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mercoledì 17 febbraio 2021

Antonio Caronia: Fra le stelle o sotto la terra

 

 
Linus ottobre 1983

Se la pratica del serial funziona per i film, si sarà detto Arthur C. Clarke, perché non provare anche con i libri? Ed ecco arrivare, dopo Superman II e III, dopo il ciclo di Guerre Stellari, in lieve anticipo sulla riesumazione nientemeno che di James Bond (Octopussy), anche il seguito, ahinoi, 2001: Odissea nello spazio. Uscito l’anno scorso in Inghilterra e USA, 2010 Odissea due viene ora tempestivamente tradotto in italiano (Rizzoli, pp. 286, L. 16.000). Ma, come già in molti esempi cinematografici, la ripresa di ambienti, personaggi e situazioni della “più grande storia del secolo” maschera anche stavolta nient’altro che la stanchezza di ispirazione e sclerosi della fantasia. Il che, fra l’altro, mi riconferma nella convinzione che Clarke sia autore quasi sempre piatto e mediocre, e che solo il fortuito incontro con Kubrick abbia prestato anche al romanzo di 2001 quel fascino che tutti ricordiamo, e che non era forse che l’eco delle immagini del film. Con la consueta precisione tecnica che gli deriva dalla formazione scientifica, Clarke descrive il viaggio dell’astronauta Leonov con equipaggio misto russo-americano alla volta della Discovery per riuscire a liberarla dalla posizione di stallo in cui l’avevamo lasciata alla fine di 2001 (nella zona di Giove, come nel film) e riportarla sulla terra. Nel corso della missione assistiamo quindi alla riattivazione del mega-computer Hal, alla ricomparsa del gigantesco monolito, ad alcuni scorrazzamenti dello spirito disincarnato dell’astronauta Bowman (protagonista del fantasmagorico finale di 2001, insomma, non fa che confermare la ripetitività e la stanchezza di chi si ostina a scrivere la fantascienza come negli anni 40 e 50. Perché, se è vero che la natura imita l’arte, come dice lo stesso Clarke nella sua introduzione al libro, questo succede proprio perché la natura come esisteva prima dell’era spaziale sta scomparendo, e al suo posto c’è la natura ricreata e modellizzata dalla scienza e dalla tecnica. È chiaro comunque che chi apprezza questo tipo di fantascienza troverà in 2010 un libro onesto, godibile e ben costruito. Le mie preferenze vanno – ho appena bisogno di ricordarlo ai lettori di Linus – alle invenzioni di figure e di società che vanno verso un “oltre” l’uomo, agli esperimenti di torsione del corpo e dello spirito umani, alle sociologie aliene. Fra i titoli più recenti di questo tipo, almeno due vanno ricordati: Il primo è Mockingbird di Walter Tevis, disponibile in due traduzioni (Solo il mimo canta al limitare del bosco, Nord, L. 5000; Futuro in trance, Mondadori, L. 4000; devo ringraziare l’enciclopedica Silvia Quai per averlo segnalato fin da luglio). L’altro è una novità solo per l’Italia, visto che in America è uscito oltre dieci anni fa: si tratta di L’alveare di Hellstrom (Nord, pp. 278, L. 6000) ed è di Frank Herbert, l’autore di Dune. Mentre l’utopia negativa di Tevis, pur contenendo una delle figure di androidi meglio costruite nella fantascienza degli ultimi anni, mi sembra però viziata da una vena di moralismo che affiora qua e là, una sorta di rimpianto per il buon tempo andato, ho trovato il libro di Herbert molto lucido, compatto e straordinariamente attuale. Attraverso la rielaborazione di figure e situazioni della fantascienza più classica, due società sono messe a confronto. Da un lato quella umana, quella a noi nota, sia pur vista attraverso l’esasperazione deformante dell’ambiente designato a rappresentarla, che è un’agenzia informativa ultra-segreta del governo americano; dall’altro la società “nuova”, l’Alveare, organizzato in parte sul modello delle comunità di insetti, ma costituito di umani mutati geneticamente e dotato di una mente collettiva, di una sua razionalità. L’interesse dell’opera (che si situa all’incrocio tra il genere utopistico e quello “genetico/robotico” inaugurato da Frankenstein) sta nello scontro violento che oppone i due poli, L’alveare e l’agenzia governativa, portatori di modelli, valori, interessi, metodi, assolutamente contrapposti. L’autore, come nota giustamente Pagetti nella sua introduzione, si rifiuta però di prendere chiaramente posizione a favore dell’uno o dell’altro campo, sottolineando semmai con maggior crudezza il cinismo e il disprezzo della vita che caratterizza il mondo degli umani. Lorrore istintivo del lettore per la figura dell’insetto, che giganteggia dietro a tutta la narrazione, si bilancia in questo modo con lo spettacolo della meschinità e del cinismo delle spie, contribuendo alla sospensione, oltre che dell’incredulità, anche del giudizio morale; e quella che trionfa è, al fondo, una grande rappresentazione dell’inconscio (non si dimentichi che entrambi i poli del romanzo, l’Alveare e l’agenzia, sono, ognuno a loro modo, nascosti, segreti, e questa è la condizione della loro sopravvivenza). Come se, per dirla con Villiers de L’Isle Adam, “per trovare l’ideale si dovesse prima passare per il regno delle talpe”.


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