In un recente convegno (Teoria dei sistemi e razionalità sociale, Bologna, 21/22/23 ottobre
1983) si è parlato da molti punti di vista e con grande passione dello stato
delle scienze sociali oggi, in relazione al nuovo paradigma della cosiddetta
“teoria dei sistemi” introdotta in sociologia principalmente ad opera di Niklas
Luhmann. Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ho ascoltato e
letto, perché non sono né filosofo né sociologo, ma alcune cose mi sono sembrate
interessanti. Il concetto di sistema, ha spiegato a un certo punto Luhmann
nella sua introduzione è di tipo “autoreferenziale”, intanto perché la
descrizione di un sistema è essa stessa un sistema, ma anche perché, in un
senso più specifico, è il sistema stesso a produrre gli elementi di cui è
costituito, in modo che la sua organizzazione in un dato momento è il risultato
dei rapporti e delle relazioni fra i suoi elementi interni. E, come è naturale,
lo stesso carattere di “aureferenzialità” è insito nella teoria dei sistemi: è
proprio questo carattere, secondo Luhmann, che consente alla teoria di
svilupparsi senza riferimenti a finalità esterne (e quindi senza infiltrazioni
di un punto di vista “morale”). Il concetto di “sistema autopoietico” (cioè autoproducentesi,
autocreantesi), Luhmann lo trae esplicitamente dalla biologia e dalla
cibernetica: il sistema biologico, o, se volete, cibernetico, è quello che è
capace di mantenersi stabile attraverso l’omeostasi,
cioè un intercambio di materia, energia, informazione, fra interno ed esterno
in grado di produrre nel sistema le modificazioni necessarie a garantire la sua
sopravvivenza in relazione agli stimoli dell’ambiente. È stato a questo punto
che mi è scattato un relai nella testa:: mi sono improvvisamente ricordato dove
avevo letto per la prima volta quel curioso termine (omeostasi): era stato verso la metà degli anni Sessanta, in un
racconto di Philip K. Dick. A quel punto ho smesso di ascoltare e mi sono messo
a divagare. Potremmo dunque considerare la fantascienza di Dick come una antesignana
delle più recenti teorie sociologiche: i suoi universi sono proprio dei “sistemi”
nel senso di Luhmann, che si autoregolano, riproducono costantemente le
condizioni della propria esistenza in modo del tutto immanente, dilatandosi
fino a comprendere nel possibile (o nel pensabile) anche l’improbabile, come
accade, per fare un esempio, in Ubik.
Ma in realtà è tutta la fantascienza, nella sua qualità di elemento egemone,
riassuntivo, dell’immaginario tecnologico contemporaneo, ad avere le
caratteristiche del sistema cibernetico. La fantascienza “sociologica” degli
anni Cinquanta si conferma in questo senso come il momento in cui questo genere
letterario basso acquista una prima coscienza di sé, e comincia a diventare
fenomeno culturale di massa, costituendo quel “polo fantastico” contrapposto a
un “polo realistico” di cui ha parlato più volte Pagetti (rimando al suo
intervento contenuto nel volume L’Einstein
perduto, atti del convegno di Ferrara del 24/26 ottobre a cura di Alberto
Poggi, Edizioni Coop, Charlie Chaplin, 1982, L. 6.000). La recente ristampa di
un romanzo di Sheckley, anche se non dei migliori, permetterà di verificare
questa tesi anche al lettore più distratto (Gli orrori di Omega, Classici FS, Mondadori, L. 3.000). Per citare
sempre Luhmann, è nel momento in cui la teoria dei sistemi riconosce se stessa
come soggetto e contemporaneamente come oggetto di indagine che nasce l’ironia: una strada che appunto la
fantascienza sociologica – e il suo rappresentante più swiftiano, che è stato
Sheckley – aveva già percorso nel rovesciamento della tradizione del romanzo
utopistico. E non è forse un caso che uno degli autori di sf che, rimessosi a
scrivere dopo anni di silenzio, riproponga la tematica della fantascienza come
autoriferimento, come autocitazione, arrivi proprio dall’esperienza degli anni
Cinquanta, e si chiami Frederik Pohl (v. il suo recente Alla fine dell’arcobaleno, Nord, L. 6.000).
Pagine
giovedì 31 dicembre 2020
Antonio Caronia: Fantascienza come sistema
mercoledì 30 dicembre 2020
Antonio Caronia: Esotiche letture
Amo l’India. Certamente un’India letteraria (quella
reale non l’ho mai vista e non so se mai la vedrò), che ho incontrato da
bambino nei romanzi prima di Salgari e poi di Kipling, e che deve essermi
rimasta dentro a maturare. In anni più recenti mi continua a stupire, con un
atteggiamento che so essere ingenuo ma da cui non mi libero, lo scarto fra la
grandiosa mitologia induista (che mi hanno aiutato ad esplorare gli splendidi
studi di Georges Dumézil) e la presente realtà, la miseria e la fame – che solo
le condizioni ancora più tristi dell’Africa hanno cancellato dall’attenzione
dei giornali – la tirannia del regime. Dopo aver letto i romanzi pazzi e
vorticosi di Salman Rushdie, di cui ho parlato puntualmente su queste pagine, mi ero accostato con qualche
diffidenza al voluminoso “Rj Quartet” (quartetto indiano) dell’inglese Paul
Scott, di cui compare adesso, tradotto in italiano dall’instancabile Roberta
Rambelli, il primo volume, La gemma
della corona, The Jewel in the Crown, (Garzanti, pp. 568, L. 15.000),
uscito nel 1966 in Inghilterra, dall’anno scorso è anche una miniserie
televisiva (14 puntate) di buona fattura, premiatissima nell’isola e
all’estero, che anche gli italiani potranno vedere prima o poi, quando una
delle reti di Berlusconi deciderà di metterla in programma (visto che è già
acquistata). In questo romanzo ponderoso e corale si parla degli avvenimenti
dell’agosto 1942 (la sconfitta britannica in Birmania, i primi appelli di
Gandhi alla disobbedienza civile) e di come essi furono vissuti nella città di
Mayapore. Lo scollamento fra la comunità indiana e quella inglese viene visto rifratto
nelle storie di alcuni personaggi, nella loro evoluzione e nei loro incontri
obliqui e problematici, con la tecnica ben nota delle testimonianze e dei punti
di vista diversi che si succedono man mano a illuminare (o complicare) il
quadro. C’è la vecchia insegnante “libera” che si scontra con la realtà brutale
dei disordini e della morte, la giovane infermiera bruttina che rimane vittima
di una violenza nei giardini del Bibigha, il poliziotto inglese innamorato che
ha già scelto come vittima il giovane indiano occidentalizzato che si rifiuta
di parlare persino la sua lingua, la saggia e disincantata lady indiana
testimone del cambiamenti. Certo Scott non è Rushdie, e neppure Durrell: però
mostra di conoscere bene l’India, e per lenta sovrapposizione costruisce un
quadro illuminante (anche se non sempre intrigante) dei rapporti fra due
civiltà così diverse. Non senza qualche buona arguzia britannica, come questa
definizione che degli inglesi dà la vecchia lady indiana: -Siete uno strano
popolo. Quando camminate al sole, siete consapevoli della lunghezza o della
brevità delle ombre che gettate sul suolo-. Il tema dello scontro fra due
culture è anche al centro dei tre racconti di London che Sandro Roffeni ha
raccolto e ci presenta col titolo di uno di essi, Il rosso, (Sugarco, pp. 142, L. 8.000). Sono tre storie ambientate
nei mari del Sud, scritte da London nell’anno stesso della morte, il 1916.
