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giovedì 31 dicembre 2020

Antonio Caronia: Fantascienza come sistema




 Linus dicembre 1983

In un recente convegno (Teoria dei sistemi e razionalità sociale, Bologna, 21/22/23 ottobre 1983) si è parlato da molti punti di vista e con grande passione dello stato delle scienze sociali oggi, in relazione al nuovo paradigma della cosiddetta “teoria dei sistemi” introdotta in sociologia principalmente ad opera di Niklas Luhmann. Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ho ascoltato e letto, perché non sono né filosofo né sociologo, ma alcune cose mi sono sembrate interessanti. Il concetto di sistema, ha spiegato a un certo punto Luhmann nella sua introduzione è di tipo “autoreferenziale”, intanto perché la descrizione di un sistema è essa stessa un sistema, ma anche perché, in un senso più specifico, è il sistema stesso a produrre gli elementi di cui è costituito, in modo che la sua organizzazione in un dato momento è il risultato dei rapporti e delle relazioni fra i suoi elementi interni. E, come è naturale, lo stesso carattere di “aureferenzialità” è insito nella teoria dei sistemi: è proprio questo carattere, secondo Luhmann, che consente alla teoria di svilupparsi senza riferimenti a finalità esterne (e quindi senza infiltrazioni di un punto di vista “morale”). Il concetto di “sistema autopoietico” (cioè autoproducentesi, autocreantesi), Luhmann lo trae esplicitamente dalla biologia e dalla cibernetica: il sistema biologico, o, se volete, cibernetico, è quello che è capace di mantenersi stabile attraverso l’omeostasi, cioè un intercambio di materia, energia, informazione, fra interno ed esterno in grado di produrre nel sistema le modificazioni necessarie a garantire la sua sopravvivenza in relazione agli stimoli dell’ambiente. È stato a questo punto che mi è scattato un relai nella testa:: mi sono improvvisamente ricordato dove avevo letto per la prima volta quel curioso termine (omeostasi): era stato verso la metà degli anni Sessanta, in un racconto di Philip K. Dick. A quel punto ho smesso di ascoltare e mi sono messo a divagare. Potremmo dunque considerare la fantascienza di Dick come una antesignana delle più recenti teorie sociologiche: i suoi universi sono proprio dei “sistemi” nel senso di Luhmann, che si autoregolano, riproducono costantemente le condizioni della propria esistenza in modo del tutto immanente, dilatandosi fino a comprendere nel possibile (o nel pensabile) anche l’improbabile, come accade, per fare un esempio, in Ubik. Ma in realtà è tutta la fantascienza, nella sua qualità di elemento egemone, riassuntivo, dell’immaginario tecnologico contemporaneo, ad avere le caratteristiche del sistema cibernetico. La fantascienza “sociologica” degli anni Cinquanta si conferma in questo senso come il momento in cui questo genere letterario basso acquista una prima coscienza di sé, e comincia a diventare fenomeno culturale di massa, costituendo quel “polo fantastico” contrapposto a un “polo realistico” di cui ha parlato più volte Pagetti (rimando al suo intervento contenuto nel volume L’Einstein perduto, atti del convegno di Ferrara del 24/26 ottobre a cura di Alberto Poggi, Edizioni Coop, Charlie Chaplin, 1982, L. 6.000). La recente ristampa di un romanzo di Sheckley, anche se non dei migliori, permetterà di verificare questa tesi anche al lettore più distratto (Gli orrori di Omega, Classici FS, Mondadori, L. 3.000). Per citare sempre Luhmann, è nel momento in cui la teoria dei sistemi riconosce se stessa come soggetto e contemporaneamente come oggetto di indagine che nasce l’ironia: una strada che appunto la fantascienza sociologica – e il suo rappresentante più swiftiano, che è stato Sheckley – aveva già percorso nel rovesciamento della tradizione del romanzo utopistico. E non è forse un caso che uno degli autori di sf che, rimessosi a scrivere dopo anni di silenzio, riproponga la tematica della fantascienza come autoriferimento, come autocitazione, arrivi proprio dall’esperienza degli anni Cinquanta, e si chiami Frederik Pohl (v. il suo recente Alla fine dell’arcobaleno, Nord, L. 6.000).


mercoledì 30 dicembre 2020

Antonio Caronia: Esotiche letture

 


