(Sintesi
della discussione nel collettivo milanese di Un’Ambigua Utopia)
(Progetto
per una nuova serie della rivista)
1. È convinzione comune dei compagni del collettivo
che, soprattutto dopo la festa di settembre, le cose non possano più andare
avanti come prima. Nel corso del 1978, il collettivo ha visto crescere sotto i
suoi occhi un’iniziativa, che era cominciata quasi per gioco e senza un
programma preciso, fino a diventare qualcosa di più impegnativo e (questo è più
preoccupante) non controllato da collettivo stesso. L’aumento di tiratura della
rivista, la stessa festa di settembre, le occasioni di dibattito che si vanno
moltiplicando in questo scorcio di ottobre (i dibattiti alla libreria Utopia,
Piacenza, Lucca)1 sono
altrettanti segni degli spazi che UN’AMBIGUA UTOPIA, quasi spontaneamente, va
occupando, mentre altri, ancora più estesi, si fanno intravedere. In una
situazione così (e la cosa non è nuova) stare fermi vuol dire andare indietro,
né peraltro ci si può lanciare in un attivismo sfrenato, nella
moltiplicazione di occasioni di incontro e di iniziativa senza aver riflettuto,
anche solo un po’, sul senso delle cose che si vanno a fare. Il nostro
dibattito di ottobre è stato appunto teso a riconquistare il controllo sulle
cose che facevamo o che potevamo avere intenzione di fare.
2. Il nostro giudizio sull’andamento, i pregi, i
difetti, i limiti, le cose belle e brutte della festa di settembre sta sul n. 4
della rivista, e non lo ripetiamo dunque in questa sede. Facciamo invece un
passo indietro più consistente, per cercare di recuperare il senso della nostra
iniziativa, come era partita e come per strada si è andata arricchendo e (solo
un po’) anche precisando. La rivista è nata come punto di incontro di una serie
di compagni, con esperienze politiche e personali (non lo ripeteremo mai
abbastanza) molto diverse alle spalle, il cui terreno comune era l’interesse
(anche questo variegato e sventagliato su livelli e intensità differenti) per
la letteratura e il cinema e il fumetto fantastici e di fantascienza. Questo
interesse, a lungo costretto in una sfera individuale e privata, quando non
addirittura represso e/o vissuto con senso di colpa, veniva ora rivendicato
come interesse squisitamente personale (non più privato), perciò
collettivizzabile, perciò in senso lato politico (per chi da ancora un senso a
questa parola), o comunque utilizzabile ai fini di una crescita collettiva e
dentro un movimento per il rovesciamento dello stato di cose presenti
(movimento esistente o da costruire, manifesto o latente, concentrato o
diffuso, questo rimaneva e rimane impregiudicato all’interno del collettivo, e
ognuno conserva le sue opinioni, molto diverse l’una dall’altra come su
parecchie altre questioni).
Fin dall’inizio (è bene sottolinearlo) questo discorso si traduceva già
in qualcosa di un po’ più preciso. Intanto nella individuazione del nesso
fantascienza/realtà. Naturalmente adesso (ottobre 1978) usiamo parole e frasi
forse più pertinenti, relative alla chiarezza che abbiamo adesso, e non su
quella che avevamo un anno fa: ma il nucleo dell’intuizione c’era già
sicuramente da allora (e basta rileggere l’editoriale del n° 1 per
accorgersene)2.
Fantascienza e realtà, dunque. La fantascienza, dicevamo, non è il parto di
qualche scrittore particolarmente brillante, di qualche fantasia
particolarmente sbrigliata. Segue, anticipa, percorre e ripercorre sentieri già
dati, quelli dello sviluppo sociale, scientifico, antropologico dell’homo
sapiens nell’era della terza e della quarta rivoluzione industriale.
Naturalmente c’è il sense of wonder, e chi lo nega?, c’è l’aspetto
ludico e creativo nello scrivere e nel disegnare e nel filmare di fantascienza,
ma il sottofondo da cui tutto ciò nasce è (e non potrebbe essere altrimenti) un
sottofondo reale. Cosa banale e scontata, questa, senz’altro: ma per nulla
diffusa nella banale, ripetitiva e (adesso anche) accademica e paludata critica
di fantascienza di casa nostra. E forse per questo è apparsa tanto nuova ad
amici e nemici, ad estimatori e detrattori.