Quella che dà il titolo alla raccolta è il resoconto di una sfida e di una
sconfitta: un bianco prostrato dalle malattie equatoriali tenta di penetrare il
segreto della lontana divinità a cui gli indigeni di Guadalcanal (Isole Salomone)
tributano efferati sacrifici. Mentre la tribù che lo ospita attende ansiosa il
momento della sua morte, Bassett riesce a intuire l’origine extraterrestre
dell’enorme uovo senziente, il Rosso, che gli indigeni considerano dio, ma non
sopravviverà per portare la notizia in Patria. È la sconfitta della razionalità
occidentale che non riesce a superare la prova di questa vera e propria discesa
agli inferi costellata delle ossa dei sacrificati al Rosso. Di ossa parlano
anche gli altri due racconti, ambientati invece nelle isole Hawaii, e
indubbiamente più “solari”. Tuttavia anche nell’ultimo racconto, Tibie, che personalmente ho apprezzato
di più, si narra di una discesa nella notte, nel passato rappresentato dal
luogo segreto dove riposano le ossa degli antenati di un giovane principe
hawaiano. La spedizione è descritta magistralmente, con un piede sul pedale
dell’orrore e l’altro su quello dell’ironia, fornita dal contrasto fra il
giovane principe ormai occidentalizzato e miscredente e il vecchio e tremebondo
servo. Ormai alla fine della vita, London è in grado di trattare con inedita
leggerezza uno dei suoi temi preferiti, lo scontro della civiltà con le forze
della natura e della tradizione.
martedì 29 dicembre 2020
Antonio Caronia: Dopo l'uomo
Linus maggio 1983
“Era profondamente radicata in loro la percezione
che nell’Universo niente esiste come Materia, ma che tutto è Energia. Che noi
tutti siamo solo ombre della stessa Energia, che niente e nessuno possiede
un’identità propria. Che non esistono cose;
e che, in realtà, l’elemento caratterizzante l’Universo consiste nella sua inesistenza.” Troviamo questa sintetica
esposizione divulgativa dell’ipotesi idealista, a mezza strada fra il vescovo
Berkeley e le dottrine buddiste, in Tempo
di mostri, fiume di dolore di James Kahn (Urania n. 934, pp. 264, L. 1800)
che presenta l’ennesima versione del mondo “dopo la catastrofe”: ma con tale
ricchezza di scenari, particolari e riferimenti, da farne un utile repertorio
di temi e figure dell’immaginario fantascientifico di questi ultimi anni. Qui
risiedono le ragioni dell’interesse del romanzo, più che nell’andamento
narrativo, abbastanza tradizionale anche se fluido e a tratti serrato. Ecco lo
scenario: nel 24° secolo l’avanzata dei ghiacci ha ristretto l’abitabilità
della terra a ristrette fasce temperate, ma l’umanità arriva all’appuntamento
falcidiata dalle precedenti guerre nucleari e biologiche. In una America frazionata
in piccoli territori e comunità, i pochi umani convivono con una pletora di
esseri da incubo, usciti dalla fantasia dell’uomo dei secoli precedenti:
Vampiri, Centauri, animali pensanti e parlanti, fino agli esseri artificiali
più sofisticati, i Neurumani, corpi sintetici costruiti attorno a un cervello
umano, isolato e tenuto in vita con tutto il bulbo spinale. È evidente quanto
uno scenario del genere debba a Ballard, a Delany, a Farmer: il confronto con l’ultimo
romanzo di quest’ultimo, Il sole nero
(di cui si è parlato su queste pagine qualche mese fa) (1) si impone anche per la somiglianza di due dei protagonisti, il
centauro Beauty nel romanzo di Hahn, e l’essere vegetale Sloosh in quello di
Farmer. Ma sono evidenti anche le differenze: mentre Farmer si limita a mettere
in scena i suoi personaggi, i suoi esseri mitologici, lasciando nell’ombra la
loro origine, e anzi insinuando nel finale il dubbio che quel mondo sia proprio
il nostro mondo, Kahn si preoccupa di dipingere un quadro razionale, e di
informarci che vampiri, centauri e altri esseri fantastici sono il prodotto di
manipolazioni genetiche su larga scala. Quale che sia la loro origine, però,
tutti questi abitatori della fantascienza più recente alludono, con le loro
forme e lo spazio che si portano dietro, ad un mondo che, per essere
fantastico, non è meno attuale: un mondo in cui il posto centrale non è più
occupato dall’uomo e dai sistemi di relazioni, di psicologie, di motivazioni ad
esso collegati, ma dagli esseri (o, a volte, solo dalle funzioni) artificiali
di cui l’uomo stesso, negli ultimi decenni, ha già cominciato a circondarsi. È una
società post-umana quella che la
fantascienza più recente ci descrive: è quella che Ridley Scott, forzando forse
il testo ma non l’insieme dell’opera di Dick, ha messo insieme così
efficacemente in Blade Runner, una
società in cui l’uomo non è scomparso, ma deve affrontare tutti i nuovi e
sconvolgenti problemi che derivano dalla coabitazione con un insieme di forme
di vita artificiali, prodotte da lui stesso eppure dotate di logica,
sensibilità, comportamenti, aspettative, strategie a lui estranee. Nonostante
la similarità degli argomenti e degli scenari, non è più della vecchia
fantascienza catastrofista degli anni 50 e 60 che si tratta, ora, ma del
riconoscimento (con tutta la paura e l’angoscia che questo ancora comporta) che
l’uomo, anche prima del fatidico incontro con gli esseri provenienti da altri
mondi, non è più solo, già oggi, su questa terra; che bisogna scoprire poco a
poco, o inventarsi tutto d’un colpo, un nuovo modo di convivere con i prodotti
della nostra creatività.