Linus luglio 1985

Amo l’India. Certamente un’India letteraria (quella reale non l’ho mai vista e non so se mai la vedrò), che ho incontrato da bambino nei romanzi prima di Salgari e poi di Kipling, e che deve essermi rimasta dentro a maturare. In anni più recenti mi continua a stupire, con un atteggiamento che so essere ingenuo ma da cui non mi libero, lo scarto fra la grandiosa mitologia induista (che mi hanno aiutato ad esplorare gli splendidi studi di Georges Dumézil) e la presente realtà, la miseria e la fame – che solo le condizioni ancora più tristi dell’Africa hanno cancellato dall’attenzione dei giornali – la tirannia del regime. Dopo aver letto i romanzi pazzi e vorticosi di Salman Rushdie, di cui ho parlato puntualmente su queste pagine, mi ero accostato con qualche diffidenza al voluminoso “Rj Quartet” (quartetto indiano) dell’inglese Paul Scott, di cui compare adesso, tradotto in italiano dall’instancabile Roberta Rambelli, il primo volume, La gemma della corona, The Jewel in the Crown, (Garzanti, pp. 568, L. 15.000), uscito nel 1966 in Inghilterra, dall’anno scorso è anche una miniserie televisiva (14 puntate) di buona fattura, premiatissima nell’isola e all’estero, che anche gli italiani potranno vedere prima o poi, quando una delle reti di Berlusconi deciderà di metterla in programma (visto che è già acquistata). In questo romanzo ponderoso e corale si parla degli avvenimenti dell’agosto 1942 (la sconfitta britannica in Birmania, i primi appelli di Gandhi alla disobbedienza civile) e di come essi furono vissuti nella città di Mayapore. Lo scollamento fra la comunità indiana e quella inglese viene visto rifratto nelle storie di alcuni personaggi, nella loro evoluzione e nei loro incontri obliqui e problematici, con la tecnica ben nota delle testimonianze e dei punti di vista diversi che si succedono man mano a illuminare (o complicare) il quadro. C’è la vecchia insegnante “libera” che si scontra con la realtà brutale dei disordini e della morte, la giovane infermiera bruttina che rimane vittima di una violenza nei giardini del Bibigha, il poliziotto inglese innamorato che ha già scelto come vittima il giovane indiano occidentalizzato che si rifiuta di parlare persino la sua lingua, la saggia e disincantata lady indiana testimone del cambiamenti. Certo Scott non è Rushdie, e neppure Durrell: però mostra di conoscere bene l’India, e per lenta sovrapposizione costruisce un quadro illuminante (anche se non sempre intrigante) dei rapporti fra due civiltà così diverse. Non senza qualche buona arguzia britannica, come questa definizione che degli inglesi dà la vecchia lady indiana: -Siete uno strano popolo. Quando camminate al sole, siete consapevoli della lunghezza o della brevità delle ombre che gettate sul suolo-. Il tema dello scontro fra due culture è anche al centro dei tre racconti di London che Sandro Roffeni ha raccolto e ci presenta col titolo di uno di essi, Il rosso, (Sugarco, pp. 142, L. 8.000). Sono tre storie ambientate nei mari del Sud, scritte da London nell’anno stesso della morte, il 1916. Quella che dà il titolo alla raccolta è il resoconto di una sfida e di una sconfitta: un bianco prostrato dalle malattie equatoriali tenta di penetrare il segreto della lontana divinità a cui gli indigeni di Guadalcanal (Isole Salomone) tributano efferati sacrifici. Mentre la tribù che lo ospita attende ansiosa il momento della sua morte, Bassett riesce a intuire l’origine extraterrestre dell’enorme uovo senziente, il Rosso, che gli indigeni considerano dio, ma non sopravviverà per portare la notizia in Patria. È la sconfitta della razionalità occidentale che non riesce a superare la prova di questa vera e propria discesa agli inferi costellata delle ossa dei sacrificati al Rosso. Di ossa parlano anche gli altri due racconti, ambientati invece nelle isole Hawaii, e indubbiamente più “solari”. Tuttavia anche nell’ultimo racconto, Tibie, che personalmente ho apprezzato di più, si narra di una discesa nella notte, nel passato rappresentato dal luogo segreto dove riposano le ossa degli antenati di un giovane principe hawaiano. La spedizione è descritta magistralmente, con un piede sul pedale dell’orrore e l’altro su quello dell’ironia, fornita dal contrasto fra il giovane principe ormai occidentalizzato e miscredente e il vecchio e tremebondo servo. Ormai alla fine della vita, London è in grado di trattare con inedita leggerezza uno dei suoi temi preferiti, lo scontro della civiltà con le forze della natura e della tradizione.