La seconda cosa che
dicevamo, e anche questo fin dal primo numero, era la questione della pratica
dell’utopia. Questo slogan nasceva dalla constatazione del carattere separato e
privatizzante che ha, in questa società, la fruizione della letteratura di
fantascienza (come ogni altro genere di arte e di cultura, tanto di élite come
di massa). Quando non si configura come pura evasione, la lettura di un libro o
la visione di un film di fantascienza serve a soddisfare sì esigenze di
fantasia, di creatività, di immaginazione (usiamo tutti questi termini un po’
all’ingrosso, per ora), ma in modo del tutto separato dalla nostra vita reale,
in una sfera di fruizione appunto privata. Finita la lettura del libro, o la
visione del film, tutto continua come prima. Quello che per caso ci è venuto in
mente durante quel periodo rimane completamente staccato dagli altri aspetti
della nostra vita, e questo non è imputabile alla pigrizia mentale di chi
riceve quei messaggi, ma alla loro struttura interna e alle condizioni nelle
quali avviene il “godimento” dello spettacolo o la lettura. In altri termini,
la letteratura e il cinema fantastici e di fantascienza, che recherebbero in sé
possibilità e germi di un modo di vivere diverso, vengono invece
programmaticamente e praticamente utilizzati come “valvola di sfogo” per
impedirci di far vivere tensioni e contraddizioni nella vita quotidiana.
Immaginazione, fantasia? Certo, come no: eccovi Guerre stellari, Incontri
ravvicinati, Asimov, ma per i più esigenti c’è anche la Le Guin. Purché tutto
ciò non interferisca con le vostre ore di lavoro, con le prestazioni che dovete
assicurare (e per cui siete pagati) per la sopravvivenza del sistema; purché
tutto ciò non interferisca con la vostra attività di assorbimento di ideologia
e di sempre più limitate capacità professionali nel ghetto-scuola; purché non
interferisca con la vostra emarginazione di disoccupati, di abitanti dei
quartieri dormitorio. Tutto ciò non si cambia. La vostra vita non cambia: ma
prevede, questo sì, quella frazione di tempo che riuscirete a procurarvi col
vostro potere d’acquisto di “libertà”, di svincolamento dalla logica del
principio di realtà. Ma attenzione a non mescolare le due sfere. Se tenti di
trasferire fantasia e immaginazione nella tua vita quotidiana: Pentiti,
Arlecchino…
3. Che tutto questo ordine di considerazioni avesse
dei punti di contatto con quanto avevano sollevato i movimenti di lotta
cresciuti in Italia o in Europa negli ultimi anni (usiamo, tanto per
intenderci, anche qui l’etichetta “movimento del “77”, ben sapendo che essa
copre – e non dà unità – a realtà ben diverse e disperse tra loro) era cosa
abbastanza scontata per noi, e, crediamo, anche per la maggior parte dei
lettori della rivista. Se vogliamo essere schematici e riepilogare, i titoli
possono essere questi: - tutta la rivalutazione che cercavamo di fare della fantasia e,
diciamolo pure, del “senso del meraviglioso” in fantascienza si collegava senza
dubbio con la parallela rivalutazione che quei movimenti facevano della
fantasia e della creatività; - non solo, ma quello che andavano dicendo sull’irruzione del fantastico
nel quotidiano (e che cercavamo di sostanziare in alcuni momenti pratici, come
la festa di settembre3) non era nient’altro che un aspetto, una
concretizzazione se si vuole, di quella critica della politica che movimento
delle donne, dei giovani, movimento del 77 portavano avanti da tempo. Fare
irrompere il fantastico nel quotidiano lo vedevamo e lo vediamo come strumento
di cambiamento della nostra vita, della vita di tutti, come premessa e parte di
un processo di trasformazione collettiva: è quindi parte del discorso sul
rifiuto della politica come funzione separata all’interno della nostra
vita, e del tentativo di recuperare gli aspetti della politica utilizzabili per
un progetto di trasformazione collettiva; - e ancora, la critica della
tecnologia e il rispecchiamento della crisi della scienza che troviamo in tanta
parte della fantascienza contemporanea (dalla fine degli anni ’60 in poi, per
essere più precisi) le vedevamo collegate al discorso cosiddetto dell’intelligenza
tecnico-scientifica, e cioè, come noi lo interpretiamo, da un lato alla
riscoperta della contraddizione (a suo tempo individuata da Marx) fra
diffusione e accumulo del sapere sociale e incapacità del capitale di assumere
questo sapere sociale nel processo produttivo (cioè di valorizzarlo
sotto forma di lavoro morto); dall’altro alla capacità che esiste di
contrapporsi all’uso della scienza come strumento di dominio o controllo
sociale, non più sulla base di discorsi letterari o (peggio ancora) di utopie
preindustriali, agreste-rural-pastorali, ma sulla base di una pratica e un
utilizzo concreto di strumenti scientifici e tecnologici sia per inceppare la
macchina lubrificata del dominio (vedi p. es. l’uso della falsificazione) sia
per indicare elementi progettuali e alternativi della civiltà futura (vedi in
questo senso tutta la questione del nucleare).
