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venerdì 17 marzo 2017

Antonio Caronia: Un'Ambigua Utopia - Luogo comune - ottobre 1978 (1^ parte)



(Sintesi della discussione nel collettivo milanese di Un’Ambigua Utopia)
(Progetto per una nuova serie della rivista)

1. È convinzione comune dei compagni del collettivo che, soprattutto dopo la festa di settembre, le cose non possano più andare avanti come prima. Nel corso del 1978, il collettivo ha visto crescere sotto i suoi occhi un’iniziativa, che era cominciata quasi per gioco e senza un programma preciso, fino a diventare qualcosa di più impegnativo e (questo è più preoccupante) non controllato da collettivo stesso. L’aumento di tiratura della rivista, la stessa festa di settembre, le occasioni di dibattito che si vanno moltiplicando in questo scorcio di ottobre (i dibattiti alla libreria Utopia, Piacenza, Lucca)1 sono altrettanti segni degli spazi che UN’AMBIGUA UTOPIA, quasi spontaneamente, va occupando, mentre altri, ancora più estesi, si fanno intravedere. In una situazione così (e la cosa non è nuova) stare fermi vuol dire andare indietro, né peraltro  ci si può lanciare  in un attivismo sfrenato, nella moltiplicazione di occasioni di incontro e di iniziativa senza aver riflettuto, anche solo un po’, sul senso delle cose che si vanno a fare. Il nostro dibattito di ottobre è stato appunto teso a riconquistare il controllo sulle cose che facevamo o che potevamo avere intenzione di fare.
2. Il nostro giudizio sull’andamento, i pregi, i difetti, i limiti, le cose belle e brutte della festa di settembre sta sul n. 4 della rivista, e non lo ripetiamo dunque in questa sede. Facciamo invece un passo indietro più consistente, per cercare di recuperare il senso della nostra iniziativa, come era partita e come per strada si è andata arricchendo e (solo un po’) anche precisando. La rivista è nata come punto di incontro di una serie di compagni, con esperienze politiche e personali (non lo ripeteremo mai abbastanza) molto diverse alle spalle, il cui terreno comune era l’interesse (anche questo variegato e sventagliato su livelli e intensità differenti) per la letteratura e il cinema e il fumetto fantastici e di fantascienza. Questo interesse, a lungo costretto in una sfera individuale e privata, quando non addirittura represso e/o vissuto con senso di colpa, veniva ora rivendicato come interesse squisitamente personale (non più privato), perciò collettivizzabile, perciò in senso lato politico (per chi da ancora un senso a questa parola), o comunque utilizzabile ai fini di una crescita collettiva e dentro un movimento per il rovesciamento dello stato di cose presenti (movimento esistente o da costruire, manifesto o latente, concentrato o diffuso, questo rimaneva e rimane impregiudicato all’interno del collettivo, e ognuno conserva le sue opinioni, molto diverse l’una dall’altra come su parecchie altre questioni).                                                                                            Fin dall’inizio (è bene sottolinearlo) questo discorso si traduceva già in qualcosa di un po’ più preciso. Intanto nella individuazione del nesso fantascienza/realtà. Naturalmente adesso (ottobre 1978) usiamo parole e frasi forse più pertinenti, relative alla chiarezza che abbiamo adesso, e non su quella che avevamo un anno fa: ma il nucleo dell’intuizione c’era già sicuramente da allora (e basta rileggere l’editoriale del n° 1 per accorgersene)2. Fantascienza e realtà, dunque. La fantascienza, dicevamo, non è il parto di qualche scrittore particolarmente brillante, di qualche fantasia particolarmente sbrigliata. Segue, anticipa, percorre e ripercorre sentieri già dati, quelli dello sviluppo sociale, scientifico, antropologico dell’homo sapiens nell’era della terza e della quarta rivoluzione industriale. Naturalmente c’è il sense of wonder, e chi lo nega?, c’è l’aspetto ludico e creativo nello scrivere e nel disegnare e nel filmare di fantascienza, ma il sottofondo da cui tutto ciò nasce è (e non potrebbe essere altrimenti) un sottofondo reale. Cosa banale e scontata, questa, senz’altro: ma per nulla diffusa nella banale, ripetitiva e (adesso anche) accademica e paludata critica di fantascienza di casa nostra. E forse per questo è apparsa tanto nuova ad amici e nemici, ad estimatori e detrattori.                                                                                                                                                