(Linus luglio 1984)
L’ultimo romanzo di Kurt Vonnegut (Il grande tiratore, Bompiani) ha nel
titolo un suono ambiguo che neppure un abile traduttore come Piero Francesco
Paolini ha potuto rendere. Il Deadeye
Dick dell’originale è infatti, dal nome di un attrezzo marinaresco, un
soprannome da marinaio; ma è anche l’epiteto gergale con cui, nel Middle West,
si indicava un tiratore particolarmente abile. A Rudy Waltz, farmacista di
Midland City nell’Ohio, il soprannome è rimasto appiccicato da quando, all’età
di dodici anni, salì sul terrazzo di casa sua con una carabina Springfield,
lasciò partire una pallottola e la pallottola incontrò una pacifica signora
incinta che faceva le pulizie di casa. Da quel momento il duplice omicida Rudy
Waltz è segnato: all’isolamento sprezzante o alla morbosa curiosità dei
concittadini egli oppone una fredda chiusura, si dedica senza un moto di
ribellione ad accudire maniacalmente i genitori, rovinati dalla causa per danni
che è seguita alla “morte accidentale”, si impiega come commesso in un
drugstore notturno. E soprattutto diventa un “neutro” cioè uno “abituato a non
aspettarsi amore da nessuno, sicuro che quasi ogni cosa desiderabile sia
probabilmente collegata a qualche ordigno esplosivo”. Intorno a lui, infatti,
la rovina procede metodica: muore il padre, grottesca ma non odiosa figura di
falso pittore amico e ammiratore di Hitler, muore la madre corrosa dalla
radioattività di un caminetto costruito con materiali di scarto di una centrale
atomica, si suicida Celia, la ragazza più bella e più disprezzata della città,
perde il posto di direttore della NBC il fratello Felix. Fino a che, un bel
giorno, scompaiono tutti gli abitanti di Midland City, per effetto di una bomba
a neutroni esplosa forse accidentalmente. Ora Rudy, Felix e il cuoco creolo
Hippolyte Paul De Mille che parla sempre al presente, stanno ad Haiti (l’unica
nazione al mondo nata da una rivolta di schiavi vittoriosa) da dove Rudy ci
racconta la sua storia: e conclude, questo “ammalato di vita”, questo essere
dal “soprannome anfibio”, che “i Secoli Bui non sono ancora finiti”. Dopo le
prove deludenti di Slapstick e Jailbird (un pezzo da galera),
Vonnegut ritorna con un romanzo che possiamo mettere vicino, appena un poco
sotto, alle sue cose migliori: Le sirene
di Titano, Ghiaccio-nove, Mattatoio 5. Abbandonati gli ordigni
fantascientifici che usava negli anni Sessanta, Vonnegut non ha più bisogno di
ricorrere agli abitanti del pianeta Tralfamadore per enunciare la sua radicale
e disincantata filosofia della vita, ma può esprimerla direttamente, facendola
scoprire a Rudy nella sua prima notte in guardina: “Era una negra del Profondo
Sud e fu lei a instillarmi l’idea che la nascita è l’aprirsi di uno spioncino e
la morte il richiudersi di esso”. “Non ho mica chiesto io, al mio spioncino, di
aprirsi”, dice appunto la negra. Certo, con la riduzione della dimensione
fantastica e il contemporaneo attenuarsi del riferimento ai grandi avvenimenti
sociali come il Vietnam (così presente, per esempio, in Mattatoio 5), Vonnegut corre questa volta il rischio di farsi
invischiare nel compianto per la precarietà della condizione umana, o nel
vagheggiamento di un’età passata e più felice. Ma c’è sempre un colpo d’ala,
una trovata da maestro che ristabilisce i diritti del nichilismo che sa ridere
anche su se stesso, come il graffito che Rudy legge sul muro di un gabinetto (e
che inevitabilmente perde molto del suo carattere ghignoso nella traduzione):
“to be is to do – Socrates/To do is to be – Jean-Paul Sartre/Do be do be do –
Frank Sinatra”.
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