martedì 29 dicembre 2020

Antonio Caronia: Dopo l'uomo


 

Linus maggio 1983

“Era profondamente radicata in loro la percezione che nell’Universo niente esiste come Materia, ma che tutto è Energia. Che noi tutti siamo solo ombre della stessa Energia, che niente e nessuno possiede un’identità propria. Che non esistono cose; e che, in realtà, l’elemento caratterizzante l’Universo consiste nella sua inesistenza.” Troviamo questa sintetica esposizione divulgativa dell’ipotesi idealista, a mezza strada fra il vescovo Berkeley e le dottrine buddiste, in Tempo di mostri, fiume di dolore di James Kahn (Urania n. 934, pp. 264, L. 1800) che presenta l’ennesima versione del mondo “dopo la catastrofe”: ma con tale ricchezza di scenari, particolari e riferimenti, da farne un utile repertorio di temi e figure dell’immaginario fantascientifico di questi ultimi anni. Qui risiedono le ragioni dell’interesse del romanzo, più che nell’andamento narrativo, abbastanza tradizionale anche se fluido e a tratti serrato. Ecco lo scenario: nel 24° secolo l’avanzata dei ghiacci ha ristretto l’abitabilità della terra a ristrette fasce temperate, ma l’umanità arriva all’appuntamento falcidiata dalle precedenti guerre nucleari e biologiche. In una America frazionata in piccoli territori e comunità, i pochi umani convivono con una pletora di esseri da incubo, usciti dalla fantasia dell’uomo dei secoli precedenti: Vampiri, Centauri, animali pensanti e parlanti, fino agli esseri artificiali più sofisticati, i Neurumani, corpi sintetici costruiti attorno a un cervello umano, isolato e tenuto in vita con tutto il bulbo spinale. È evidente quanto uno scenario del genere debba a Ballard, a Delany, a Farmer: il confronto con l’ultimo romanzo di quest’ultimo, Il sole nero (di cui si è parlato su queste pagine qualche mese fa) (1) si impone anche per la somiglianza di due dei protagonisti, il centauro Beauty nel romanzo di Hahn, e l’essere vegetale Sloosh in quello di Farmer. Ma sono evidenti anche le differenze: mentre Farmer si limita a mettere in scena i suoi personaggi, i suoi esseri mitologici, lasciando nell’ombra la loro origine, e anzi insinuando nel finale il dubbio che quel mondo sia proprio il nostro mondo, Kahn si preoccupa di dipingere un quadro razionale, e di informarci che vampiri, centauri e altri esseri fantastici sono il prodotto di manipolazioni genetiche su larga scala. Quale che sia la loro origine, però, tutti questi abitatori della fantascienza più recente alludono, con le loro forme e lo spazio che si portano dietro, ad un mondo che, per essere fantastico, non è meno attuale: un mondo in cui il posto centrale non è più occupato dall’uomo e dai sistemi di relazioni, di psicologie, di motivazioni ad esso collegati, ma dagli esseri (o, a volte, solo dalle funzioni) artificiali di cui l’uomo stesso, negli ultimi decenni, ha già cominciato a circondarsi. È una società post-umana quella che la fantascienza più recente ci descrive: è quella che Ridley Scott, forzando forse il testo ma non l’insieme dell’opera di Dick, ha messo insieme così efficacemente in Blade Runner, una società in cui l’uomo non è scomparso, ma deve affrontare tutti i nuovi e sconvolgenti problemi che derivano dalla coabitazione con un insieme di forme di vita artificiali, prodotte da lui stesso eppure dotate di logica, sensibilità, comportamenti, aspettative, strategie a lui estranee. Nonostante la similarità degli argomenti e degli scenari, non è più della vecchia fantascienza catastrofista degli anni 50 e 60 che si tratta, ora, ma del riconoscimento (con tutta la paura e l’angoscia che questo ancora comporta) che l’uomo, anche prima del fatidico incontro con gli esseri provenienti da altri mondi, non è più solo, già oggi, su questa terra; che bisogna scoprire poco a poco, o inventarsi tutto d’un colpo, un nuovo modo di convivere con i prodotti della nostra creatività.

