Introduzione
Occupare l’immaginario
Come auspicava Antonio Caronia alla fine della sua avventura terrestre
Questo volume è stato curato da Un’Ambigua Utopia (UAU) e da Andrea Bonato, Loretta Borrelli, Alberto “Abo” Di Monte e Giuliano Spagnul.
Ancora una volta la navicella di UAU ospita a bordo degli umani per compiere un viaggio, un viaggio immaginario che vuole creare figure complesse tirando i fili di una matassa di parole e discorsi che hanno riguardato Philip K. Dick in questi ultimi decenni.
La scelta di usare questo vecchio strumento, nato come rivista all’interno del movimento degli anni settanta, ha l’intento di immaginare una possibile, per quanto difficile, pratica utopica: per dirla con Primo Moroni quella di diffondere saperi senza fondare poteri.
L’esperienza e la storia di “Un’Ambigua Utopia”, ma non solo di questa se pensiamo al pensiero e alla vita di tante/i compagne/i che non ci sono più, e che ci mancano, non può essere riportata in vita come negazione ed esorcizzazione della morte. Un’esperienza finita, una vita finita, possono e devono essere usate in continuità, non tanto della loro storia che si è interrotta, ma del movimento alla cui storia hanno contribuito e a cui possono ancora contribuire per il presente e, si spera, per il futuro.
UAU non può che situarsi all’interno del movimento (così come si manifesta nella sua contingenza attuale) continuando a rimanere radicalmente altro da qualunque aggregato di appassionati di un generico mondo del fantastico.
Con tutta la delicatezza e la consapevolezza, quindi, di essere ospiti di uno strumento non nostro e che speriamo di lasciare a disposizione di altre/i arricchito di nuovi saperi, abbiamo intrapreso anche quest’avventura dentro il mondo di Dick.
Mi sembra giunto il momento, a trent’anni dalla morte, di tentare un salto di qualità nella lettura diDick. E riconoscere a questo autore frenetico e polimorfo, irrequieto eppure già “classico”, la qualifica che gli spetta: quella di narratore-filosofo. Antonio Caronia, 2012
Da qui siamo partiti, con questa presa di posizione abbiamo proposto il confronto in un ciclo di incontri finalmente non più virtuali. Al di fuori dalla contesa di chi privilegia la visione critica di Dick verso un mondo sempre più distopico e allucinante da cui pare impossibile immaginare una via d’uscita; o di chi lo vede come critico di una fantascienza ingenua, e quindi teso a innovarla e a traghettarla verso una fase matura e adulta (da genere popolare a letteratura alta); a chi infine lo vuole scrittore autentico, autore mainstream, che nulla o poco deve a quel genere che lo ha ospitato e protetto (permettendogli una libertà che altrove non gli era concessa) ma che lo ha anche relegato dentro gli angusti margini di un mondo di pura evasione, disimpegnato quanto infantile.
Fuori da questi schemi abbiamo cercato un nuovo punto di vista che privilegi l’aspetto più filosofico del suo pensiero. Quello meno considerato perché lontano dal formalismo accademico così connotato di pensiero astratto e avulso dalla vita concreta. Con Philip K. Dick pensiamo di aver trovato un buon compagno di viaggio per cercare la filosofia del vivere la vita, per ciò che è e che è in grado di darci. Insieme a tutti quei piccoli esseri umani, artigiani del vivere e del fallire, ma sempre del ricominciare che popolano le sue narrazioni. E abbiamo scoperto che in tutto questo panorama, privo di qualunque segno di speranza, alberga qualcosa che si può ancora definire gioia. Un umore non programmabile con il “Regolatore d’umore Penfield”, come in Gli androidi sognano pecore elettriche?, ma che risulta ben più reale e per nulla illusorio. Perché la realtà, nel mondo di Dick, non ha un futuro univoco. E questo non può che aprire al gioioso ricercare, insieme ad altri, le possibili alternative di nuovi mo(n)di dell’esistere (come suggerisce Alberto “Abo” Di Monte più avanti). E se vale per il suo mondo, perché mai non dovrebbe valere anche per il nostro? Cosa può voler dire una presa dickiana sul nostro mondo? C’è forse una capacità per comprendere maggiormente la realtà guardandola attraverso occhi così caleidoscopici o, forse, stiamo prendendo un abbaglio e ha ragione Nicoletta Vallorani a dirci che Dick intuisce ma non comprende? La discussione è aperta, ma forse potremmo avanzare l’idea che il termine comprendere può avere due connotazioni molto diverse tra loro: quella di stampo illuminista che pretende con la conoscenza di prendere il mondo, e quello di stampo, potremmo dire harawayano, in cui comprendere vuol dire modificare il nostro modo di concettualizzare la realtà. E chi più di Dick? Caronia ha parlato della capacità di Dick di annusare i suoi tempi. Non è la semplice intuizione che si vorrebbe a un livello inferiore della comprensione. L’annusare parte dal corpo, è qualcosa di profondo, non ha nulla di limitato.
Sono molti gli spunti che vengono fuori da questa matassa di fili di discorsi poco organizzati tra loro ma, evidentemente, piuttosto ricchi e densi. È così che il rimprovero che Edoarda Masi fa a Dick di ricercare una via di fuga piuttosto che una via di uscita ci porta al pensiero negativo di Mark Fisher. Ma è poi così vero? Indubbiamente siamo di fronte all’assenza di una qualsivoglia utopia, in una qualche parte, che si possa prima o poi, o anche molto poi, raggiungere. Ma è pur vero che Dick ha una sua personale utopia, che come dice Caronia, lo accomuna, in qualche modo, con le avanguardie artistiche dei primi del Novecento e che unisce la sua opera con la sua vita.
La ribellione contro la distanza, la separazione tra arte e vita. Ritorniamo quindi a una filosofia per la vita e non viceversa. La svolta mistica o patologica, come la vede Edoarda Masi, ma anche come l’ha vista Ursula K. Le Guin, della sua ultima produzione potrebbe farci ricredere, almeno in parte, sulla sua lucidità e sulla sua capacità di quel comprendere che abbiamo pensato di attribuirgli, forse troppo generosamente. Ma anche a questo proposito Caronia è illuminante e va d’accordo con Pagetti (anche se Pagetti è ben più moderato) nel considerarlo come uno che non ha mai abbandonato una fiducia nella ragione pur con tutti i limiti che lui stesso riconosceva. E questo fino alla fine. Altro che svolta mistica, in lui c’è il coraggio di un materialismo dalle spalle larghe capace di comprendere anche una visione metafisica, visione che, del resto, sta alla base di qualunque premessa scientifica, anche se ovviamente sempre esorcizzata.
Reduci dall’ambigua Utopia del Novecento, giovani e vecchi, studiosi o solo appassionati, ci siamo ritrovati nella comune sfida di pensare che questi quarant’anni fossero da intendersi passati non senza ma piuttosto con lui. Dick ha continuato a dirci quanto il mondo reale, in cui siamo calati, ci sia imposto come una costruzione che esula dalla nostra possibilità di accettare o rifiutare; ma, ci dice anche che per tutti noi rimane comunque ancora qualcosa da fare. C’è sempre uno spazio, un interstizio in cui poter agire e interagire con gli altri nostri simili, e anche dissimili.
Dick è un antidoto (la sua opera è la risposta all’enigma del significato di Ubik) alla rassegnazione verso una realtà che si vuole immutabile, quanto al delirio di onnipotenza di un umanesimo accecato dalla ricerca ossessiva di un’essenza autenticamente umana.
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