Se la pratica del serial funziona per i film, si
sarà detto Arthur C. Clarke, perché non provare anche con i libri? Ed ecco
arrivare, dopo Superman II e III, dopo il ciclo di Guerre Stellari, in lieve anticipo
sulla riesumazione nientemeno che di James Bond (Octopussy), anche il seguito,
ahinoi, 2001: Odissea nello spazio.
Uscito l’anno scorso in Inghilterra e USA, 2010
Odissea due viene ora tempestivamente tradotto in italiano (Rizzoli, pp.
286, L. 16.000). Ma, come già in molti esempi cinematografici, la ripresa di
ambienti, personaggi e situazioni della “più grande storia del secolo” maschera
anche stavolta nient’altro che la stanchezza di ispirazione e sclerosi della
fantasia. Il che, fra l’altro, mi riconferma nella convinzione che Clarke sia
autore quasi sempre piatto e mediocre, e che solo il fortuito incontro con
Kubrick abbia prestato anche al romanzo di 2001
quel fascino che tutti ricordiamo, e che non era forse che l’eco delle immagini
del film. Con la consueta precisione tecnica che gli deriva dalla formazione
scientifica, Clarke descrive il viaggio dell’astronauta Leonov con equipaggio
misto russo-americano alla volta della Discovery per riuscire a liberarla dalla
posizione di stallo in cui l’avevamo lasciata alla fine di 2001 (nella zona di Giove, come nel film) e riportarla sulla terra.
Nel corso della missione assistiamo quindi alla riattivazione del mega-computer
Hal, alla ricomparsa del gigantesco monolito, ad alcuni scorrazzamenti dello
spirito disincarnato dell’astronauta Bowman (protagonista del fantasmagorico
finale di 2001, insomma, non fa che
confermare la ripetitività e la stanchezza di chi si ostina a scrivere la
fantascienza come negli anni 40 e 50. Perché, se è vero che la natura imita
l’arte, come dice lo stesso Clarke nella sua introduzione al libro, questo
succede proprio perché la natura come esisteva prima dell’era spaziale sta
scomparendo, e al suo posto c’è la natura ricreata e modellizzata dalla scienza
e dalla tecnica. È chiaro comunque che chi apprezza questo tipo di fantascienza
troverà in 2010 un libro onesto,
godibile e ben costruito. Le mie preferenze vanno – ho appena bisogno di
ricordarlo ai lettori di Linus –
alle invenzioni di figure e di società che vanno verso un “oltre” l’uomo, agli
esperimenti di torsione del corpo e dello spirito umani, alle sociologie
aliene. Fra i titoli più recenti di questo tipo, almeno due vanno ricordati: Il
primo è Mockingbird di Walter Tevis,
disponibile in due traduzioni (Solo il
mimo canta al limitare del bosco, Nord, L. 5000; Futuro in trance, Mondadori, L. 4000; devo ringraziare
l’enciclopedica Silvia Quai per averlo segnalato fin da luglio). L’altro è una
novità solo per l’Italia, visto che in America è uscito oltre dieci anni fa: si
tratta di L’alveare di Hellstrom (Nord,
pp. 278, L. 6000) ed è di Frank Herbert, l’autore di Dune. Mentre l’utopia negativa di Tevis, pur contenendo una delle
figure di androidi meglio costruite nella fantascienza degli ultimi anni, mi
sembra però viziata da una vena di moralismo che affiora qua e là, una sorta di
rimpianto per il buon tempo andato, ho trovato il libro di Herbert molto
lucido, compatto e straordinariamente attuale. Attraverso la rielaborazione di
figure e situazioni della fantascienza più classica, due società sono messe a
confronto. Da un lato quella umana, quella a noi nota, sia pur vista attraverso
l’esasperazione deformante dell’ambiente designato a rappresentarla, che è
un’agenzia informativa ultra-segreta del governo americano; dall’altro la
società “nuova”, l’Alveare, organizzato in parte sul modello delle comunità di
insetti, ma costituito di umani mutati geneticamente e dotato di una mente
collettiva, di una sua razionalità. L’interesse dell’opera (che si situa
all’incrocio tra il genere utopistico e quello “genetico/robotico” inaugurato
da Frankenstein) sta nello scontro
violento che oppone i due poli, L’alveare e l’agenzia governativa, portatori di
modelli, valori, interessi, metodi, assolutamente contrapposti. L’autore, come
nota giustamente Pagetti nella sua introduzione, si rifiuta però di prendere
chiaramente posizione a favore dell’uno o dell’altro campo, sottolineando
semmai con maggior crudezza il cinismo e il disprezzo della vita che
caratterizza il mondo degli umani. Lorrore istintivo del lettore per la figura
dell’insetto, che giganteggia dietro a tutta la narrazione, si bilancia in
questo modo con lo spettacolo della meschinità e del cinismo delle spie,
contribuendo alla sospensione, oltre che dell’incredulità, anche del giudizio
morale; e quella che trionfa è, al fondo, una grande rappresentazione
dell’inconscio (non si dimentichi che entrambi i poli del romanzo, l’Alveare e
l’agenzia, sono, ognuno a loro modo, nascosti, segreti, e questa è la
condizione della loro sopravvivenza). Come se, per dirla con Villiers de L’Isle
Adam, “per trovare l’ideale si dovesse prima passare per il regno delle talpe”.
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