(1)   Meglio morti che immortali, in Linus novembre 1982 QUI


lunedì 28 dicembre 2020

Antonio Caronia: Confessioni di un mangiatore di carta stampata


 Linus dicembre 1980

-Ah-, dice, -voi siete quelli che scrivono su Linus-, -Eh, sì-, rispondiamo noi, e poi ci vergogniamo un po’ e nervosamente cerchiamo di parlare d’altro, perché ci sembra che la domanda successiva debba essere: -Ma che ci scrivete a fare?- (come, un po’ di anni fa, davanti alle fabbriche, ci chiedevano: -Ma chi vi paga?-). Che sia una crisi di identità con tutti i crismi, o un semplice momento di astenia autunnale, ci stiamo chiedendo da un po’ (ed è per questo che temiamo che gli altri ce lo chiedano) che cosa voglia dire questa nostra rubrichetta di segnalazioni, polemiche e varia umanità: anche perché –va detto- ci pesa la maniera poco educata con cui l’abbiamo iniziata, alcuni mesi fa, così, subito nel merito senza neppure presentarci brevemente. E non opponeteci che nelle nostre angosce scribacchino-esistenziali a voi lettori manovratori-manovrati di-da quella macchina dal bizzarro funzionamento che è il mercato, poco importa. Perché è dalla risoluzione, o meno, di queste angosce che dipende il fatto che noi scriviamo cose frizzanti e intelligenti, oppure delle vaccate. E quindi, fedeli ad una concezione tardo-democratica del rapporto scrittura/fruizione, di queste angosce facciamo partecipi anche voi, che se in fondo siete tutti diventati dei “lectores in fabula” è anche colpa vostra. Non cercate neanche di prenderci in castagna ricordandoci, con aria di sufficienza, che nella società dei simulacri il senso implode, che la distanza tra reale e immaginario è abolita, e quindi che senso ha chiedersi che senso c’è. Eh: Baudrillard, Lyotard, Perniola e Vattimo li leggiamo anche noi: e tutte quelle cose lì le abbiamo anche già dette e scritte, quando il problema era di fare bella figura. Ma guardate che anche fare gli alfieri del non senso mica è facile: non basta dire: -Ah dimenticavamo: il senso è imploso, e tutto denota tutto e perciò non connota più niente-. Forse è un passo importante, però magari l’hanno già fatto i Wutki più di dieci anni fa su un giornalino che si chiamava come questo. Certo, si può fare come quelli di Frigidaire, che dicono: -Non chiedetevi che rapporto c’è fra tutto quello che trovate qui dentro, perché tanto anche la vita è incasinata, e questa rivista, che non è niente di meno, anche-. Sfido: quelli si chiamano Pazienza, Scozzari, e così via, e possono anche far finta di essere la vita. Ma qui è un’altra cosa. Ricapitoliamo. Quando l’O.d.B. ci ha chiesto di tenere questa rubrichetta per parlare della fantascienza, segnalare i libri, fare le nostre polemiche (con moderazione), noi, collettivo/cooperativa/redazione di rivista/adesso anche libreria, agenzia fotografica e tutto quello che siamo, abbiamo accettato con entusiasmo, perché eravamo convinti che questo discorso sulla fantascienza fosse sottovalutato, preso sottogamba un po’ da tutti. Ci siamo detti: -Bene, ecco un’altra occasione per cercare di capire meglio questo rapporto tra fantascienza e realtà, per capire quanto nella nostra vita è diventato fantascienza (o quanto la fantascienza è diventata la nostra vita)-. Perché a noi il problema sembrava questo, e ci esaltavamo ancora, trovavamo la forza di meravigliarci nel vedere quanta parte dell’immaginario, del repertorio di immagini tecnologiche/sociologiche/antropologiche/alienontologiche della fantascienza si stesse trasferendo nella nostra vita quotidiana. Ecco: poi, forse, dietro alle novità librarie, alle polemiche con quelli che della fantascienza hanno ancora un’immagine e una pratica che a noi pare vecchia, quel discorso non siamo riusciti a farlo. O non siamo riusciti a farlo molto chiaro: forse anche perché i primi a non averlo chiaro eravamo noi. Però l’intenzione era questa, e se non ve l’avessimo detto, forse non si sarebbe capito perché adesso vi parliamo di un piccolo convegno a cui siamo stati e che, un poco, ha contribuito a renderci meno confuse le idee.