(1)
Meglio morti che immortali, in
Linus novembre 1982 QUI
lunedì 28 dicembre 2020
Antonio Caronia: Confessioni di un mangiatore di carta stampata
Linus dicembre 1980
-Ah-, dice, -voi siete quelli che scrivono su Linus-, -Eh,
sì-, rispondiamo noi, e poi ci vergogniamo un po’ e nervosamente cerchiamo di
parlare d’altro, perché ci sembra che la domanda successiva debba essere: -Ma
che ci scrivete a fare?- (come, un po’ di anni fa, davanti alle fabbriche, ci
chiedevano: -Ma chi vi paga?-). Che sia una crisi di identità con tutti i
crismi, o un semplice momento di astenia autunnale, ci stiamo chiedendo da un
po’ (ed è per questo che temiamo che gli altri ce lo chiedano) che cosa voglia
dire questa nostra rubrichetta di segnalazioni, polemiche e varia umanità:
anche perché –va detto- ci pesa la maniera poco educata con cui l’abbiamo
iniziata, alcuni mesi fa, così, subito nel merito senza neppure presentarci
brevemente. E non opponeteci che nelle nostre angosce scribacchino-esistenziali
a voi lettori manovratori-manovrati di-da quella macchina dal bizzarro
funzionamento che è il mercato, poco importa. Perché è dalla risoluzione, o
meno, di queste angosce che dipende il fatto che noi scriviamo cose frizzanti e
intelligenti, oppure delle vaccate. E quindi, fedeli ad una concezione
tardo-democratica del rapporto scrittura/fruizione, di queste angosce facciamo
partecipi anche voi, che se in fondo siete tutti diventati dei “lectores in
fabula” è anche colpa vostra. Non cercate neanche di prenderci in castagna
ricordandoci, con aria di sufficienza, che nella società dei simulacri il senso
implode, che la distanza tra reale e immaginario è abolita, e quindi che senso
ha chiedersi che senso c’è. Eh: Baudrillard, Lyotard, Perniola e Vattimo li
leggiamo anche noi: e tutte quelle cose lì le abbiamo anche già dette e
scritte, quando il problema era di fare bella figura. Ma guardate che anche
fare gli alfieri del non senso mica è facile: non basta dire: -Ah
dimenticavamo: il senso è imploso, e tutto denota tutto e perciò non connota
più niente-. Forse è un passo importante, però magari l’hanno già fatto i Wutki
più di dieci anni fa su un giornalino che si chiamava come questo. Certo, si
può fare come quelli di Frigidaire, che dicono: -Non chiedetevi che rapporto c’è
fra tutto quello che trovate qui dentro, perché tanto anche la vita è
incasinata, e questa rivista, che non è niente di meno, anche-. Sfido: quelli
si chiamano Pazienza, Scozzari, e così via, e possono anche far finta di essere
la vita. Ma qui è un’altra cosa. Ricapitoliamo. Quando l’O.d.B. ci ha chiesto
di tenere questa rubrichetta per parlare della fantascienza, segnalare i libri,
fare le nostre polemiche (con moderazione), noi,
collettivo/cooperativa/redazione di rivista/adesso anche libreria, agenzia
fotografica e tutto quello che siamo, abbiamo accettato con entusiasmo, perché
eravamo convinti che questo discorso sulla fantascienza fosse sottovalutato,
preso sottogamba un po’ da tutti. Ci siamo detti: -Bene, ecco un’altra
occasione per cercare di capire meglio questo rapporto tra fantascienza e
realtà, per capire quanto nella nostra vita è diventato fantascienza (o quanto
la fantascienza è diventata la nostra vita)-. Perché a noi il problema sembrava
questo, e ci esaltavamo ancora, trovavamo la forza di meravigliarci nel vedere
quanta parte dell’immaginario, del repertorio di immagini
tecnologiche/sociologiche/antropologiche/alienontologiche della fantascienza si
stesse trasferendo nella nostra vita quotidiana. Ecco: poi, forse, dietro alle
novità librarie, alle polemiche con quelli che della fantascienza hanno ancora
un’immagine e una pratica che a noi pare vecchia, quel discorso non siamo
riusciti a farlo. O non siamo riusciti a farlo molto chiaro: forse anche perché
i primi a non averlo chiaro eravamo noi. Però l’intenzione era questa, e se non
ve l’avessimo detto, forse non si sarebbe capito perché adesso vi parliamo di
un piccolo convegno a cui siamo stati e che, un poco, ha contribuito a renderci
meno confuse le idee.
https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2019/10/antonio-caronia-fra-codice-e-codice.html
domenica 27 dicembre 2020
Antonio Caronia: Euro Cannes
Come vi abbiamo accennato due volte fa, ai primi di
maggio c’è stato il quinto convegno europeo di fantascienza (Eurocon, in gergo: le associazioni
evocate da una lettura in francese di questa sigla non sono affatto, ovviamente,
imputabili agli organizzatori) svoltosi nella cornice del deplorevole e
deprimente palazzo dei congressi di Stresa. Cornice per altro abbastanza in
sintonia con il programma e lo svolgimento ufficiale del convegno stesso, su
cui spenderemo adesso qualche riga. I lettori considerino, per favore, che il
nostro è un punto di vista di un collettivo abbastanza anomalo nel panorama
della fantascienza italiana: abbiamo i nostri “autori preferiti”, ma non
sbaviamo vedendoli di persiona (alcuni incontri, con Bester e Brunner, per
esempio, ci hanno confermato nella convinzione che in genere è meglio evitare
di far parlare gli autori di sé stessi); ci sforziamo di avere delle idee su
come si potrebbe fare una buona politica editoriale nella fantascienza, ma non
abbiamo interessi editoriali da difendere; e via di questo passo. Per questo,
inevitabilmente, non ci piacciono quasi mai le stesse cose che piacciono agli
altri appassionati, detti, con stucchevole barbarologismo, Fans (mentre l’insieme di cui essi fanno parte viene detto Fandom). Siamo perciò convinti che a
molti di costoro l?Eurocon sia
andato bene così com’era. A noi no, e cercherò di spiegare il perché. C’era
innanzitutto la questione del premio: l’idea del premio non ci entusiasma in
genere, in nessun campo e in nessun settore: ma questi premi, assegnati all’Eurocon passavano proprio la misura.
Non si scopre l’America dicendo che dietro ai premi ci sono interessi
editoriali precisi, anche se gli editori interessati all’Eurocon smentiscono inorriditi (ma allora il loro accanimento nel
disputarseli andrebbe spiegato con improbabili sindromi demenziali, nelle quali
non crediamo). Per il premio Italia, dal risultato e dalla distribuzione dei
voti, pare di capire a noi, dall’esterno, che esso sia stato il risultato di un
accordo tra l’Editrice Nord, di Gianfranco Viviani (il quale in qualità di
coordinatore dell’Eurocon, ne ha
avuto il principale onore e onere), e l’editore Fanucci, e in genere l’area di
destra: alla Nord il premio per il miglior romanzo e la migliore collana, alla
destra quelli per la migliore fanzine
e il miglior saggio. Noi, che siamo in fondo un collettivo educato, non avremmo
preteso però di dire proprio queste cose dalla tribuna del premio: ci saremmo
limitati a leggere una dichiarazione molto più generica sull’imbecillità dei
premi, se la presidenza, nella persona del suddetto Viviani e (spiace dirlo) di
John Brunner, non avesse deciso per noi, togliendoci bruscamente la parola.
