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sabato 30 gennaio 2021

Antonio Caronia: Fantasy al sole

 


Linus agosto 1984

Impazza un’estate lungamente attesa, ed eccomi a segnalarvi qualche distensiva, evasiva anche, ma non banale lettura canicolare: sempre fra quelle, s’intende, che abbiano attinenza col nostro genere, o supergenere, preferito, il fantastico. Cominciamo (un dubbio contrario non mi sfiora neppure) con l’autore nuovo più interessante arrivato da noi quest’anno. Se ancora non l’avete fatto, e disponete di almeno quattro o cinque pomeriggi da dedicare alla lettura, dovete assolutamente procurarvi I figli della mezzanotte, terzo romanzo, ma primo tradotto in italiano, dell’indiano Salman Rushdie (Garzanti, pp. 518, L. 22.000). Rushdie scrive in inglese, per la buona ragione che vive a Londra dall’età di 14 anni (adesso ne ha 37), e ci sommerge, ci inonda, ci ingolfa con l’autobiografia di Saleem Sinai, portavoce e “coordinatore” della Midnight Children Conference (Conferenza dei figli della mezzanotte). Costoro sono i bambini nati appunto attorno alla mezzanotte del 15 agosto 1947, giorno di proclamazione dell’India come Stato indipendente: ognuno di loro ha, per questa ragione, poteri straordinari, e tutti insieme possono collegarsi telepaticamente tramite Saleem. I giorni di questa “Conferenza” sono brevi, ma segneranno profondamente la vita di ognuno di loro e in primo luogo quella di Saleem, che nel libro + il martellante e invadente io narrante: tutta la narrazione, che parte dalla vita del nonno di Saleem per arrivare alla sua nascita e alla storia della sua “ascesa e caduta”, se così si può dire, sembra in effetti preparare l’ingresso sulla scena dei fatidici bambini e lo straordinario intreccio tra vite peivate e storia della nazione indiana che essi realizzano, fino allo sconvolgente epilogo che, per carità di lettura, vi nascondiamo. La filosofia narrativa di Rushdie è racchiusa tutta in queste due sentenze: “Per capire una sola vita dovete inghiottire il mondo” e “Alla forma non si può sfuggire”. I critici hanno paragonato I figli della mezzanotte a Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez, a Augie March di Bellow, hanno scomodato persino Laurence Sterne e, il suo Tristam Shandy. Io aggiungerei la storia di un’altra turbolenta e mirabolante iniziazione alla vita, quella raccontata in Il grande tiratore di Vonnegut, di cui ho parlato il mese scorso su queste stesse pagine. Con questa fondamentale differenza: che tanto Vonnegut sottrae particolari alla narrazione, giocando su un sapiente uso ironico dell’ellissi (ed è il suo biglietto da visita), quando Rushdie ne accumula, di particolari, in una ridondanza barocca e stordente, in una spudorata esibizione del meccanismo narrativo che ne fa un romanziere, se possibile, ancora più “postmoderno” di Vonnegut. Postmoderno e gioiosamente materialistico, se alla fine del romanzo scopriamo che Saleem Sinai ha costruito, un equivalente gastronomico della sua autobiografia, 31 vasetti di mostarda indiana con dentro i sapori della sua vita, uno per ogni capitolo, uno per ognuno dei suoi anni… Sempre in tema di pseudo-autobiografie, prosegue la narrazione in prima persona del viaggio-ricerca di Severian, che costituisce il ciclo in quattro volumi del “Libro del nuovo sole” di Gene Wolfe. Nella terza tappa, l’ultima finora disponibile (La spada del littore, Nord, pp. 270, L. 10.000), Severian ha finalmente raggiunto la città di Thrax, sua meta nel precedente volume, ma se ne allontana per nuove peregrinazioni. Ho già consigliato la lettura di questo ciclo, ma rimando ancora una volta un discorso più compiuto a quando l’ultimo volume, La cittadella dell’autarca (la cui uscita è peraltro imminente) scioglierà i non pochi enigmi accumulati nei primi tre. Il ciclo di Wolfe è, grosso modo, collocabile nel filone “fantasy”. Rimaniamo quindi nei paraggi e vediamo che cosa ci riserba  quest’estate la fantascienza. Nel settore classici in primo luogo i mai dimenticati Cristalli sognanti di Theodore Sturgeon, che ricompaiono nella collana Cosmo Oro riutilizzando la vecchia traduzione di Malaguti (Editrice Nord pp. VIII-210, L 8.000): sono pochi gli appassionati che non l’hanno letto, ma ai neofiti non deve mancare questa affascinante contaminazione tra il mondo dei freaks e la tematica del superuomo. Mondadori ci offre, nella collana “I Massimi”, un trittico di Clifford Simak, che non è per nulla uno dei miei autori preferiti, ma ha un posto ineliminabile