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domenica 12 gennaio 2020

Antonio Caronia: A carte rimescolate


Linus aprile 1983

Il declino delle ideologie, che erano state le eredità, comodo o scomoda che i decenni precedenti avevano lasciato ai movimenti degli anni Settanta, continua inarrestabile. E continuerà, almeno per un po’. I segni sono tanti, non tutti coerenti, forse, ma leggerli non è difficile: riguardano, naturalmente, il comportamento di una minoranza della popolazione, minoranza estesa, ma sempre minoranza. Si tratta di quelle persone che, negli anni passati, hanno fatto appunto riferimento ai movimenti, o hanno militato nei partiti o nei gruppi politici (e in parte continuano a farlo anche oggi), e che da questo riferimento traevano modelli di comportamento, se non proprio ragioni di vita. Ad esse si mescolano quei giovani che, ancora dieci o sei anni fa, sarebbero stati portati dalla loro inquietudine o dal loro desiderio di capire e modificare la realtà a militare nei movimenti e nei partiti di massa e che oggi non possono più farlo per l’inesistenza dei movimenti e la crisi dei partiti. Questa minoranza “attiva” (in senso intellettuale) è naturalmente variegatissima, e i suoi comportamenti sono spesso molto differenziati. Tuttavia si può riconoscere qualche tendenza comune.  La prima, probabilmente, è questa: come negli anni passati questi strati erano stati prevalentemente consumatori di politica, oggi sono prevalentemente consumatori di cultura. Nelle grandi città non è più possibile andare a una conferenza o a un dibattito con qualche nome abbastanza noto senza trovare la sala stracolma e una lunga fila che preme per entrare. A Milano è successo in modo clamoroso, negli ultimi mesi, almeno due volte: la prima volta in occasione di una conferenza di Popper, la seconda volta alla serie di incontri “Processo alla cultura”, coordinati e animati dal filosofo Emanuele Severino e organizzati dal circolo culturale Pierlombardo. Ogni volta negli esclusi un disappunto che sfiorava la disperazione, nei fortunati che erano riusciti ad entrare un attento silenzio e un fiorire di quaderni e registratori per accogliere, con sereno, disincantato egualitarismo, tutti gli interventi, noiosi o interessanti, seriosi o brillanti che fossero. I primi ad essere stupiti sono di solito gli organizzatori, che devono trovare all’ultimo momento teatri, o altre sale più capienti, per accogliere le migliaia di persone che arrivano, e non sempre ci riescono. –Non ci aspettavamo certo una rispondenza del genere-, diceva Monica Maimone del Pierlombardo una sera, al termine di uno degli incontri, -e la cosa, se da un lato ci fa piacere, dall’altro ci pone anche dei problemi. Avevamo deciso quest’anno di fare una stagione impopolare, sia come teatro che come circolo culturale, e ci siamo invece imbattuti in queste esplosioni di pubblico. Per gli operatori culturali si tratta adesso di capire come formare, e non solo seguire passivamente, un gusto- . Anche in Italia, dunque, ci avviamo ad avere i nostri maìtres-à-penser? Io non credo che la cosa stia in questi termini. In Italia anche la minoranza di cui si sta parlando è stata sempre refrattaria a “prendere sul serio” i discorsi degli intellettuali (pensiamo a Pasolini), e anche questo nuovo atteggiamento del pubblico assomiglia più alla voglia tenace e un po’ caotica di informarsi che alla ricerca di maestri. Venuta meno la rassicurante guida delle ideologie, soprattutto di quelle di sinistra, è naturale che si cerchi di sapere più che si può sui discorsi e sulle teorie anche più specializzate, ma senza un’adesione né uno sbocco preciso. –Per certi versi questo pubblico potrebbe ricordare quello che frequentava i centri culturali negli anni ’50 e ’60-, dice ancora Monica Maimone, -ma in realtà è molto diverso, perché in quegli anni il bisogno di cultura veniva subito usato politicamente, per una battaglia di opposizione, mentre oggi i frequentatori di queste iniziative non si pongono contro a nulla, utilizzano con disinvoltura tutte le sedi, comprese quelle istituzionali-. Io ho l’impressione che il fenomeno sia accostabile a quello del boom delle riviste di divulgazione scientifica, scoppiata negli ultimi due/tre anni, con una proliferazione delle testate e un vertiginoso aumento delle tirature, dell’ordine delle centinaia di migliaia di copie. Ma il consumo, se non distratto, indifferente, si potrebbe dire, disponibilmente indifferente: il consumo a cui ci sta abituando il mezzo elettronico e televisivo. Interesse, molto: adesione, poca. Il che è collegato poi a un altro aspetto della questione, che si ritrova anche nelle ultime parole citate sopra dell’organizzatrice del Pierlombardo: questa “minoranza” è scarsamente interessata, molto meno che in passato, comunque dalla polarizzazione destra/sinistra. L’anticomunismo di Popper, alcuni anni fa, avrebbe fatto scandalo anche presso il tipo di pubblico che è andato a sentirlo a Torino e a Milano: oggi viene registrato, magari con qualche perplessità, o dibattuto con urbanità e disincanto. Non ci si deve aspettare di meno da questi anni, che vedono a tutti i livelli una rivincita del “soft” sull’”hard”. Tanto più che forze e discorsi diversi si liberano anche dalle aree etichettate a destra, ed è comprensibile che questo accada oggi, quando la “crisi di civiltà” provocata dal dilagare del progresso tecnico-scientifico comincia a far sentire gli effetti in tutte le sfere, anche le più minute, della vita quotidiana. Se ne è accorto con acutezza Massimo Cacciari, filosofo che si avvia a diventare (credo) ex deputato del Pci, quando nel novembre scorso è andato a partecipare ad un convegno della cosiddetta “Nuova destra”, suscitando clamore, allarme e stracciamento di vesti dentro e fuori il suo partito. D’altra parte, se questo gruppo di “Nuova destra” si è staccato, con aspre critiche, dalla militanza politica nel Msi o nelle organizzazioni collaterali, anche nelle sempre più sparute minoranze giovanili organizzate nei partiti e nei gruppi si fa più arduo distinguere tra la destra e la sinistra quanto ai comportamenti, ai gusti, al linguaggio. Mi è capitato di assistere, poco più di un mese fa, ad una assemblea in una grande scuola vicino a Milano organizzata dagli studenti del Fronte della gioventù per protestare contro l’aggressione al loro compagno Di Nella, a Roma (che in effetti è morto qualche giorno dopo): la loro mozione naturalmente non è passata, perché in quella scuola la tradizione politica prevalente tra gli studenti è di sinistra, ma il linguaggio, le argomentazioni, le “mozioni degli affetti” usate da quegli studenti di destra erano singolarmente simili a quelle che usavano gli studenti di sinistra, gli anni scorsi, in analoghe occasioni. Anche le frasi un po’ roboanti e le promesse (questa volta, obiettivamente, ancora più sproporzionate) di “far pagare tutto” non si sa a chi. D’altra parte che il Di Nella, quando fu aggredito, stesse attaccando manifesti per una manifestazione “ecologica”, è un altro sintomo. Una demarcazione più netta fra destra e sinistra, certamente, prima o poi si determinerà di nuovo, perché è una dialettica eterna e inevitabile: ma è probabile che non si costruisca più sugli stessi elementi che abbiamo conosciuto nei decenni passati, e che per qualche tempo si debba assistere ancora a rimescolamenti di carte addirittura più “scandalosi” di quelli che stiamo conoscendo adesso.

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