Pazienza, sarà per un’altra volta: l’imbecillità è un tema che non tramonta
mai… Poi c’è la questione dei soldi_ per accedere all’Eurocon occorrevano la bellezza di 25.000 lire (18.000 se si era
prenotato in anticipo): e in cambio si aveva una mostra di libri stranieri (non
in vendita), alcuni stand di librerie di editori (4 in tutto) e una rassegna di
film su cui non diciamo nulla perché non ci piace infierire. L’attento
osservatore avrebbe poi notato che il manifesto ufficiale dell’Eurocon non era altro che la copertina
del catalogo dell’Editrice Nord. Non conosciamo il bilancio di questa società,
ma abbiamo l’impressione che il capitolo “campagne promozionali” non riguardi
tutte quelle effettivamente messe in atto. E veniamo al difetto più grosso: il 5° Eurocon, come in genere tutte le
manifestazioni di questo tipo, è servito agli editori e ai professionisti
(quelli che ci sono venuti) per farsi pubblicità, scambiarsi idee, prendere
accordi; agli appassionati “organizzati” in rivistine, circoli, etc., per
rivedersi, fare nuove conoscenze (e in questo senso, certo, è servito anche a
noi), appagare il proprio feticismo. Non è servito ai lettori “normali”, e per
fortuna ce n’erano pochi. Nella sala del congresso gli interventi si
susseguivano, preparati da mesi, nella solita passerella, senza alcuna
comunicazione gli uni con gli altri. Quei pochi spazi di discussione che ci
sono stati li abbiamo organizzati noi, a lato e nell’indifferenza del convegno
ufficiale. Da quelle riunioni è uscita l’idea, che ci siamo incaricati di
rendere pubblica: quella di un incontro tra appassionati e lettori di
fantascienza organizzato in modo diverso: poche relazioni preparate (due, tre),
tanto spazio per la discussione, anche per chi ha da dire poche cose e non se
le scrive in anticipo: il tutto in uno spazio, possibilmente, più adatto di Stresa
alla moltiplicazione degli incontri e delle discussioni. Noi ci ritorneremo
sulle pagine di Un’Ambigua Utopia:
voi, comunque, fateci sapere che cosa ne pensate.
venerdì 4 dicembre 2020
Dal cyborg al postumano di Antonio Caronia. Recensione di Giuliano Spagnul
Molto acutamente Alberto Abruzzese, nella prefazione
al libro “Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale” per le
edizioni Meltemi, (1) nel declinare le tre fasi di “approfondimento e
raffinamento della (…) particolare prospettiva politico-culturale” di Antonio
Caronia, assieme all’insegnamento nella scuola e alle lezioni in contesti
accademici, pone la sua laurea in matematica “che gli ha conferito una
specifica competenza nel trattare testi e processi solitamente in mano a altre
discipline.” È una doverosa sottolineatura, ancor più perché si tende
facilmente a dimenticarsene. Certo, che ci fosse una competenza di stampo
scientifico e un forte interesse a coniugare l’immaginario con la scienza era
più che evidente in lui; anche se difettava di quel cipiglio un po’ arido e
freddo che si vorrebbe caratteristica degli uomini di scienza e, in particolare,
di quelli dediti alla matematica, scienza tra le più pure. Ma in realtà, forse,
era proprio questa la matrice che gli permetteva di spingersi più oltre di
tanti altri, nel cogliere il peso determinante che le astrazioni del fervido
immaginario umano (quella capacità di costruire mondi virtuali in cui
sperimentare i sogni più arditi) hanno sulla vita reale e concreta di tutti noi.
E ancora Abruzzese nota, giustamente, nel desiderio di Caronia, celato
nell’invito a dimenticare il Novecento (secolo delle rivoluzioni fallite), la
speranza di una nuova via di liberazione dal potere “finalmente possibile a
ragione della scomparsa del corpo umano dentro un corpo che non soffrisse più
degli inganni della natura spietatamente antropocentrica e della violenza della
forza sovrana che ne ha fatto irreversibile strumento di dominio.” È il tema
del postumano, da sempre centrale per Caronia e che proprio lui tradisce negli
ultimi mesi di vita preferendo dedicarsi a un seminario su “arte e follia” a Macao,
invece che alla stesura di un articolo richiestogli per il numero di Aut Aut
dedicato proprio al postumano. Di quell’articolo non sono rimaste tracce,
nessuna nota o appunto, solo un’entusiasta mail agli amici per condividere la
gioia di questa inaspettata richiesta. È vero quel desiderio, a cui accenna
Abruzzese, desiderio più che umano di andare oltre l’umano ma è vero che
proprio Caronia poteva vantare di averne lucida coscienza, accompagnata da
un’altrettanta lucida autocritica . (2) Cos’altro avrebbe potuto dire, in quel
momento, sul postumano che non avesse già ribadito con forza più volte, e cioè
che non di un superamento del corpo (in una sorta di divenire angelico) si
tratta, ma del finire delle condizioni di un determinato sapere (episteme) e di
“una nuova nascente episteme”. È questo che sta a significare per Antonio Caronia la parola postumano. Una
nuova parola per una vecchia storia che sempre, a più riprese, si è presentata
lungo l’arco della storia evolutiva della nostra specie: la trasformazione dei
dispositivi di formazione di un nuovo sé, quei dispositivi che nell’epoca
appena trascorsa hanno costruito quell’”Io” del soggetto moderno e che in
questa nuova epoca, modificati, ne stanno costruendo uno affatto nuovo.
Cos’altro avrebbe potuto aggiungere in un volume dedicato al postumano se non
uno scontro/incontro con il proprio corpo, carnale, artificiale, immaginato che
sia: e questo ha fatto optando per il silenzio delle parole scritte a favore di
quelle orali, vis-à-vis, con altri umani, altri corpi, come il suo soggetti ad
ammalarsi e a perire, non prima però di aver espresso tutta la loro voglia del
vivere e di gioire. È giusto quindi che questa antologia di scritti inizi con
un testo non scritto, una lezione all’Accademia di Brera nella tarda primavera
del 2010. Per chi considera la biopolitica foucaultiana come un teorema
superato dall’evoluzione odierna degli strumenti tecnologici e della loro
capacità di operare, o meno, sulla viva carne degli individui, questa lezione
sulla nascita della biopolitica, coestensiva a quella dell’uomo artificiale
(robot, androide, cyborg che sia) chiarisce in modo esemplare l’essenza di
questo concetto, così spesso frainteso nonché abusato. La biopolitica è il
punto di snodo in cui la storia umana concepisce l’idea della “modificabilità
della natura” da parte dell’uomo e questo nuovo sapere determina un potere che
necessariamente deve servirsi di nuovi dispositivi capaci di modificare la
natura dell’essere umano stesso. All’artificialità della natura corrisponderà,
d’ora in poi, l’artificializzazione dell’umano: “non ci sono più uomini
naturali una volta che è comparso l’artificio all’orizzonte della specie
umana.” E al potere non basterà più esercitare la pura sovranità o un regime
disciplinare (di addestramento all’obbedienza), occorrerà, per perpetuarsi,
fare quel salto enorme di rendere governabile la vita in tutte le sue forme, da
quella individuale, a quella sociale, a quella immaginale, a quella biologica
fino ai suoi recessi più profondi e intimi: “la biopolitica vuol dire che è
stato reso governabile l’ingovernabile.” Antonio Caronia ha capito che, in
realtà, Foucault non ha fatto altro che parlarci di biopolitica (nonostante che questo termine compaia solo
alla fine del corso del ’76) (3) anche quando si è messo minuziosamente a
raccontarci la storia della sessualità o i processi di soggettivazione della
Grecia antica come del primo cristianesimo. Tutto il suo lavoro tende verso
quell’”irruzione della naturalità della specie umana all’interno dell’ambiente
artificiale” (4) che Caronia si spinge a completare modificandolo in una forma
più consona all’oggi: “l’irruzione della naturalità della specie umana
all’interno dell’ambiente artificiale determina l’artificialità della stessa
natura umana, la trasformazione artificiale della stessa natura umana.”