https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2019/10/antonio-caronia-fra-codice-e-codice.html

domenica 27 dicembre 2020

Antonio Caronia: Euro Cannes

 


Linus giugno 1980

Come vi abbiamo accennato due volte fa, ai primi di maggio c’è stato il quinto convegno europeo di fantascienza (Eurocon, in gergo: le associazioni evocate da una lettura in francese di questa sigla non sono affatto, ovviamente, imputabili agli organizzatori) svoltosi nella cornice del deplorevole e deprimente palazzo dei congressi di Stresa. Cornice per altro abbastanza in sintonia con il programma e lo svolgimento ufficiale del convegno stesso, su cui spenderemo adesso qualche riga. I lettori considerino, per favore, che il nostro è un punto di vista di un collettivo abbastanza anomalo nel panorama della fantascienza italiana: abbiamo i nostri “autori preferiti”, ma non sbaviamo vedendoli di persiona (alcuni incontri, con Bester e Brunner, per esempio, ci hanno confermato nella convinzione che in genere è meglio evitare di far parlare gli autori di sé stessi); ci sforziamo di avere delle idee su come si potrebbe fare una buona politica editoriale nella fantascienza, ma non abbiamo interessi editoriali da difendere; e via di questo passo. Per questo, inevitabilmente, non ci piacciono quasi mai le stesse cose che piacciono agli altri appassionati, detti, con stucchevole barbarologismo, Fans (mentre l’insieme di cui essi fanno parte viene detto Fandom). Siamo perciò convinti che a molti di costoro l?Eurocon sia andato bene così com’era. A noi no, e cercherò di spiegare il perché. C’era innanzitutto la questione del premio: l’idea del premio non ci entusiasma in genere, in nessun campo e in nessun settore: ma questi premi, assegnati all’Eurocon passavano proprio la misura. Non si scopre l’America dicendo che dietro ai premi ci sono interessi editoriali precisi, anche se gli editori interessati all’Eurocon smentiscono inorriditi (ma allora il loro accanimento nel disputarseli andrebbe spiegato con improbabili sindromi demenziali, nelle quali non crediamo). Per il premio Italia, dal risultato e dalla distribuzione dei voti, pare di capire a noi, dall’esterno, che esso sia stato il risultato di un accordo tra l’Editrice Nord, di Gianfranco Viviani (il quale in qualità di coordinatore dell’Eurocon, ne ha avuto il principale onore e onere), e l’editore Fanucci, e in genere l’area di destra: alla Nord il premio per il miglior romanzo e la migliore collana, alla destra quelli per la migliore fanzine e il miglior saggio. Noi, che siamo in fondo un collettivo educato, non avremmo preteso però di dire proprio queste cose dalla tribuna del premio: ci saremmo limitati a leggere una dichiarazione molto più generica sull’imbecillità dei premi, se la presidenza, nella persona del suddetto Viviani e (spiace dirlo) di John Brunner, non avesse deciso per noi, togliendoci bruscamente la parola. Pazienza, sarà per un’altra volta: l’imbecillità è un tema che non tramonta mai… Poi c’è la questione dei soldi_ per accedere all’Eurocon occorrevano la bellezza di 25.000 lire (18.000 se si era prenotato in anticipo): e in cambio si aveva una mostra di libri stranieri (non in vendita), alcuni stand di librerie di editori (4 in tutto) e una rassegna di film su cui non diciamo nulla perché non ci piace infierire. L’attento osservatore avrebbe poi notato che il manifesto ufficiale dell’Eurocon non era altro che la copertina del catalogo dell’Editrice Nord. Non conosciamo il bilancio di questa società, ma abbiamo l’impressione che il capitolo “campagne promozionali” non riguardi tutte quelle effettivamente messe in atto. E veniamo al difetto più grosso: il 5° Eurocon, come in genere tutte le manifestazioni di questo tipo, è servito agli editori e ai professionisti (quelli che ci sono venuti) per farsi pubblicità, scambiarsi idee, prendere accordi; agli appassionati “organizzati” in rivistine, circoli, etc., per rivedersi, fare nuove conoscenze (e in questo senso, certo, è servito anche a noi), appagare il proprio feticismo. Non è servito ai lettori “normali”, e per fortuna ce n’erano pochi. Nella sala del congresso gli interventi si susseguivano, preparati da mesi, nella solita passerella, senza alcuna comunicazione gli uni con gli altri. Quei pochi spazi di discussione che ci sono stati li abbiamo organizzati noi, a lato e nell’indifferenza del convegno ufficiale. Da quelle riunioni è uscita l’idea, che ci siamo incaricati di rendere pubblica: quella di un incontro tra appassionati e lettori di fantascienza organizzato in modo diverso: poche relazioni preparate (due, tre), tanto spazio per la discussione, anche per chi ha da dire poche cose e non se le scrive in anticipo: il tutto in uno spazio, possibilmente, più adatto di Stresa alla moltiplicazione degli incontri e delle discussioni. Noi ci ritorneremo sulle pagine di Un’Ambigua Utopia: voi, comunque, fateci sapere che cosa ne pensate.