La seconda cosa che dicevamo, e anche questo fin dal primo numero, era la questione della pratica dell’utopia. Questo slogan nasceva dalla constatazione del carattere separato e privatizzante che ha, in questa società, la fruizione della letteratura di fantascienza (come ogni altro genere di arte e di cultura, tanto di élite come di massa). Quando non si configura come pura evasione, la lettura di un libro o la visione di un film di fantascienza serve a soddisfare sì esigenze di fantasia, di creatività, di immaginazione (usiamo tutti questi termini un po’ all’ingrosso, per ora), ma in modo del tutto separato dalla nostra vita reale, in una sfera di fruizione appunto privata. Finita la lettura del libro, o la visione del film, tutto continua come prima. Quello che per caso ci è venuto in mente durante quel periodo rimane completamente staccato dagli altri aspetti della nostra vita, e questo non è imputabile alla pigrizia mentale di chi riceve quei messaggi, ma alla loro struttura interna e alle condizioni nelle quali avviene il “godimento” dello spettacolo o la lettura. In altri termini, la letteratura e il cinema fantastici e di fantascienza, che recherebbero in sé possibilità e germi di un modo di vivere diverso, vengono invece programmaticamente e praticamente utilizzati come “valvola di sfogo” per impedirci di far vivere tensioni e contraddizioni nella vita quotidiana. Immaginazione, fantasia? Certo, come no: eccovi Guerre stellari, Incontri ravvicinati, Asimov, ma per i più esigenti c’è anche la Le Guin. Purché tutto ciò non interferisca con le vostre ore di lavoro, con le prestazioni che dovete assicurare (e per cui siete pagati) per la sopravvivenza del sistema; purché tutto ciò non interferisca con la vostra attività di assorbimento di ideologia e di sempre più limitate capacità professionali nel ghetto-scuola; purché non interferisca con la vostra emarginazione di disoccupati, di abitanti dei quartieri dormitorio. Tutto ciò non si cambia. La vostra vita non cambia: ma prevede, questo sì, quella frazione di tempo che riuscirete a procurarvi col vostro potere d’acquisto di “libertà”, di svincolamento dalla logica del principio di realtà. Ma attenzione a non mescolare le due sfere. Se tenti di trasferire fantasia e immaginazione nella tua vita quotidiana: Pentiti, Arlecchino…
3. Che tutto questo ordine di considerazioni avesse dei punti di contatto con quanto avevano sollevato i movimenti di lotta cresciuti in Italia o in Europa negli ultimi anni (usiamo, tanto per intenderci, anche qui l’etichetta “movimento del “77”, ben sapendo che essa copre – e non dà unità – a realtà ben diverse e disperse tra loro) era cosa abbastanza scontata per noi, e, crediamo, anche per la maggior parte dei lettori della rivista. Se vogliamo essere schematici e riepilogare, i titoli possono essere questi:                                                                                                                                                        - tutta la rivalutazione che cercavamo di fare della fantasia e, diciamolo pure, del “senso del meraviglioso” in fantascienza si collegava senza dubbio con la parallela rivalutazione che quei movimenti facevano della fantasia e della creatività;                                                                                - non solo, ma quello che andavano dicendo sull’irruzione del fantastico nel quotidiano (e che cercavamo di sostanziare in alcuni momenti pratici, come la festa di settembre3) non era nient’altro che un aspetto, una concretizzazione se si vuole, di quella critica della politica che movimento delle donne, dei giovani, movimento del 77 portavano avanti da tempo. Fare irrompere il fantastico nel quotidiano lo vedevamo e lo vediamo come strumento di cambiamento della nostra vita, della vita di tutti, come premessa e parte di un processo di trasformazione collettiva: è quindi parte del discorso sul rifiuto della politica come funzione separata all’interno della nostra vita, e del tentativo di recuperare gli aspetti della politica utilizzabili per un progetto di trasformazione collettiva;               - e ancora, la critica della tecnologia e il rispecchiamento della crisi della scienza che troviamo in tanta parte della fantascienza contemporanea (dalla fine degli anni ’60 in poi, per essere più precisi) le vedevamo collegate al discorso cosiddetto dell’intelligenza tecnico-scientifica, e cioè, come noi lo interpretiamo, da un lato alla riscoperta della contraddizione (a suo tempo individuata da Marx) fra diffusione e accumulo del sapere sociale e incapacità del capitale di assumere questo sapere sociale nel processo produttivo (cioè di valorizzarlo sotto forma di lavoro morto); dall’altro alla capacità che esiste di contrapporsi all’uso della scienza come strumento di dominio o controllo sociale, non più sulla base di discorsi letterari o (peggio ancora) di utopie preindustriali, agreste-rural-pastorali, ma sulla base di una pratica e un utilizzo concreto di strumenti scientifici e tecnologici sia per inceppare la macchina lubrificata del dominio (vedi p. es. l’uso della falsificazione) sia per indicare elementi progettuali e alternativi della civiltà futura (vedi in questo senso tutta la questione del nucleare).