Schematizzando, credo che Antonio Caronia abbia voluto, tramite Foucault, dirci
che la natura dell’uomo consiste nella sua progressiva artificializzazione e
che per biopolitica si deve intendere quella possibilità di rendere questo
processo governabile, nel suo divenire sempre più, di fatto, ingovernabile. La
questione non è quindi la comparsa di qualcosa di nuovo che chiameremo
biopolitica, come se non fosse mai esistita una politica che in un qualche modo
abbia cercato di governare la nostra vita, ma piuttosto della sua inedita e
inaudita potenza che oggi ha assunto grazie al nuovo sapere-potere che le ha
conferito la fusione tra scienza e tecnica, con progressione esponenziale in
questa fine e inizio di nuovo millennio. Questo libro, curato sapientemente da
Loretta Borrelli e Fabio Malagnini, suddiviso in tre parti, sostanzialmente
riguardanti il cyborg, la fantascienza e il postumano, in realtà ci accompagna in
un percorso che oltre a volerci far “dimenticare il Novecento” vuole anche
farci uscire dalle secche di quel linguaggio a lui ancora strettamente legato.
Né il cyborg, né il postumano, né la fantascienza tutta (di basso o alto
livello che sia) possono pensare di essere traghettati nel nuovo
secolo/millennio senza essere depurati da quelle croste di residui utopici o
prometeici peculiari di un tempo irrimediabilmente finito. “La fantascienza (non
si può non essere d’accordo con Ballard) è stata l’immaginario portante del XX
secolo (…) la fantascienza sarà ancora l’immaginario portante del nuovo secolo?
La risposta è più probabilmente no che sì. La fantascienza cadrà vittima (forse
è già caduta vittima) di quel processo che ha saputo così bene illustrare, e
nei casi migliori interpretare, quello della caduta del cielo dell’immaginario
sulla terra del reale.” (5) Quando la fantascienza si cala nella realtà fino ad
annullare, di fatto, quella distanza indispensabile, “quel minimo scarto fra
progettualità e realizzazione” si rende impossibile l’esistere di quella zona
franca in cui poter immaginare i possibili potenziali, tutto rimane schiacciato
entro i confini di quel contingente sempre più dato come unico possibile. La
parola fantascienza deve quindi, per noi del nuovo millennio, dirci qualcosa di
scandalosamente nuovo. Qualcosa che “non ha più niente a che vedere con il
futuro della modernità, che era una proiezione del presente del soggetto, un luogo
da costruire con pazienza, sagacia e tenacia, nei tempi lunghi del lavoro e
della progettualità” ma, invece, con un futuro che assomiglia “piuttosto a uno
spasmo del presente, a un’anticipazione frenetica di processi che non si
distendono più dal passato al presente e oltre, ma vivono sin dall’inizio
perennemente proiettati in avanti.” (6) E allora la fantascienza oggi deve
essere una parola nuova che come quella che dice cyborg o postumano deve
definire un concetto piuttosto che un’essenza. E questi concetti, questi modi
nuovi di pensare e di pensarci, maturano in una fase storica di violenta
accelerazione tecnologica in cui è, e sarà, sempre più necessario fare i conti
non con ciò che è dato, certo, a cui si può fare affidamento, ma a ciò che è
mutevole, incerto, non definito. Perché una realtà che non può più contare su
un futuro da immaginare, programmare e realizzare rende obsoleti quei confini
tra dato e immaginato che vivevano ancora entro
quella forzatura ossimorica che stava alla base della parola
fantascienza. Alla fine questa ottima scelta antologica, io credo, ci ponga di
fronte a quello che è il nodo centrale per riuscire a sopravvivere all’utopia
capitalista (unica uscita vincente dal secolo appena trascorso), quello di
considerare il tempo in cui stiamo
vivendo in sostanziale continuità o discontinuità con quello passato. Cioè se
il futuro è realmente scomparso, se la cultura non può più essere considerata
elemento estraneo alla natura, se lo spazio del virtuale non è più uno spazio
immaginato ma è esperito e vissuto nella nostra quotidianità in quanto ne
facciamo ormai completamente parte e i tanti altri se che Caronia pone ci
costringono a una presa di posizione, che per quanto riguarda lui non può che
essere che quella di assumersi la responsabilità di divenire postumani e quindi
in sostanziale discontinuità con ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Una
nuova difficile, ancorché inquietante e insieme esaltante, costruzione di un
nuovo ibrido, ennesima variante di una (come Caronia amava descrivere la nostra
storia di specie) tra le più sofisticate sperimentazioni della natura. Non è
detto che debba andare per forza bene, e l’avveramento dei più arditi sogni del
capitalismo non possono non prefigurare l’esito infausto di quest’avventura. Per
farcela non avremo bisogno di nuove utopie ma di una storia fatta di parole
nuove che ci permettano di costruire “tattiche di resistenza, nella forma di
‘slittamenti temporali’, quelle fughe nel futuro e nel passato di cui ci
parlava Philip K. Dick. (…) Per non farci trovare mai lì dove si pensa che
dovremmo essere per fare la nostra parte di agenti valorizzatori, di
colonizzatori del tempo per conto terzi”. (7) E poi? E poi è una domanda che
appartiene a una storia finita, chiusa. A noi serve una storia aperta dal
finale non scontato, perché noi, nonostante i sogni del capitale che ci
vorrebbe tutti morti, siamo ancora vivi.
Nota 1: Antonio Caronia, Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale, a cura di Loretta borrelli e Fabio Malagnini, Culture Radicali, Meltemi editore, 2020.