venerdì 4 dicembre 2020

Dal cyborg al postumano di Antonio Caronia. Recensione di Giuliano Spagnul

 


Molto acutamente Alberto Abruzzese, nella prefazione al libro “Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale” per le edizioni Meltemi, (1) nel declinare le tre fasi di “approfondimento e raffinamento della (…) particolare prospettiva politico-culturale” di Antonio Caronia, assieme all’insegnamento nella scuola e alle lezioni in contesti accademici, pone la sua laurea in matematica “che gli ha conferito una specifica competenza nel trattare testi e processi solitamente in mano a altre discipline.” È una doverosa sottolineatura, ancor più perché si tende facilmente a dimenticarsene. Certo, che ci fosse una competenza di stampo scientifico e un forte interesse a coniugare l’immaginario con la scienza era più che evidente in lui; anche se difettava di quel cipiglio un po’ arido e freddo che si vorrebbe caratteristica degli uomini di scienza e, in particolare, di quelli dediti alla matematica, scienza tra le più pure. Ma in realtà, forse, era proprio questa la matrice che gli permetteva di spingersi più oltre di tanti altri, nel cogliere il peso determinante che le astrazioni del fervido immaginario umano (quella capacità di costruire mondi virtuali in cui sperimentare i sogni più arditi) hanno sulla vita reale e concreta di tutti noi. E ancora Abruzzese nota, giustamente, nel desiderio di Caronia, celato nell’invito a dimenticare il Novecento (secolo delle rivoluzioni fallite), la speranza di una nuova via di liberazione dal potere “finalmente possibile a ragione della scomparsa del corpo umano dentro un corpo che non soffrisse più degli inganni della natura spietatamente antropocentrica e della violenza della forza sovrana che ne ha fatto irreversibile strumento di dominio.” È il tema del postumano, da sempre centrale per Caronia e che proprio lui tradisce negli ultimi mesi di vita preferendo dedicarsi a un seminario su “arte e follia” a Macao, invece che alla stesura di un articolo richiestogli per il numero di Aut Aut dedicato proprio al postumano. Di quell’articolo non sono rimaste tracce, nessuna nota o appunto, solo un’entusiasta mail agli amici per condividere la gioia di questa inaspettata richiesta. È vero quel desiderio, a cui accenna Abruzzese, desiderio più che umano di andare oltre l’umano ma è vero che proprio Caronia poteva vantare di averne lucida coscienza, accompagnata da un’altrettanta lucida autocritica . (2) Cos’altro avrebbe potuto dire, in quel momento, sul postumano che non avesse già ribadito con forza più volte, e cioè che non di un superamento del corpo (in una sorta di divenire angelico) si tratta, ma del finire delle condizioni di un determinato sapere (episteme) e di “una nuova nascente episteme”. È questo che sta a significare  per Antonio Caronia la parola postumano. Una nuova parola per una vecchia storia che sempre, a più riprese, si è presentata lungo l’arco della storia evolutiva della nostra specie: la trasformazione dei dispositivi di formazione di un nuovo sé, quei dispositivi che nell’epoca appena trascorsa hanno costruito quell’”Io” del soggetto moderno e che in questa nuova epoca, modificati, ne stanno costruendo uno affatto nuovo. Cos’altro avrebbe potuto aggiungere in un volume dedicato al postumano se non uno scontro/incontro con il proprio corpo, carnale, artificiale, immaginato che sia: e questo ha fatto optando per il silenzio delle parole scritte a favore di quelle orali, vis-à-vis, con altri umani, altri corpi, come il suo soggetti ad ammalarsi e a perire, non prima però di aver espresso tutta la loro voglia del vivere e di gioire. È giusto quindi che questa antologia di scritti inizi con un testo non scritto, una lezione all’Accademia di Brera nella tarda primavera del 2010. Per chi considera la biopolitica foucaultiana come un teorema superato dall’evoluzione odierna degli strumenti tecnologici e della loro capacità di operare, o meno, sulla viva carne degli individui, questa lezione sulla nascita della