarne lo slancio e
il valore critico, autoconsapevole. Le straordinarie intuizioni di Dick
anticipano i tempi, ma al di là dei rari momenti felici di equilibrio (La svastica sul sole) affondano spesso
nel pantano di un’organizzazione della parola che assume ancora i vecchi moduli
degli anni Cinquanta senza saperli criticare e superare. Lo stravolgimento, lo
straniamento sintattico cominciano ad assumere il senso di una riflessione più
compiuta sul linguaggio con Jack Barron
di Spinrad e Tutti a Zanzibar di
Brunner, pubblicati rispettivamente nel 1968 e 1969. L’analisi più approfondita
della “microfisica del potere,” in queste opere come nel Crash di Ballard o in Delany e Disch, non è separabile dalla
manipolazione del linguaggio stesso. Il fatto che sia presente in queste opere,
una componente “metalinguistica” espressa e cosciente, non significa una
semplice aggiunta di tematiche, o la concessione un po’ intellettualistica alle
mode culturali: implica un radicale cambiamento di prospettiva. Il linguaggio
della fantascienza pre-new wave si limita a riflettere e ritrasmettere
nell’opera i rapporti di potere della società con la sola critica (implicita o
esplicita) di una prospettiva straniata: negli autori che hanno assimilato la
lezione della new wave, invece, il testo è spesso attraversato da una
consapevolezza del “valore del linguaggio come sapere sociale e (della) sua
capacità di mediazione col reale.”13 Questa nuova fantascienza sa,
come ha insegnato Foucault, che c’è una
“sintassi meno manifesta che ‘fa tenere insieme’ (a fianco e di fronte le une
alle altre) le parole e le cose,”14 conosce i rapporti che questa
“sintassi” intrattiene con quella “più manifesta” del linguaggio quotidiano,
conosce insomma il rapporto tra linguaggio e potere. Ecco perché si può
parlare, a proposito di questi autori, di una “consapevolezza della dimensione
non tanto stilistica quanto politica del discorso, (e della) articolazione
tramite la scrittura di una radicale diversità.”15 Bisogna insistere
sul fatto che questo, e nun un’immissione di nuove tematiche, o un semplice
affinamento degli strumenti stilistici, rappresenta il contributo più prezioso
della nuova fantascienza. Altrimenti non riusciremmo a comprendere libri come Dhalgren o Triton di Delany, o fenomeni come il ruolo di primo piano che hanno
assunto le autrici negli ultimi anni (Tiptree e Russ in primo luogo, ma il
fenomeno non è limitato a questi due nomi).16 A proposito delle
donne nella fantascienza, per esempio, sarebbe riduttivo considerare il loro
contributo limitato all’immissione della tematica della sessualità. Il tema del
corpo, già presente, come abbiamo visto, anche nella fantascienza degli anni
Cinquanta, viene non solo liberato dai meccanismi di rimozione, ma esplorato in
tutte le connessioni e le potenzialità sociali e comunicative. Linguaggio e
corpo, insomma, appunto. Proprio perché la distanza fra immaginario e reale è
abolita, proprio perché siamo immersi in un universo iperreale, la nuova
fantascienza può fornirci strumenti così fini di rappresentazione e di critica
della realtà. Non è più la vecchia dialettica fra utopia e antiutopia, fra
letteratura apologetica (impegnata a descriverci i paradisi della tecnologia,
della produzione, della libera iniziativa, della frontiera, della bontà o del
socialismo) e letteratura di denuncia dei “nuovi inferni.” La scrittura della
nuova fantascienza, piuttosto, è impegnata in operazioni di destrutturazione
del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la
crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto. Tanto la
vecchia fantascienza si teneva ancorata ai moduli stilistici e alle convenzioni
di intreccio dei “sottogeneri” (fantascienza spaziale, viaggi nel tempo,,
horror, heroic fantasy, e così via) anche come strumento di immediata
riconoscibilità per il lettore, come elemento, in ultima analisi, di
stabilizzazione del reale, quanto la nuova fantascienza gioca, con quelle
convenzioni stilistiche e narrative, fino a stravolgerle, a farne degli
elementi autentici di critica e di conoscenza: e abbiamo, per esempio, nei
racconti di Disch, questo straordinario riciclaggio dei più vari stili e
convenzioni di tutti i generi della letteratura popolare. E per tornare ai temi
del corpo e della sessualità, tanto la vecchia fantascienza ne forniva immagini
chiuse e rigidamente ruolizzate, anche quando si dimostrava capace di
affrontarli, quei temi, con spregiudicatezza, tanto la nuova fantascienza li
carica di ambiguità, ne fa strumento di conoscenza reale e di messa in crisi
dei modelli. Pensiamo alla distanza che separa tre opere che affrontano, ognuna
a suo modo, il tema del cambiamento di sesso o dell’androginia, per accorgerci
di questa differenza: Non temerò alcun
male di Heinlein (1971), La mano
sinistra delle tenebre di Ursula Le Guin (1969) e Triton di Delany (1976). Queste, a grandi linee, alcune delle cose
che ci può offrire la nuova fantascienza. Sappiamo certo, che la liberazione
non ci aspetta nelle pagine dei libri. Ma, se rifiutiamo alla scrittura un
ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è dell’utopia), siamo
in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo alla comprensione
di quello che siamo, all’elaborazione di altre forme di socialità, di altri
codici di comunicazione, di qualche nuova, modesta, teoria locale. Consapevoli
che i suoi sentieri sono accidentati e, inevitabilmente, ambigui.