Nota 2: Nel ricordo per Enrico Livraghi: “E capivo
che lui mi etichettava spietatamente ma con una certa tolleranza tra gli
‘antropologhi ottimisti del cyberspazio’ (…) e riluttavo allora, mentre capii
poi che nell’essenziale aveva ragione.” http://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2015/06/antonio-caronia-per-enrico-livraghi-da.html
Nota 3: Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli 1998
Nota 4: M. Foucault, Sicurezza Territorio popolazione, Feltrinelli 2005
Nota 5: A. Caronia, L’insostenibile
naturalità della tecnica, 1999
Nota 6: A. Caronia,
Digital Time, 2008
Nota 7: idem
Pubblicato su La Bottega del Barbieri Qui (18 agosto 2020)
altre recensioni:
Luca Giudici in Quaderni D'Altri Tempi Qui (30 ottobre 2020)
Francesco Monico in Che Fare Qui (4 novembre 2020)
domenica 1 novembre 2020
Antonio Caronia: Meglio morti che immortali?
Linus novembre 1982
Esce presso l’editore Guanda, che lo presenta in
modo francamente eccessivo come “il più bel libro di fantascienza del XX
secolo”, il racconto Cancroregina di
Tommaso Landolfi (nella bella ma ahimè costosa collana di “Prosa
contemporanea”). Landolfi pur essendo uno scrittore irriducibile a scuole e
correnti precise, fa parte di quella non grande schiera di esponenti della
nostra letteratura che ha attinto spesso a materiali e figure fantascientifiche
per la sua produzione, e della quale il più noto (se non l’unico) al grande
pubblico è Italo Calvino. Alla fantascienza Landolfi ha sempre chiesto scenari
e situazioni (c’è chi dice “pretesti”, ma per quale scrittori i suoi materiali
non lo sono?) Per un suo discorso amaro e radicale sul destino dell’uomo, un
discorso sempre a mezza strada fra il racconto filosofico e la confessione
personale: questo avviene in alcuni dei Racconti
impossibili, e in molti dei “dialoghi cosmici” pubblicati dal Corriere
della Sera fra il 1975 e il 1976, pochi anni prima della sua morte. Questo
avviene anche in Cancroregina,
pubblicato per la prima volta nel 1950: qui la solitudine dell’autore in un
congegno spaziale (descritto sommariamente e imprecisamente) destinato per un
misterioso guasto ad orbitare per sempre intorno alla terra e dotato di una
voce e di una intenzionalità proprie – la “Cancroregina” del titolo – diventa
l’occasione per una confessione, che a tratti si fa disperata, della propria
impotenza a vivere e a comunicare, a districarsi dalla confusione e dal
pasticcio tra letteratura e vita. “E pensare che tutto quanto occorre a menarmi
in salvo è qui, qui dentro e a portata di mano; ma è come se non ci fosse, non
so trarne profitto”. Il mondo chiuso e isolato della navicella spaziale diventa
l’impossibilità dell’autore a uscire da se stesso: l’ dentro egli, condannato a
una specie di immortalità, aspetta “il coraggio di morire. Queste riflessioni
sulla morte e l’immortalità vengono a Landolfi dal romanticismo tedeco e da
Poe, che è citato all’inizio di Cancroregina.
Ma è curioso osservare che il tema dell’immortalità è ricorrente nella
fantascienza americana, dagli anni “d’oro” (Van Vogt in testa) giù giù fino ai
nostri giorni. Lo dimostrano anche alcuni titoli apparsi di recente nelle collane
specializzate: non tanto il mediocre Gli
immortali di James Gunn, titolo giustamente dimenticato degli anni ’60,
quanto l’ultima produzione di Philip J. Farmer tradotta in italiano, Il sole nero, del 1979. Con i ritmi
serrati del romanzo d’avventura che solo lui sa condire con una sintassi tanto
più avvincente quanto più sembra approssimativa e scheletrica. Farmer passa da
una prima parte in cui prevalgono gli scenari della fantascienza “antropologica”
(una Terra per noi vecchissima, il sole estinto e le galassie incenerite che
con i loro passaggi periodici scandiscono il tempo delle tribù isolate e chiuse
nelle loro culture sciamaniche) ad una seconda parte in cui emerge prepotente
il senso del tempo cosmico, la rovina planetaria e l’unico modo per sfuggirvi è
e raggiungere così una “quasi mortalità”: il passaggio attraverso le porte che
separano i diversi piani spazio-temporali, i personaggi umani qui, a differenza
del ciclo dei Fabbricanti di universi,
sono più scialbi delle stupende invenzioni teratologiche di Sloosh, l’enorme
centauro vegetale, esponente di una linea evolutiva post-umana, che delle
piante ha tutta la lentezza biologica unita ad una enorme massa di conoscenze
organizzate in una logica rigorosissima, e della Shemibob, la gigantesca
donna-serpente proveniente da un’altra galassia, padrona di una meravigliosa e
sconosciuta tecnologia, che condurrà i protagonisti oltre la porta, in una
Terra parallela, per sfuggire al destino di estinzione di questa Terra. Chiuso
il libro, naturalmente, non sappiamo se la Terra che noi conosciamo è quella
che i nostri eroi abbandonano, ormai al termine del suo ciclo, o quella a cui
approdano, all’inizio di quella che potrebbe essere la nostra evoluzione umana.
Ma questa non è che una variante della concezione ciclica del tempo di Farmer,
condannato egli stesso a riscrivere lo stesso libro in decine di forme diverse,
alla ricerca di un senso segreto della vita che egli per primo sa non esistere.
Una lettura che comunque si raccomanda, quella di questo Il sole nero, in attesa di poter leggere o rileggere il capolavoro
del “tempo ciclico” farmeriano, quel Mondo
del fiume di cui l’editrice Nord annuncia la riedizione integrale, in
cofanetto, per il prossimo anno.
domenica 11 ottobre 2020
Un'Ambigua Utopia n. 10 - SOMMARIO
INDICE
Il culto di un'era (editoriale)
“…possiamo cimentarci in rotte oblique, ucronie necessarie, posture non assertive per esprimere la fine dell’uomo per come lo abbiamo conosciuto.”
(a Giancarlo Bulgarelli)
"... questa vecchia esperienza ha raggruppato intorno a sé giovani compagne e compagni che hanno già prodotto un prezioso lavoro di digitalizzazione (pubblico) di tutti i numeri della rivista, oltre una serie di iniziative per Primo moroni e Antonio Caronia alla Fondazione Mudima e una programmazione di incontri sulla Fine dell'Uomo al centro sociale Piano Terra. Da vecchio superstite, non pentito ma neanche nostalgico di quei 'formidabili anni', insieme alla mia compagna Marisa Bello li guardiamo e li aiutiamo per quel che le nostre piccole forze rimanenti ci permettono."
“Ricevendola dalle mani di Prometeo, un loro
vecchio alleato, gli umani non immaginavano neanche lontanamente che la technè
avrebbe cambiato per sempre la loro vita sulla terra. Non sarebbero più stati
obbligati a cercare affannosamente i luoghi magici dove sgorga l’acqua limpida
se la si può trasportare e conservare. Nella stagione fredda avrebbero potuto
sopperire alla mancanza di luce e calore con “atr” (fuoco) che il titano aveva
dato loro, disobbedendo a Zeus. Sarebbero stati dunque meno dipendenti dal
caso. La technè li avrebbe fatti entrare pian piano nella spirale di un
benessere incomparabile, sostituendosi al precedente mondo, magico e
meraviglioso ma al tempo stesso crudele e mortifero. Ma non si resero conto che
la technè avrebbe anche ostacolato l’empatia con la natura e rotto
l’incantesimo della simbiosi col mondo circostante.”