biopolitica, coestensiva a quella dell’uomo artificiale (robot, androide, cyborg che sia) chiarisce in modo esemplare l’essenza di questo concetto, così spesso frainteso nonché abusato. La biopolitica è il punto di snodo in cui la storia umana concepisce l’idea della “modificabilità della natura” da parte dell’uomo e questo nuovo sapere determina un potere che necessariamente deve servirsi di nuovi dispositivi capaci di modificare la natura dell’essere umano stesso. All’artificialità della natura corrisponderà, d’ora in poi, l’artificializzazione dell’umano: “non ci sono più uomini naturali una volta che è comparso l’artificio all’orizzonte della specie umana.” E al potere non basterà più esercitare la pura sovranità o un regime disciplinare (di addestramento all’obbedienza), occorrerà, per perpetuarsi, fare quel salto enorme di rendere governabile la vita in tutte le sue forme, da quella individuale, a quella sociale, a quella immaginale, a quella biologica fino ai suoi recessi più profondi e intimi: “la biopolitica vuol dire che è stato reso governabile l’ingovernabile.” Antonio Caronia ha capito che, in realtà, Foucault non ha fatto altro che parlarci di biopolitica  (nonostante che questo termine compaia solo alla fine del corso del ’76) (3) anche quando si è messo minuziosamente a raccontarci la storia della sessualità o i processi di soggettivazione della Grecia antica come del primo cristianesimo. Tutto il suo lavoro tende verso quell’”irruzione della naturalità della specie umana all’interno dell’ambiente artificiale” (4) che Caronia si spinge a completare modificandolo in una forma più consona all’oggi: “l’irruzione della naturalità della specie umana all’interno dell’ambiente artificiale determina l’artificialità della stessa natura umana, la trasformazione artificiale della stessa natura umana.” Schematizzando, credo che Antonio Caronia abbia voluto, tramite Foucault, dirci che la natura dell’uomo consiste nella sua progressiva artificializzazione e che per biopolitica si deve intendere quella possibilità di rendere questo processo governabile, nel suo divenire sempre più, di fatto, ingovernabile. La questione non è quindi la comparsa di qualcosa di nuovo che chiameremo biopolitica, come se non fosse mai esistita una politica che in un qualche modo abbia cercato di governare la nostra vita, ma piuttosto della sua inedita e inaudita potenza che oggi ha assunto grazie al nuovo sapere-potere che le ha conferito la fusione tra scienza e tecnica, con progressione esponenziale in questa fine e inizio di nuovo millennio. Questo libro, curato sapientemente da Loretta Borrelli e Fabio Malagnini, suddiviso in tre parti, sostanzialmente riguardanti il cyborg, la fantascienza e il postumano, in realtà ci accompagna in un percorso che oltre a volerci far “dimenticare il Novecento” vuole anche farci uscire dalle secche di quel linguaggio a lui ancora strettamente legato. Né il cyborg, né il postumano, né la fantascienza tutta (di basso o alto livello che sia) possono pensare di essere traghettati nel nuovo secolo/millennio senza essere depurati da quelle croste di residui utopici o prometeici peculiari di un tempo irrimediabilmente finito. “La fantascienza (non si può non essere d’accordo con Ballard) è stata l’immaginario portante del XX secolo (…) la fantascienza sarà ancora l’immaginario portante del nuovo secolo? La risposta è più probabilmente no che sì. La fantascienza cadrà vittima (forse è già caduta vittima) di quel processo che ha saputo così bene illustrare, e nei casi migliori interpretare, quello della caduta del cielo dell’immaginario sulla terra del reale.” (5) Quando la fantascienza si cala nella realtà fino ad annullare, di fatto, quella distanza indispensabile, “quel minimo scarto fra progettualità e realizzazione” si rende impossibile l’esistere di quella zona franca in cui poter immaginare i possibili potenziali, tutto rimane schiacciato entro i confini di quel contingente sempre più dato come unico possibile. La parola fantascienza deve quindi, per noi del nuovo