Linus gennaio 1982
È in corso una grande discussione sull'effimero.
Essa sembra molto meno evanescente del suo oggetto, visto che la ritroviamo da
mesi dentro a interventi, polemiche, dibattiti, sui fatti della cultura e dello
spettacolo, in quasi tutti i giornali. Il film spazzatura, l’estate romana di
Nicolini, I predatori dell’arca perduta,
i convegni culturali e le mostre, ogni argomento di discussione ripropone lo
stesso problema: che atteggiamento si deve assumere di fronte alla capacità
sempre più evidente dell’industria culturale di creare e insieme soddisfare una
domanda molto ampia di informazione ma soprattutto di spettacolo? Come si deve valutare la propensione del pubblico a consumare l’evento culturale, sia esso
un film, una conferenza, una mostra, in modi sempre più simili, sempre più
caratterizzati da ciò che qualcuno ha chiamato una “curiosità indifferente”?
Che segno ha l’abbandonarsi di molti, soprattutto giovani, all’”evasione” nel
libro o nel film fantastico? Gianfranco De Turris, che da solo o con Sebastiano
Fusco, interviene ormai da parecchi mesi su queste pagine su questi temi, lo ha
fatto, specialmente negli ultimi articoli, con la preparazione e l’attenzione
anche a posizioni ben diverse dalle sue che lo hanno sempre contraddistinto.
Della qual cosa, è chiaro, bisogna essergli grati, come delle lance che ha
spezzato in favore del “fantastico” e contro i pregiudizi che contro di esso
ancora circolano, anche e soprattutto – perché non riconoscerlo? – nella cultura
di sinistra. Tuttavia, dato che mi sembra che le sue tesi facciano rientrare
dalla finestra quello che poteva sembrare essere stato cacciato dalla porta,
varrà forse la pena di discuterne un po’. Nell’articolo Trasgressione e degradazione, apparso sul numero di novembre, De
Turris comincia a dare una descrizione del fenomeno un po’ bizzarra, che sembra
corrispondere poco a quanto si vede in giro. I giovani che frequentano
Massenzio, che visitano i bronzi di Riace, che riscoprono gli anni Cinquanta e
leggono Tolkien, secondo il nostro “vanno alla ricerca di un ‘mondo di valori’
alternativo all'attuale”, rifiutano “l’ormai agonizzante società dei consumi,
il materialismo e la secolarizzazione in nome di qualcosa di più alto”, che
consiste in “più spirito e più religiosità, più coraggio e più amore, più
lealtà e più onore”. Persino Umberto Eco, con il suo romanzo, si sarebbe fatto
strumento inconsapevole di questa meritevole ricerca: volendo dimostrare che
non esiste una conoscenza “tradizionale”, che la cultura non ha un centro,
avrebbe invece finito per dipingere “l’affresco affascinante e coinvolgente di
un mondo che è in totale opposizione ‘metafisica’ con quello dei nostri giorni”
(controllare per credere, Il sogno
medievale su Linus, ottobre 1981). Le obiezioni sono due. La prima riguarda
l’esattezza, per così dire, della fenomenologia. Qui De Turris sembra
descrivere, più che l’atteggiamento più diffuso tra i giovani e meno giovani
consumatori dei prodotti culturali in esame, le opzioni ideologiche di ristretti
circoli, di chi appunto colora la sua “rivolta contro il mondo moderno” di toni
metafisici e spiritualisti. Ma, poco male, si potrebbe pensare: forse quegli
atteggiamenti, quelle opzioni, sono ancora poco diffusi, ma desiderabili. Se
essi corrispondono a qualche tendenza, sia pure ancora minoritaria, potrebbero
essere aiutati a svilupparsi, a diffondersi. Ecco, vorremmo allora dichiarare
la nostra più completa indisponibilità a un eventuale progetto di questo
genere. Quello che a noi piace di questa epoca (accanto, ovviamente, a tante
altre cose che ci piacciono meno) è proprio la sua disponibilità a liberarsi
dalla metafisica, la sua capacità di fare a meno di categorie filosofiche,
estetiche e pratiche di tipo forte (categorie grimaldello, o passe-partout,
capaci di spiegare ogni cosa con eleganza e semplicità). Il costo di queste
categorie l’abbiamo pagato un po’ tutti, sulla nostra pelle: figuriamoci se
abbiamo rifiutato il dogmatismo marxista o razionalista classico per
abbracciarne uno tradizionale, medievalista, spiritualista o che altro sia. E
comunque, per chi voglia formulare qualsiasi progetto di trasformazione del
reale (stravolgimento, rivolgimento e restaurazione che sia) è importante prima
di tutto capire che cosa accade: il che a De Turris non riesce. Quando (sempre
su Linus di novembre) se la prende con Pagetti, reo di aver colto anche nelle vicende italiane del ’78
(rapimento Moro) un “progressivo spostamento culturale nella direzione del
fantastico e della fantascienza”, De Turris se ne esce con parole rivelatrici:
parla di disagio di fronte “a una realtà indegna e miserabile”, contrappone la
“trasgressione del reale” rappresentata dal fantastico alla “degradazione della
realtà”, della politica, del costume, dei media, affastellando i più importanti
delitti politici degli anni Sessanta ad oggi, la P2 e il bambino nel pozzo. Se
fosse veramente così, avremmo ben poco da stare allegri. L’interesse per il
fantastico sarebbe veramente un isolarsi un po’ masturbatorio, e mentre nella
Terra di Mezzo Elfi e Orchi si massacrano, spade rifulgono, e Hobbit tentano di
conservare la propria indipendenza di produttori agricoli precapitalistici, le
cose, qui da noi, continuerebbero a marciare come hanno sempre marciato in modo
indegno, miserabile e degradato. A meno che la salvezza non ci arrivi da quei
famosi giovani che cercano spirito, religiosità, coraggio, amore, lealtà e
onore. Le cose stanno in modo un po’ diverso. Non è che la realtà fa schifo e
quindi va “trasgredita” nell’immaginario (questo è quello che, ne fossimo
coscienti o no, abbiamo pensato per tutti i nostri anni “politici”, dal ’69 in
poi): è che la realtà ormai comprende tutto, e quindi ha dei problemi a farsi
riconoscere come realtà, come un mondo distinto da un altro che non è realtà.