5+5 dei più belli e dei più politici tra i romanzi di fantascienza. Una
classifica dal sapore vintage in una nuovissima Ambigua Utopia. “…C'è da
chiedersi se il ruolo di quelli che chiamiamo classici della fantascienza
-genere letterario/pop dai margini incerti- in fondo non sia altro che
questo, essere testi al contempo stimolanti e dissonanti, capaci di superare
gli isolamenti temporali, aprire squarci in controfase, bypassare le invisibili
barriere che ci reprimono l'immaginario, che lo confinano allo stampo d'un
epoca. E allora forse alcuni di questi titoli sono stati più efficaci in questa
operazione culturale, e diventano così frammenti d'un alfabeto, possono essere
ritenuti mattoni fondanti. E se così fosse... Quali di questi testi hanno poi
questo valore?” (Giancarlo Ghigi) Rispondono Gennaro Fucile, Daniele Barbieri e
Domenico Gallo.
Un perturbante
fotoromanzo sul n. 10 di Un'Ambigua Utopia "L’idea era quella di far
vedere cosa sarebbe successo nel far incontrare due algoritmi provenienti da
contesti differenti (un po’ come quando un incontro tra persone diverse può
generare uno scambio, uno scontro o una nuova entità) e di verificare quindi se
dell’umanità possa sussistere ancora in queste immagini che qui in questo
esperimento visivo sono state prodotte esclusivamente da algoritmi. Il
risultato è stato ‘ovviamente’ un fallimento e quindi l’esperimento può dirsi
riuscito”
Bibliotork Interzona Caronia
Nel n. 10 di
Un'Ambigua Utopia Tobia D'Onofrio invita tutti a Bibliotork Interzona Caronia,
un archivio dell'immaginario alla Cascina Torchiera, uno spazio liberato e
resistente
Selezione di racconti
ambigui provenienti dall'archivio UAU: CHI E' IL COLPEVOLE di Tiziano Salari
"...Presto lo avrebbero arrestato, e neppure la sua innocenza lo avrebbe
salvato dall'ergastolo. Come provare infatti che non fosse lui, il padre e la
madre sarebbero stati i primi ad accusarlo - già erano pagati per questo!"
- LA RASATURA di Beppe Chiappino "...Il volto insaponato e il solito sguardo dal finestrotto sul corso:
tre interi isolati davanti a me rasi al suolo da una bomba allo ioduro
segmentato, che distrugge fino a lì,e non un millimetro più in là." -
PICCOLO UNIVERSO di Andrea G. Necchi "...Doveva assolutamente uscire,
distruggere quella parete senza capo ne coda, tutto se stesso lo esigeva, pena
la follia."
Una "nuova" fantascienza
Nel n. 10 di
Un'Ambigua Utopia un articolo di Patrizia Brambilla e Antonio Caronia sulla
fantascienza femminile "...Ritroviamo nella fantascienza femminile molte
delle tematiche che le donne e il loro movimento hanno sollevato in questi
anni. Corpo e parola, fisicità e linguaggio, rapporto con le altre donne,
conflittualità/amore per la madre, sessualità, ambiguità, separazione e
separatismo, ricerca di identità al di fuori degli schemi e delle costrizioni,
enfasi sul “quotidiano”. .."
Giorgio Uboldi per
l’ideazione dell’immagine di copertina ci racconta come si siano usati dei
pattern di Turing (pattern di reazione e diffusione) che sono gli stessi che
stanno alla base della morfogenesi, cioè di come le nostre cellule si
strutturano in forme e, nel risultato ottenuto dall’effetto quasi psichedelico,
scaturisca una sensazione un po’ da fine dell’uomo che si disintegra e torna ad
essere un tutt’uno con il resto.
Un'Ambigua Utopia n.
10 si trova a Milano: Cascina Torchiera P.le Cim. Maggiore 18 - Isola Libri,
via Pollaiuolo 5 - Il covo della ladra, via Scutari 5 - Libraria Anarres, via
Pietro Crespi 11 - Libreria Noi, via delle Leghe 18 - Libreria Popolare, via Tadino
18 - Librosteria , via C. Cesariano 7 - Libreria Scaldasole, via Scaldasole 1 e
si può ordinare fuori Milano online qui: https://ladradilibri.com/prodotto/unambigua-utopia-n10/
La redazione
giovedì 24 settembre 2020
Quando cambierà
Editoriale n. 1 nuova serie Un'Ambigua Utopia 1979
di Antonio Caronia
La mutazione è in corso. Ognuno di noi c’è immerso
fino al collo o invischiato fino ai neuroni, se preferite, perché è dello
spazio interno che, anche, si parla. Non abbiamo ancora modo, così, in mezzo al
guado, di voltarci indietro, valutare la strada percorsa, e neppure di
apprezzare quanto disti l’altra riva. Anzi, se vogliamo dirlo da dentro le
nostre angosce, non sappiamo neppure se altra riva vi sia. Forse siamo
destinati a tramutarci, per un po’ di tempo, in animali acquatici. Che importa?
Le apprensioni per il futuro (chi ne ha), e comunque le insicurezze di un
cammino troppo poco noto e – ne siamo sicuri – troppo pieno di insidie, si
mischiano in noi con una specie di euforia e di esaltazione, che è la veste che
assume la consapevolezza della fine di un’esperienza, della rottura che – ci
siamo accorti – ci accompagna ormai da più di qualche mese.
È certamente solo un caso che la trasformazione di
questa nostra rivista, a cui state assistendo, coincida approssimativamente con
l’inizio di una coscienza più larga, in molti di coloro che sono stati
impegnati nei movimenti degli ultimi anni, della mutazione. Ma è un caso a cui
ci piace abbandonarci, per un po’: e non rinunciamo alla tentazione di
inscrivere il mutamento di UN’AMBIGUA UTOPIA sotto il segno di questa
mutazione. La mutazione è tale (talmente radicale e profonda, si vuol dire) che
dobbiamo correre il rischio di scrivere ormai le frasi senza soggetto, a tal
punto l’emergente si è rituffato sotto terra, il visibile si è sottratto alla
vista, lo slogan risuonante si è affievolito (e, quando suona ancora, suona
osceno e ripugnante, se non è stravolto dal ghigno dell’irrisione). Ma tant’è:
qualche incongruenza sintattica non è certo un prezzo più pesante da pagare per
capire un po’ meglio che cosa siamo diventati. E, se il “noi” che useremo avrà
il vizio di essere indeterminato, ognuno lo potrà riempire col referente che
vorrà: potrà anche tirarsene fuori, da questo “noi”: riesumatori di cadaveri
(che, come si sa, sono amici/nemici dei becchini) ce n’è sempre, e forse di più
ce n’è nei periodi di restaurazione.