millennio, dirci qualcosa di scandalosamente nuovo. Qualcosa che “non ha più niente a che vedere con il futuro della modernità, che era una proiezione del presente del soggetto, un luogo da costruire con pazienza, sagacia e tenacia, nei tempi lunghi del lavoro e della progettualità” ma, invece, con un futuro che assomiglia “piuttosto a uno spasmo del presente, a un’anticipazione frenetica di processi che non si distendono più dal passato al presente e oltre, ma vivono sin dall’inizio perennemente proiettati in avanti.” (6) E allora la fantascienza oggi deve essere una parola nuova che come quella che dice cyborg o postumano deve definire un concetto piuttosto che un’essenza. E questi concetti, questi modi nuovi di pensare e di pensarci, maturano in una fase storica di violenta accelerazione tecnologica in cui è, e sarà, sempre più necessario fare i conti non con ciò che è dato, certo, a cui si può fare affidamento, ma a ciò che è mutevole, incerto, non definito. Perché una realtà che non può più contare su un futuro da immaginare, programmare e realizzare rende obsoleti quei confini tra dato e immaginato che vivevano ancora entro  quella forzatura ossimorica che stava alla base della parola fantascienza. Alla fine questa ottima scelta antologica, io credo, ci ponga di fronte a quello che è il nodo centrale per riuscire a sopravvivere all’utopia capitalista (unica uscita vincente dal secolo appena trascorso), quello di considerare  il tempo in cui stiamo vivendo in sostanziale continuità o discontinuità con quello passato. Cioè se il futuro è realmente scomparso, se la cultura non può più essere considerata elemento estraneo alla natura, se lo spazio del virtuale non è più uno spazio immaginato ma è esperito e vissuto nella nostra quotidianità in quanto ne facciamo ormai completamente parte e i tanti altri se che Caronia pone ci costringono a una presa di posizione, che per quanto riguarda lui non può che essere che quella di assumersi la responsabilità di divenire postumani e quindi in sostanziale discontinuità con ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Una nuova difficile, ancorché inquietante e insieme esaltante, costruzione di un nuovo ibrido, ennesima variante di una (come Caronia amava descrivere la nostra storia di specie) tra le più sofisticate sperimentazioni della natura. Non è detto che debba andare per forza bene, e l’avveramento dei più arditi sogni del capitalismo non possono non prefigurare l’esito infausto di quest’avventura. Per farcela non avremo bisogno di nuove utopie ma di una storia fatta di parole nuove che ci permettano di costruire “tattiche di resistenza, nella forma di ‘slittamenti temporali’, quelle fughe nel futuro e nel passato di cui ci parlava Philip K. Dick. (…) Per non farci trovare mai lì dove si pensa che dovremmo essere per fare la nostra parte di agenti valorizzatori, di colonizzatori del tempo per conto terzi”. (7) E poi? E poi è una domanda che appartiene a una storia finita, chiusa. A noi serve una storia aperta dal finale non scontato, perché noi, nonostante i sogni del capitale che ci vorrebbe tutti morti, siamo ancora vivi.  

Nota 1: Antonio Caronia, Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale, a cura di Loretta borrelli e Fabio Malagnini, Culture Radicali, Meltemi editore, 2020.

Nota 2: Nel ricordo per Enrico Livraghi: “E capivo che lui mi etichettava spietatamente ma con una certa tolleranza tra gli ‘antropologhi ottimisti del cyberspazio’ (…) e riluttavo allora, mentre capii poi che nell’essenziale aveva ragione.” http://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2015/06/antonio-caronia-per-enrico-livraghi-da.html

Nota 3: Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli 1998

Nota 4: M. Foucault, Sicurezza Territorio popolazione, Feltrinelli 2005

Nota 5: A. Caronia,  L’insostenibile naturalità della tecnica, 1999

Nota 6: A. Caronia,  Digital Time,  2008

Nota 7: idem

Pubblicato su La Bottega del Barbieri Qui  (18 agosto 2020)

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