(Introduzione "Nei labirinti della fantascienza" Feltrinelli 1979 - Ristampa Mimesis 2012)
Note:
- Segnaliamo,
di prossima apparizione presso Feltrinelli, il volume contenente gli atti
del convegno di Palermo La
fantascienza e la critica.
- Darko
Suvin, La fantascienza e il “novum,”
in La fantascienza e la critica,
di prossima pubblicazione presso Feltrinelli.
- Sergio
Solmi, Prefazione a Le meraviglie del possibile,
Torino, Einaudi, 1959: ristampato in Sergio Solmi, Saggi sul fantastico, Torino, Einaudi, 197.
- Sul tema
Utopia e Fantascienza, v. per esempio Metamorphoses
of Scince Fiction di Darko Suvin, e il n. 2, 1979, di “Un’ambigua
utopia.” Milano.
- E ogni
tentativo di farla rivivere, magari collegandola a temi “avanzati” come
quello dell’ecologia, non può portare che a risultati meschini; si allude
per esempio, a Ecotopia di
Ernest Callenbach, Milano, Mazzotta, 1979, che sotto il velo dell’utopia
ecologica maschera una riverniciatura apologetica della “American way of
life” in versione agreste.
- Questo
parallelo fra utopia e fantascienza riprende e sviluppa un’argomentazione
avanzata da Jean Baudrillard in Simulacres
e Science-Fiction, intervento pronunciato al convegno di palermo. Cfr.
anche, di Baudrillard,Lo scambio
simbolico e la morte, milano, Feltrinelli, 1979. L’opinione dei
coniugi Panshin (in Mondi interiori,
Milano, Nord, 197) che la fantascienza sia la forma moderna delle vecchie
“letterature del trascendente,” è difesa con argomentazioni in effetti
abbastanza stiracchiate.
- Cfr.
Alessandro Portelli, Il presente
come utopia: la narrativa di Isaac Asimov, in “Calibano,” n. 2, Roma,
Savelli, 1978.
- Cfr.
l’intervento di John Fekete in La
fantascienza e la critica, cit.
- Vittorio
Curtoni, Giuseppe Lippi, Guida alla
fantascienza, Milano, Gammalibri, 1978.
- Jean
Baudrillard, in La fantascienza e la
critica, cit.
- Jean
Baudrillard, op. cit. Cfr. anche
All’ombra delle maggioranze silenziose, Bologna, Cappelli, 1978, e il
già citato Lo scambio simbolico e la
morte.
- In “Robot,”
Milano, Armenia, n. 30, 1978.
- Teresa De
Lauretis: Sf in USA: Linguaggio e
corpo, in “Alfabeta,” n. 3-4, Milano, 1979.
- Michel
Foucault, Le parole e le cose,
Milano, Rizzoli, 1967 e 1978 (citato nell’appendice di Samuel R. Delany, Triton, Milano, Armenia, 1978).
- Teresa De
Lauretis, Sf in USA, cit.
- Una parte
non piccola purtroppo, dei riferimenti di queste ultime pagine sono ancora
sconosciuti al lettore italiano. Per quanto riguarda Delany, per esempio,
se Triton ha trovato ospitalità
nei “Libri di Robot,” di Armenia, una traduzione di Dhalgren giace ancora nei cassetti della Libra e non si sa
quando ne uscirà. Joanna Russ, poi, che rappresenta una delle voci più interessanti
della nuova fantascienza femminile, ha avuto, se non andiamo errati, tre
racconti tradotti in tutto (e manca, per esempio, il suo libro The Female Man il cui esame
sarebbe stato indispensabile per un discorso più approfondito sul tema
della sessualità). Di Dhalgren e
The Female Man si parla
nell’articolo di Teresa De Lauretis.
Nessun commento:
Posta un commento