Linus dicembre 1982
Piove sempre, in questa Los Angeles del 2019, le
facciate degli enormi grattacieli, da cui a intervalli regolari sorridono
enormi e improbabili visi di geishe portati in primo piano, riproducono i
meandri intricati di un microprocessore, d’altra parte tutta la decorazione
labirintica degli interni, l’architettura pesante e barocca degli edifici
ricordano stranamente sempre l’elettronica, per quel poco che se ne può vedere
quando una fonte di luce obliqua e incassata si rivela improvvisamente. L’acqua
e la penombra dominano incontrastati in Blade
Runner, l’ultima fatica di Ridley Scott (I duellanti, Alien):
l’acqua che scende dal cielo, implacabile e radioattiva, e che penetra
scivolando sui muri interni della casa nel corso della lotta finale tra il
poliziotto e il capo degli androidi, la penombra che avvolge strade e stanze e
che la luce riesce di volta in volta a respingere provvisoriamente, mai a
fugare del tutto. Scott e i suoi sceneggiatori hanno eliminato o attenuato alcuni
degli elementi che spiegavano questa situazione nel romanzo da cui il film è
tratto: ma hanno reso con grande efficacia e quel che più conta con discrezione
il clima di oppressione che sovrasta la città descritto già da Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheeps? (“Sognano
gli androidi pecore elettriche?”. La prima edizione italiana, uscita col titolo
Il cacciatore di androidi più di
dieci anni fa, è ormai esaurita, la prossima è annunciata dall’Editrice Nord,
con discutibile scelta dei tempi, per la primavera prossima). Do Androids Dream…, pur non potendo
essere considerato uno dei capolavori di Dick, resta nondimeno un romanzo
interessante. Il tema di fondo è sempre quello del Dick degli anni Sessanta, la
confusione fra i diversi piani di realtà, l’androide come copia talmente
perfezionata dell’uomo da non potersene più distinguere. Il disagio del
protagonista, Rick Deckard, oscuro impiegato di polizia incaricato di
“ritirare” dalla circolazione sei androidi pericolosissimi dell’ultimo raffinatissimo
modello, il Nexus-6, nasce dalla scoperta progressiva di una segreta affinità
tra se stesso e le sue vittime: anche la vita di Deckard si svolge in una
dimensione artificiale, segreta spesso ma sempre determinante, con l’”organo
degli umori”, computer induttore di stati d’animo che regola il suo stanco
rapporto con la moglie, e gli animali “elettrici”, robot zoomorfi che
sostituiscono gli animali veri ormai in via di estinzione per effetto della
radioattività (la Terra è ormai quasi completamente spopolata, e l’umanità è
emigrata nelle colonie planetarie). Alla fine, se Deckard continuerà
imperturbabile ad ammazzare androidi, sarà solo per intascare il premio e poter
acquistare così un animale vero, dal prezzo altrimenti proibitivo. Scott,
eliminando la maggior parte di questi elementi, impone ad Harrison Ford un
Deckard molto più “chandleriano” di come Dick lo avesse immaginato, facendone
un personaggio tormentato e crepuscolare, secco nei suoi gesti ma roso da un
incurabile male di vivere (laddove il Deckard del romanzo, forse meno
accattivante, risultava a volte anche patetico). E quindi, naturalmente, niente
di male se, da questo punto di vista, Dick è stato disatteso e Scott ha creato
una figura quasi interamente nuova: è un’operazione già sperimentata, e con
buoni risultati a volte, nei rapporti tra letteratura e cinema (un esempio fra
tutti, la “riscrittura” proprio di Raymond Chandler fatta da Robert Altman in Il lungo addio). Dove Scott risulta
poco convincente è dove calca la mano, dove tenta di rendere più plausibile la
“pericolosità” degli androidi (ribattezzati, con un neologismo che farà
sicuramente fortuna, “replicanti”) facendone delle vere e proprie macchine da
guerra, il che consente di esibire alcune scene certamente ricche di suspense in
cui Ford-Deckard viene ridotto malino; dove introduce una dimensione
eccessivamente riflessiva e moraleggiante nell’operare dei replicanti, o dove
appiccica al tutto un finale improvvisamente lieto in cui l’amore anticipa una
possibilità di convivenza serena fra uomo e androide. L’aspetto più riuscito
del film, oltre alla buona interpretazione di Harrison ford (forse
imprevedibile per chi lo ricordava solo come l’Indiana Jones de I predatori dell’arca perduta o l’Han
Solo della saga di Guerre stellari),
è certamente la scenografia e l’ambientazione, la Los Angeles che abbiamo
ricordato all’inizio, questa città impenetrabile e triste, in cui asiatici e
messicani si sono diffusi a macchia d’olio monopolizzando la lingua e la
cucina, oltre alle strade senza neppure una esplicita dimensione di violenza
umana, sociale (le uniche scene violente sono quelle della lotta con i
replicanti), perché la violenza aleggia, sorda e incomprensibile,
nell’architettura delle case, nei movimenti imprevedibili degli abitanti che affollano,
come zombie, le strade sature di pioggia.