Qui l’interesse attuale per la fantascienza e il fantastico trovano le loro
radici: nell’incredibile accelerazione dell’innovazione tecnologica,
nell’oggettivazione sempre più spinta delle funzioni sociali, che oltre (o
insieme) a tutte le conseguenze disgregatrici della struttura sociale che per
anni abbiamo denunciato porta con sé anche una modificazione del nostro
immaginario, che ci apre possibilità prima impensate. De Turris fa bene a farsi
beffe dei francofortesi in ritardo, dei lamentatori della morte della “cultura
politica” o della “funzione critica della cultura”, ma poi non si accorge di
assumere lo stesso atteggiamento moralistico e sdegnoso che rimprovera loro (o
forse lo sa benissimo, e “ci marcia”). È il solito atteggiamento delle
avanguardie, di chi predica una “verità” riconosciuta da pochi o, nel migliore
dei casi, attende fiducioso che i molti (o, almeno, qualcuno in più dei pochi)
prima o poi ci arrivano. È l’atteggiamento dei “critici del mondo moderno” di
cui a più riprese De Turris ci fornisce la lista: Spengler, Guénon, Evola,
Benda, Ortega y Gasset (non è incluso, molto opportunamente, Banjamin, ma
avrebbe potuto esserci, con qualche cautela, Adorno). Tutti costoro (“ognuno
secondo la propria personale angolazione”, ricorda opportunamente De Turris)
hanno visto e descritto molto lucidamente le premesse e gli inizi dei processi
che oggi vengono a maturazione: la morte del sacro, l’omogeneizzazione del
sociale, la spersonalizzazione e l’oggettivazione, la diffusione e il trionfo
della tecnica. In questo senso molte di quelle analisi (forse non tutte) sono
apprezzabili e utilizzabili ancora oggi. Che cosa c’è, invece di utilizzabile
in esse? Proprio quello che De Turris mostra di apprezzare, e che spiega le
ragioni per cui quegli autori vengono assunti ad alfieri di tutta la cultura
della destra più intelligente: la loro nostalgia per l’epoca che precede la
modernità, per un mondo non diviso e non scisso, capace di vivere
collettivamente e “in profondità” l’esperienza del mito e del rito (tutto
questo lo spiega molto meglio di me Furio Jesi nel suo Culture di destra, edito da Garzanti). Ora ci sarebbe da discutere
su quanto i mondi e le civiltà classiche, o comunque pre-moderne, siano
corrispondenti a questo quadro (guardate, per esempio, il bellissimo lavoro che
ha fatto Walter Burckert per quello che riguarda la società greca in Homo necans, uscito quest’anno da
Boringhieri). E in tutti i casi questo mondo è ormai morto, spazzato via dall’avvento
del capitalismo e della società industriale, che hanno trasformato
irreversibilmente le condizioni di vita e le strutture sociali che rendevano
possibili quelle esperienze. Il che non vuol dire, naturalmente, che tutta la
funzione simbolica che si accompagnava al mito sia scomparsa: solo, si presenta
riciclata in forme del tutto nuove, staccata dal senso che aveva in quelle società, dal sistema di credenze
individuali e collettive che determinava fusa e mescolata con mille altri
elementi dentro l’immaginario collettivo della nostra epoca, nel processo di
continua osmosi e passaggio tra cultura “alta” e cultura “bassa” che
caratterizza i dispositivi dell’industria culturale. Questa è l’operazione che
ha fatto la fantascienza, questo è il “protocollo di lettura” con cui si
leggono oggi anche le opere, o si vanno a vedere i film, del filone “fantastico”:
a volte anche al di là delle intenzioni dei loro autori. Chi vuole assumere, di
fronte a tutto ciò, l’atteggiamento dell’apocalittico, faccia pure. Tenga conto
che questo suo atteggiamento è – come ha già dimostrato Eco quasi vent’anni fa –
solo l’altra faccia della medaglia dell’integrazione più subalterna. Noi
preferiamo tutto sommato nuotare nell'acqua che c’è, come Benjamin, “senza
riserve per la nostra epoca, senza avere alcuna illusione nei confronti di essa”.
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