4. Per arrivare ad un discorso più concreto sulle trasformazioni della rivista e del collettivo, mancano però ancora almeno due tasselli: alcune considerazioni congiunturali relative al “movimento” (qualunque sia il senso che attribuiamo a questo termine, e che preciseremo poi) e un breve panorama sul mercato e il mondo della fantascienza in Italia. Cominciamo da questa seconda cosa. Sia che il boom editoriale e cinematografico della fantascienza sia destinato a durare, sia che si trovi invece in fase di esaurimento (come alcuni “esperti” pensano, p. es. Curtoni), l’apparizione sulla scena fantascientifica di nuovi strati e nuove figure di lettori/spettatori è un dato inequivocabile. Un’analisi più precisa della stratificazione di questo “nuovo pubblico” è cosa desiderabile, e ne parleremo più avanti; ma fin d’ora, anche in modo impressionistico, possiamo essere sicuri di non sbagliarci se diciamo che una parte di questo pubblico è formato da compagni, gente con esperienza politica (e le connesse esigenze) alle spalle, giovani comunque orientati a sinistra, che esprimono, a vari livelli, bisogni che vanno nel senso del superamento dello stato di cose presenti. Se non vogliamo essere più precisi nella quantificazione – cosa impossibile senza un’indagine approfondita – possiamo parlare di migliaia di persone senza uscire dall’ambito del verosimile. Questa area esprime, in varie maniere (anche in modo non esplicito, si vuol dire, per esempio nel caso di coloro che si rivolgono alla fantascienza apparentemente per un puro bisogno di “evasione”) una domanda critica su ciò che legge, un’esigenza di riflessione e spesso di orientamento (evidentemente non autoritario, cioè non è disposta a prendere per oro colato quello che si legge, anche se chi scrive si qualifica come compagno in un settore che finora ne ha visti pochi). Come possa soddisfare questa esigenza, lo sappiamo bene tutti: non la può soddisfare quasi per nulla. Non gli serve Urania, meno ancora altre collane (come quella di Belloni) che comunque non offrono nessun inquadramento dei tanti che presentano. Ma anche nella produzione di editori più “ambiziosi” sul piano culturale (intendiamo Fanucci, Nord, Libra) non troveranno strumenti utilizzabili. Fanucci gli offre, con le introduzioni di De Turris e Fusco, documenti dichiarati e riconoscibili di un innegabile revival della cultura di destra; la Libra, fluviali sproloqui autistici di Malaguti a cui nessun compagno, credo, può resistere molto oltre le 20/30 righe; la Nord, in alcune collane, esempi di una critica certo più sofisticata (citiamo per tutti Pagetti) ma inguaribilmente malata di accademismo.                                                                                Riviste di fantascienza, in Italia, non ce n’è. Certo, c’era Robot3. È stato l’unico tentativo di fornire al lettore degli elementi di inquadramento degli autori, delle correnti, delle opere, accessibili ma non superficiali. Non certamente nel senso in cui noi potremmo intendere una critica alla e della fantascienza (smontaggio, cioè, il più preciso possibile, dei meccanismi che presiedono alla produzione e alla distribuzione del prodotto-fantascienza; decodificazione dei reali messaggi sottostanti, ecc.), ma insomma qualcosa di più onesto, anche se neutro, e qualche incursione sporadica in un regno di temi e modi più congeniali a noi e a questo ipotetico “lettore-compagno” (evidentemente è il caso di Guerrini e di qualche altro polemista). Ma Robot, dopo il piccolo golpe di Armenia, non esiste più: è una rivista di antologie (a quanto dicono Curtoni, e Lippi che c’è rimasto) di buon livello, e niente più.                                                                                                     Chiudiamo questo punto, perciò, segnalando l’esistenza di questo spazio, vuoto e a nostro parere non piccolo. Siccome l’editoria, come la politica, ha orrore del vuoto, prevediamo anche con molta verosimiglianza che qualcuno, prima o poi, si proverà a riempirlo.


Nota 1: settembre 1978, Piacenza partecipazione al convegno della Cooperativa scrittori “La produzione mentale” con un intervento nella lingua di Vega 4, molto seguito da Francesco Leonetti e Maria Corti.                                                   Ottobre 1978, Lucca Comics.
Nota 2: che verrà ripubblicata in questo Blog nel prossimo mese di aprile.
Nota 3: Robot rivista di fantascienza fondata da Vittorio Curtoni nel 1976.

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