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venerdì 8 gennaio 2021

Antonio Caronia: Una foresta di segni

 


Linus maggio 1984

“Dov’era la detective story prima che Poe inspirasse in essa il soffio vitale?”, si chiedeva nel 1911 sir Arthur Conan Doyle. Una domanda retorica, naturalmente, che il medico e studioso di spiritismo scozzese formulava solo per riconoscere al visionario Poe la paternità di un genere, e per situare il suo Sherlock Holmes in continuità con Auguste Dupin. La linea Dupin-Holmes viene ora illustrata da un gruppo di semiologi, storici, logici (Il segno dei tre. Homes, Dupin, Peirce. A cura di U. Eco e Th. A. Sebeok, Bompiani, pp. 314, L. 25.000), e il metodo dei due investigatori è accostato alle riflessioni filosofiche di Charles Peirce sulla cosiddetta “abduzione”. Termine un po’ repellente, per la verità, che indica però un tipo di ragionamento assolutamente rispettabile (la capacità di formulare congetture) e forse più adatto dei tradizionali modelli induttivo e deduttivo a rendere conto dell’effettivo procedere della conoscenza umana. Secondo alcuni autori dei saggi qui raccolti, insomma, il metodo del detective sarebbe affine addirittura al lavoro dello scienziato, che registra fatti magari insignificanti agli occhi del senso comune, formula ipotesi (o congetture) e le sottopone a verifica: Viene ripresa e argomentata in modo anche vivace una tesi non nuova, che cioè il genere giallo testimoni della lotta della ragione contro il caos di una realtà disordinata, per dare coerenza e intelligibilità a un insieme di avvenimenti e dati che, al di fuori di un intervento umano, non ne possederebbero. Il riferimento del lavoro del medico e al sapere della medicina come precursore della semiotica è peraltro esplicito in molti punti del libro (per esempio nel saggio di Sebeok). Ma ogni lettore di gialli sa che non è sempre così: il detective non ha sempre ragione della malattia sociale, a volte si limita a esserne un dolente e disincantato osservatore: Philippe Marlowe vs. Sherlock Holmes. E quando il detective non c’era? A parziale risposta alla domanda di Conan Doyle ricordata all’inizio (dov’era la detective story prima di Poe?) esce adesso la riproposta di un racconto di Hoffmann del 1819 (La signorina Scuderi, a cura di Maria Paola Arena, ed. Theoria, pp. 92, L. 10.000) che testimonia l’emergere del genere “giallo” dalla grande corrente del romanzo “nero”, qualche decennio prima di Poe. La narrazione è costruita secondo i classici dettami del racconto del mistero, ma senza il ricorso al soprannaturale tipico del “gotico” inglese. Una strana catena di delitti notturni e furti di gioielli sconvolge la Parigi del Re Sole. Un innocente viene arrestato. Ma non è l’acume di un investigatore, solo il caso, a porre fine ai crimini; e non è la forza della ragione, ma il sentimento e l’umanità di Mademoiselle de Scuderi consentono di liberare l’innocente. Una novella insolita per Hoffman, perché non fa alcun ricorso a procedimenti fantastici, ma pienamente hoffmanniana quanto a tematiche: il germe della follia, l’io diviso tengono in scacco la razionalità dominante (il tribunale segreto) e solo una quieta figura di outsider (la signorina Scuderi del titolo) ricompone l’armonia. Per giungere più vicino a noi, neppure per Fernando Pessoa il mistero è padroneggiabile con la ragione, Herr Prosit, presidente della Società di Gastronomia di Berlino, sfida i suoi invitati a indovinare gli ingredienti straordinari della sua Cena molto originale (F. Pessoa, Due racconti del mistero, a cura di Amina di Munno, pref. di A. Tabucchi, ed. Herodote, pp. 74, L. 7.000). Nessuno ci riuscirà, e sarà lo stesso protagonista, in un parossismo di furia, a rivelare l’orribile segreto della cena e a subire la reazione degli invitati stravolti. “Ogni cosa era possibile, ogni cosa vagamente probabile, ogni cosa ragionevolmente improbabile, impossibile; tutto ciò forniva un motivo di sospetto, di dubbio, di disorientamento”. È stato scritto che tutta la letteratura non sarebbe altro che il racconto, vagamente travisato e irriconoscibile di un originario senso di colpa di fronte a un delitto originario indicibile e per metà dimenticato. Ogni enigma non farebbe che alludere a esso. Per l’enigmista Pessoa, al contrario che per Sherlock Holmes, il mondo è sì una grande foresta di segni, ma indecifrabili.


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