Fine di un’esperienza, rottura, dicevamo. La
generazione del ’68 sta consumando, irreversibilmente, l’esperienza della Politica.
Tattiche, strategie, rapporto con le istituzioni,
teorie dell’avanguardia e pratiche di partito si sono lentamente svelate per
quello che erano. L’ideologia era più di un velo, era cortina spessa e pesante,
ma la borghesia nazionale/internazionale/multinazionale ha fatto il suo lavoro,
rivoluzionario (oggi come nel 1848): ha rimosso la cortina, lenta, paziente:
ritrovando il suo equilibrio (dinamico, certamente, mai statico: si rassicurino
i talmudisti del marxismo) ci ha fatto vedere, nella “strategia
rivoluzionaria”, gli stessi meccanismi, speculari e quasi sempre ridotti a
dimensioni risibili, della sua
strategia. Il rimosso di due, tre, dieci anni di militanza ritorna a galla,
provoca crisi salutari e crisi distruttive, disimpegni lieti ed esaltanti e
disimpegni cupi e frustranti, nuovi tuffi nella militanza e riscoperte
letterarie, reclutamenti per le chiese buddiste e per i gruppi armati. Per
rapire Moro e per fare uscire un nuovo quotidiano di opposizione ci vogliono i
soldi, certamente, ma anche un discreto numero di sostenitori: bastano pochi, è
vero, ma non tanto pochi da impedire di illudersi che siano una “base sociale”.
L’indifferenza sociale, l’accettazione del dominio quotidiano travestito da
rappresentazione oggettiva, l’adesione al copione dello Spettacolo in cui ormai
tutti (borghesi e proletari, conservatori e rivoluzionari, poliziotti e
terroristi, Andreotti e Mimmo Pinto, per non parlare della Castellina) hanno un
ruolo: su tutto questo (che forse è germanizzazione, e forse non lo è) si fonda
la stabilità nuova del regime nascente democratico pluralistico e partecipato
della borghesia italiana. E anche lo stato atomico, quando verrà, non vestirà
più forse i panni dell’arbitrio odioso ma necessario, agli occhi dei più, ma
quelli dell’impersonale oggettività.
Ma allora siamo sconfitti? Se l’unico terreno che
conoscevamo, anzi no, di cui abbiamo tanto faticato per impadronirci, quello
della Politica, si è mutato sotto i nostri occhi in una palude impraticabile,
che faremo? Che faremo se il terreno che per qualche mese abbiamo intravisto dentro/dietro
la pratica dei compagni di Bologna e di Roma si è anch’esso richiuso (così
sembra)? Non fatela tanto lunga – ci dicono insieme coloro che vogliono
ripercorrere, liberato dalle immondizie più visibili, il sentiero delle
esperienze di partito, e i “nuovi manager” delle imprese di servizi addette a
gestire i bisogni dei nuovi soggetti – perché volete caricare la vostra rivista
(bella/brutta, interessante/noiosa) e il vostro progetto in genere
(realizzabile/irrealizzabile, nuovo/vecchio) di tanti significati? Parlate di
fantascienza, parlatene come volete; ma non rischiate anche voi di riesumare
cadaveri, volendo a tutti i costi rifilarci i ridicoli parti delle riflessioni
sulle vostre esperienze?
Be’, non ingombriamo di troppi cadaveri una via che
è già abbastanza stretta. Dire che la “politica rivoluzionaria” è morta non
significa che è morta ogni possibilità di liberazione nelle società di
capitalismo decadente.
Se accettassimo puramente e semplicemente di
occupare un pezzo di mercato, non si capisce perché non dovremmo accettare di
definire anche il valore della nostra vita in questi termini. Forse non c’è una
mutazione in corso, ce n’è più d’una; nel senso che una parte della nostra
generazione (delle nostre generazioni) ha accettato, sta accettando, la sua
parte nello Spettacolo. Ma noi siamo mutanti in altro modo: la nostra
estraneità a questa società non è in discussione, è forse più forte e profonda
di quanto fosse prima: la nostra alterità non è in vendita. Stiamo con chi non
si identifica né con lo Stato né con la Società Civile, e se oggi l’esistenza
di costoro, di questi strati, è sotterranea e clandestina, si svolge in un
luogo che non ha niente a che spartire con la rappresentazione che imperversa
(e quindi neppure con la lotta truccata tra Stato e Terrorismo), allora noi
viviamo in questo luogo.
In un luogo come questo il “noi” che abbiamo usato
finora può, deve perdere la sua asessualità: nel nostro progetto ci dovrà
essere posto anche, se non soprattutto, per un “noi” sessuale, tragicamente e
felicemente, un “noi” femminile/maschile, bisessuale. Perché il nostro è un
progetto più, non meno, ambizioso di prima: è quello della liberazione, da
tutte le oppressioni, da quelle esterne non meno che da quelle interne,
introiettate, che ci portano per esempio a difendere istintivamente il
“femminile” o il “maschile” predominante in ciascuno di noi. Se per molte
compagne rifiuto della politica ha significato anche rifiuto di una militanza
femminista acritica, sloganistica e contrattuale, questo non significa certo né
che esse rinneghino la propria storia, né che credano oggi in un’”integrazione”
che non sarebbe altro che normalizzazione. La differenza esiste, esiste un modo
diverso di “sentire” la vita.
Forse per questo è così importante lo sforzo di tante
compagne di comunicare il loro femminile, di accettare il loro maschile, per
battersi perché nessuna diversità resti, all’interno di ognuno di noi,
assorbita, appiattita, esorcizzata, ma al contrario che venga accettata,
compresa, amata. “L’unico pensiero rivoluzionario è quello che sa invertire all’infinito, e non in un solo senso,
l’alto e il basso del corpo individuale come del corpo sociale… L’unico
pensiero rivoluzionario è quello amoroso, cioè capace di viaggiare attraverso tutto ciò che il dualismo occidentale ci ha
sempre rappresentato come inconciliabile, fra l’altro l’idea di maschile e
femminile” (A. Le Brun, Mollate tutto.
Facciamola finita con il femminismo, Edizioni del sole nero, 1978).
A questa condizione, con questo progetto (e con tutta
la modestia delle nostre forze e del nostro punto di vista, che ci mette al
riparo da qualsiasi tentazione di “egemonia” di alcunché) vogliamo provare ad
utilizzare anche gli spazi di mercato che sono aperti, vogliamo provare a
gestire la piccola fetta di potere che la produzione di carta stampata
assicura, per contribuire a diffondere (sul terreno della scrittura e
possibilmente di una pratica ad essa collegata) alcuni frammenti di linguaggio
differente. UN’AMBIGUA UTOPIA vuole diventare sempre di più una tribuna delle
diversità, dentro quel percorso sotterraneo di produzione di rivolte parziali,
di ridefinizione di linguaggi e di comportamenti che è l’unica speranza per la
rifondazione di un nuovo soggetto che, liberando se stesso, liberi tutta l’umanità.