Linus novembre 1982
Esce presso l’editore Guanda, che lo presenta in
modo francamente eccessivo come “il più bel libro di fantascienza del XX
secolo”, il racconto Cancroregina di
Tommaso Landolfi (nella bella ma ahimè costosa collana di “Prosa
contemporanea”). Landolfi pur essendo uno scrittore irriducibile a scuole e
correnti precise, fa parte di quella non grande schiera di esponenti della
nostra letteratura che ha attinto spesso a materiali e figure fantascientifiche
per la sua produzione, e della quale il più noto (se non l’unico) al grande
pubblico è Italo Calvino. Alla fantascienza Landolfi ha sempre chiesto scenari
e situazioni (c’è chi dice “pretesti”, ma per quale scrittori i suoi materiali
non lo sono?) Per un suo discorso amaro e radicale sul destino dell’uomo, un
discorso sempre a mezza strada fra il racconto filosofico e la confessione
personale: questo avviene in alcuni dei Racconti
impossibili, e in molti dei “dialoghi cosmici” pubblicati dal Corriere
della Sera fra il 1975 e il 1976, pochi anni prima della sua morte. Questo
avviene anche in Cancroregina,
pubblicato per la prima volta nel 1950: qui la solitudine dell’autore in un
congegno spaziale (descritto sommariamente e imprecisamente) destinato per un
misterioso guasto ad orbitare per sempre intorno alla terra e dotato di una
voce e di una intenzionalità proprie – la “Cancroregina” del titolo – diventa
l’occasione per una confessione, che a tratti si fa disperata, della propria
impotenza a vivere e a comunicare, a districarsi dalla confusione e dal
pasticcio tra letteratura e vita. “E pensare che tutto quanto occorre a menarmi
in salvo è qui, qui dentro e a portata di mano; ma è come se non ci fosse, non
so trarne profitto”. Il mondo chiuso e isolato della navicella spaziale diventa
l’impossibilità dell’autore a uscire da se stesso: l’ dentro egli, condannato a
una specie di immortalità, aspetta “il coraggio di morire. Queste riflessioni
sulla morte e l’immortalità vengono a Landolfi dal romanticismo tedeco e da
Poe, che è citato all’inizio di Cancroregina.
Ma è curioso osservare che il tema dell’immortalità è ricorrente nella
fantascienza americana, dagli anni “d’oro” (Van Vogt in testa) giù giù fino ai
nostri giorni. Lo dimostrano anche alcuni titoli apparsi di recente nelle collane
specializzate: non tanto il mediocre Gli
immortali di James Gunn, titolo giustamente dimenticato degli anni ’60,
quanto l’ultima produzione di Philip J. Farmer tradotta in italiano, Il sole nero, del 1979. Con i ritmi
serrati del romanzo d’avventura che solo lui sa condire con una sintassi tanto
più avvincente quanto più sembra approssimativa e scheletrica. Farmer passa da
una prima parte in cui prevalgono gli scenari della fantascienza “antropologica”
(una Terra per noi vecchissima, il sole estinto e le galassie incenerite che
con i loro passaggi periodici scandiscono il tempo delle tribù isolate e chiuse
nelle loro culture sciamaniche) ad una seconda parte in cui emerge prepotente
il senso del tempo cosmico, la rovina planetaria e l’unico modo per sfuggirvi è
e raggiungere così una “quasi mortalità”: il passaggio attraverso le porte che
separano i diversi piani spazio-temporali, i personaggi umani qui, a differenza
del ciclo dei Fabbricanti di universi,
sono più scialbi delle stupende invenzioni teratologiche di Sloosh, l’enorme
centauro vegetale, esponente di una linea evolutiva post-umana, che delle
piante ha tutta la lentezza biologica unita ad una enorme massa di conoscenze
organizzate in una logica rigorosissima, e della Shemibob, la gigantesca
donna-serpente proveniente da un’altra galassia, padrona di una meravigliosa e
sconosciuta tecnologia, che condurrà i protagonisti oltre la porta, in una
Terra parallela, per sfuggire al destino di estinzione di questa Terra. Chiuso
il libro, naturalmente, non sappiamo se la Terra che noi conosciamo è quella
che i nostri eroi abbandonano, ormai al termine del suo ciclo, o quella a cui
approdano, all’inizio di quella che potrebbe essere la nostra evoluzione umana.
Ma questa non è che una variante della concezione ciclica del tempo di Farmer,
condannato egli stesso a riscrivere lo stesso libro in decine di forme diverse,
alla ricerca di un senso segreto della vita che egli per primo sa non esistere.
Una lettura che comunque si raccomanda, quella di questo Il sole nero, in attesa di poter leggere o rileggere il capolavoro
del “tempo ciclico” farmeriano, quel Mondo
del fiume di cui l’editrice Nord annuncia la riedizione integrale, in
cofanetto, per il prossimo anno.
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