4. Per arrivare ad un discorso più concreto sulle
trasformazioni della rivista e del collettivo, mancano però ancora almeno due tasselli:
alcune considerazioni congiunturali relative al “movimento” (qualunque sia il
senso che attribuiamo a questo termine, e che preciseremo poi) e un breve
panorama sul mercato e il mondo della fantascienza in Italia. Cominciamo da
questa seconda cosa. Sia che il boom editoriale e cinematografico della
fantascienza sia destinato a durare, sia che si trovi invece in fase di
esaurimento (come alcuni “esperti” pensano, p. es. Curtoni), l’apparizione
sulla scena fantascientifica di nuovi strati e nuove figure di
lettori/spettatori è un dato inequivocabile. Un’analisi più precisa della
stratificazione di questo “nuovo pubblico” è cosa desiderabile, e ne parleremo
più avanti; ma fin d’ora, anche in modo impressionistico, possiamo essere
sicuri di non sbagliarci se diciamo che una parte di questo pubblico è formato
da compagni, gente con esperienza politica (e le connesse esigenze) alle
spalle, giovani comunque orientati a sinistra, che esprimono, a vari livelli,
bisogni che vanno nel senso del superamento dello stato di cose presenti. Se
non vogliamo essere più precisi nella quantificazione – cosa impossibile senza
un’indagine approfondita – possiamo parlare di migliaia di persone senza uscire
dall’ambito del verosimile. Questa area esprime, in varie maniere (anche in
modo non esplicito, si vuol dire, per esempio nel caso di coloro che si
rivolgono alla fantascienza apparentemente per un puro bisogno di “evasione”)
una domanda critica su ciò che legge, un’esigenza di riflessione e spesso di
orientamento (evidentemente non autoritario, cioè non è disposta a prendere per
oro colato quello che si legge, anche se chi scrive si qualifica come compagno
in un settore che finora ne ha visti pochi). Come possa soddisfare questa
esigenza, lo sappiamo bene tutti: non la può soddisfare quasi per nulla. Non
gli serve Urania, meno ancora altre collane (come quella di Belloni) che
comunque non offrono nessun inquadramento dei tanti che presentano. Ma anche
nella produzione di editori più “ambiziosi” sul piano culturale (intendiamo
Fanucci, Nord, Libra) non troveranno strumenti utilizzabili. Fanucci gli offre,
con le introduzioni di De Turris e Fusco, documenti dichiarati e riconoscibili
di un innegabile revival della cultura di destra; la Libra, fluviali
sproloqui autistici di Malaguti a cui nessun compagno, credo, può resistere
molto oltre le 20/30 righe; la Nord, in alcune collane, esempi di una critica
certo più sofisticata (citiamo per tutti Pagetti) ma inguaribilmente malata di
accademismo.
Riviste
di fantascienza, in Italia, non ce n’è. Certo, c’era Robot3. È stato l’unico tentativo di fornire al lettore degli
elementi di inquadramento degli autori, delle correnti, delle opere,
accessibili ma non superficiali. Non certamente nel senso in cui noi potremmo
intendere una critica alla e della fantascienza (smontaggio, cioè, il più
preciso possibile, dei meccanismi che presiedono alla produzione e alla
distribuzione del prodotto-fantascienza; decodificazione dei reali messaggi
sottostanti, ecc.), ma insomma qualcosa di più onesto, anche se neutro, e
qualche incursione sporadica in un regno di temi e modi più congeniali a noi e
a questo ipotetico “lettore-compagno” (evidentemente è il caso di Guerrini e di
qualche altro polemista). Ma Robot, dopo il piccolo golpe di Armenia, non
esiste più: è una rivista di antologie (a quanto dicono Curtoni, e Lippi che
c’è rimasto) di buon livello, e niente più.
Chiudiamo
questo punto, perciò, segnalando l’esistenza di questo spazio, vuoto e a nostro
parere non piccolo. Siccome l’editoria, come la politica, ha orrore del vuoto,
prevediamo anche con molta verosimiglianza che qualcuno, prima o poi, si
proverà a riempirlo.
Nota 1: settembre 1978, Piacenza partecipazione al
convegno della Cooperativa scrittori “La produzione mentale” con un intervento
nella lingua di Vega 4, molto seguito da Francesco Leonetti e Maria Corti.
Ottobre 1978, Lucca Comics.
Nota 2: che verrà ripubblicata in questo Blog nel
prossimo mese di aprile.
Nota 3: Robot rivista di fantascienza fondata da
Vittorio Curtoni nel 1976.
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