Linus aprile 1983
Il declino delle ideologie, che erano state le
eredità, comodo o scomoda che i decenni precedenti avevano lasciato ai
movimenti degli anni Settanta, continua inarrestabile. E continuerà, almeno per
un po’. I segni sono tanti, non tutti coerenti, forse, ma leggerli non è
difficile: riguardano, naturalmente, il comportamento di una minoranza della
popolazione, minoranza estesa, ma sempre minoranza. Si tratta di quelle persone
che, negli anni passati, hanno fatto appunto riferimento ai movimenti, o hanno
militato nei partiti o nei gruppi politici (e in parte continuano a farlo anche
oggi), e che da questo riferimento traevano modelli di comportamento, se non
proprio ragioni di vita. Ad esse si mescolano quei giovani che, ancora dieci o
sei anni fa, sarebbero stati portati dalla loro inquietudine o dal loro
desiderio di capire e modificare la realtà a militare nei movimenti e nei
partiti di massa e che oggi non possono più farlo per l’inesistenza dei
movimenti e la crisi dei partiti. Questa minoranza “attiva” (in senso
intellettuale) è naturalmente variegatissima, e i suoi comportamenti sono
spesso molto differenziati. Tuttavia si può riconoscere qualche tendenza
comune. La prima, probabilmente, è
questa: come negli anni passati questi strati erano stati prevalentemente
consumatori di politica, oggi sono prevalentemente consumatori di cultura.
Nelle grandi città non è più possibile andare a una conferenza o a un dibattito
con qualche nome abbastanza noto senza trovare la sala stracolma e una lunga
fila che preme per entrare. A Milano è successo in modo clamoroso, negli ultimi
mesi, almeno due volte: la prima volta in occasione di una conferenza di
Popper, la seconda volta alla serie di incontri “Processo alla cultura”, coordinati
e animati dal filosofo Emanuele Severino e organizzati dal circolo culturale
Pierlombardo. Ogni volta negli esclusi un disappunto che sfiorava la
disperazione, nei fortunati che erano riusciti ad entrare un attento silenzio e
un fiorire di quaderni e registratori per accogliere, con sereno, disincantato
egualitarismo, tutti gli interventi, noiosi o interessanti, seriosi o brillanti
che fossero. I primi ad essere stupiti sono di solito gli organizzatori, che
devono trovare all’ultimo momento teatri, o altre sale più capienti, per
accogliere le migliaia di persone che arrivano, e non sempre ci riescono. –Non
ci aspettavamo certo una rispondenza del genere-, diceva Monica Maimone del
Pierlombardo una sera, al termine di uno degli incontri, -e la cosa, se da un
lato ci fa piacere, dall’altro ci pone anche dei problemi. Avevamo deciso
quest’anno di fare una stagione impopolare, sia come teatro che come circolo
culturale, e ci siamo invece imbattuti in queste esplosioni di pubblico. Per
gli operatori culturali si tratta adesso di capire come formare, e non solo
seguire passivamente, un gusto- . Anche in Italia, dunque, ci avviamo ad avere
i nostri maìtres-à-penser? Io non credo che la cosa stia in questi termini. In
Italia anche la minoranza di cui si sta parlando è stata sempre refrattaria a
“prendere sul serio” i discorsi degli intellettuali (pensiamo a Pasolini), e
anche questo nuovo atteggiamento del pubblico assomiglia più alla voglia tenace
e un po’ caotica di informarsi che alla ricerca di maestri. Venuta meno la
rassicurante guida delle ideologie, soprattutto di quelle di sinistra, è
naturale che si cerchi di sapere più che si può sui discorsi e sulle teorie
anche più specializzate, ma senza un’adesione né uno sbocco preciso. –Per certi
versi questo pubblico potrebbe ricordare quello che frequentava i centri
culturali negli anni ’50 e ’60-, dice ancora Monica Maimone, -ma in realtà è
molto diverso, perché in quegli anni il bisogno di cultura veniva subito usato
politicamente, per una battaglia di opposizione, mentre oggi i frequentatori di
queste iniziative non si pongono contro a nulla, utilizzano con disinvoltura
tutte le sedi, comprese quelle istituzionali-. Io ho l’impressione che il
fenomeno sia accostabile a quello del boom delle riviste di divulgazione
scientifica, scoppiata negli ultimi due/tre anni, con una proliferazione delle
testate e un vertiginoso aumento delle tirature, dell’ordine delle centinaia di
migliaia di copie. Ma il consumo, se non distratto, indifferente, si potrebbe
dire, disponibilmente indifferente: il consumo a cui ci sta abituando il mezzo
elettronico e televisivo. Interesse, molto: adesione, poca. Il che è collegato
poi a un altro aspetto della questione, che si ritrova anche nelle ultime
parole citate sopra dell’organizzatrice del Pierlombardo: questa “minoranza” è
scarsamente interessata, molto meno che in passato, comunque dalla
polarizzazione destra/sinistra. L’anticomunismo di Popper, alcuni anni fa,
avrebbe fatto scandalo anche presso il tipo di pubblico che è andato a sentirlo
a Torino e a Milano: oggi viene registrato, magari con qualche perplessità, o
dibattuto con urbanità e disincanto. Non ci si deve aspettare di meno da questi
anni, che vedono a tutti i livelli una rivincita del “soft” sull’”hard”. Tanto
più che forze e discorsi diversi si liberano anche dalle aree etichettate a
destra, ed è comprensibile che questo accada oggi, quando la “crisi di civiltà”
provocata dal dilagare del progresso tecnico-scientifico comincia a far sentire
gli effetti in tutte le sfere, anche le più minute, della vita quotidiana. Se
ne è accorto con acutezza Massimo Cacciari, filosofo che si avvia a diventare
(credo) ex deputato del Pci, quando nel novembre scorso è andato a partecipare
ad un convegno della cosiddetta “Nuova destra”, suscitando clamore, allarme e
stracciamento di vesti dentro e fuori il suo partito. D’altra parte, se questo
gruppo di “Nuova destra” si è staccato, con aspre critiche, dalla militanza
politica nel Msi o nelle organizzazioni collaterali, anche nelle sempre più sparute
minoranze giovanili organizzate nei partiti e nei gruppi si fa più arduo
distinguere tra la destra e la sinistra quanto ai comportamenti, ai gusti, al
linguaggio. Mi è capitato di assistere, poco più di un mese fa, ad una
assemblea in una grande scuola vicino a Milano organizzata dagli studenti del
Fronte della gioventù per protestare contro l’aggressione al loro compagno Di
Nella, a Roma (che in effetti è morto qualche giorno dopo): la loro mozione
naturalmente non è passata, perché in quella scuola la tradizione politica
prevalente tra gli studenti è di sinistra, ma il linguaggio, le argomentazioni,
le “mozioni degli affetti” usate da quegli studenti di destra erano
singolarmente simili a quelle che usavano gli studenti di sinistra, gli anni
scorsi, in analoghe occasioni. Anche le frasi un po’ roboanti e le promesse (questa
volta, obiettivamente, ancora più sproporzionate) di “far pagare tutto” non si
sa a chi. D’altra parte che il Di Nella, quando fu aggredito, stesse attaccando
manifesti per una manifestazione “ecologica”, è un altro sintomo. Una
demarcazione più netta fra destra e sinistra, certamente, prima o poi si
determinerà di nuovo, perché è una dialettica eterna e inevitabile: ma è
probabile che non si costruisca più sugli stessi elementi che abbiamo
conosciuto nei decenni passati, e che per qualche tempo si debba assistere
ancora a rimescolamenti di carte addirittura più “scandalosi” di quelli che
stiamo conoscendo adesso.
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