nel cuore dei fan (Anni senza fine, Camminavano come noi, Oltre l’invisibile, pp. 420, L. 18.000): l’evento è memorabile perché il primo romanzo, uscito varie volte tagliatissimo su “Urania”, è ora ripristinato in versione integrale). Proseguendo nella scia delle antologie d’autore, inaugurata dai due volumi di “Cosmolinea B” di Frederic Brown, ecco negli “Oscar fantascienza” i quattro volumi di Shock di Richard Matheson (pp.784, L. 18.000), praticamente l’opera omnia, quanto ai racconti, dello sceneggiatore di Duel, e in “Urania blu” La signora degli scarafaggi di Thomas Dish (L. 3.000). E scusate se è poco. Per quanto riguarda le novità, il tema del passato dell’umanità e del viaggio nel tempo sembra avere largo spazio, visto che lo si trova in due libri peraltro molto diversi, e cioè in La terra dai molti colori della nuova autrice, Julian May (Nord, pp. 460, L. 12.000), primo volume di una “Saga dell’esilio del Pliocene” di cui molto si è discusso in America negli anni scorsi, e Il tempo è il solo nemico (Nord, pp. 286, L. 8.000) di Michael Bishop, autore ben poco pubblicato da noi ma notevole per la presenza di un vivo interesse antropologico in una solida cornice da “space opera”. Dopo aver ancora segnalato, per gli amanti del filone utopistico-sociologico, Le torri dell’Eden di Renato Pastriniero (Fanucci, pp. 190, L. 6.000), per gli amanti di Farmer il suo ultimo Il distruttore (Nord, pp. 290, L. 5.000) e per i masochisti il Dramocles (Urania 974) di uno Scheckley che non si vuole maltrattare solo per riguardo al suo glorioso (ma quanto lontano!) passato, veniamo ad un ritorno atteso e graditissimo. Esce infatti in questi giorni in edicola Urania n. 976, edizione speciale argentata con l’ultima antologia di James G. Ballard (10 racconti tutti nuovi, compresi un paio di inediti) uscita in Inghilterra nel 1982 e tradotta per noi da Giuseppe Lippi: Mitologie del futuro prossimo. Ballard, dopo un periodo abbastanza lungo di prove non certo entusiasmanti (Condominium, Hello America) ritorna al suo tema di sempre, la regressione dell’uomo in una realtà psichica che prende via via il posto del mondo esterno, ci ritorna con la dimensione narrativa che gli è più congeniale, quella del racconto, e con una insolita radicalità. L’unico spazio che rimane all’uomo, sembra dire Ballard, è proprio questo percorso “all’indietro”, fino alle sue estreme conseguenze, fino alla negazione della vita, a una morte prima subita, poi accettata e comunque percorsa fino in fondo. Un libro da non perdere, che sembra riproporre temi oscuri ma persistenti della nostra cultura, A riprova, ecco un’altra iniziativa editoriale. Le edizioni Theoria, già note per un catalogo all’insegna della contaminazione fra scienza e fantasia, hanno da qualche mese mandato in libreria una nuova collana, “Riflessi”, che si propone di “disegnare la storia delle paure e delle ossessioni della cultura occidentale” attraverso testi di letteratura fantastica (gotico in particolare), cronache di processi, autobiografie e testi scientifici. Il progetto non appare forse molto chiaro: personalmente non ho capito per esempio, che cosa c’entrino con la collana le ultime divagazioni autobiografico-critiche di Oreste del Buono (La talpa di città), che peraltro si leggono volentieri. Raccomando però ugualmente questi volumetti dal formato ultra-tascabile e dal basso prezzo. Fra i titoli finora usciti mi sembrano più interessanti i testi minori di autori gotici o neo-gotici: L’anaconda di Matthew G. Lewis, per esempio (pp. 128, L. 6.000), La catena del destino di Bram Stoker (l’autore di Dracula), stesse pagine, stesso prezzo, e Il vampiro di John Polidori, segretario di Lord Byron, a cui talvolta il racconto fu attribuito. Di questo, che il primo testo letterario in assoluto in cui viene rielaborata la leggenda popolare del non-morto, bisogna però segnalare, per una di quelle bizzarrie non frequenti nel nostro mondo editoriale, un’altra edizione pressoché contemporanea, più costosa ma molto meglio curata, anche criticamente (John William Polidori, Il vampiro, a cura di Giovanna Franci e Rossella Mangaroni, con 22 illustrazioni, pp. XXXJJ-130, Studio Tesi, L. 15.000). Mi piace pensare che questo rinnovato interesse dell’editoria, e (si spera) anche dei lettori, per il gotico e la letteratura della paura abbia a che fare con gli anni in cui viviamo, con il fallimento delle utopie realizzate e la pervicace riproposizione (sotto varie forme) delle utopie progettate, ivi comprese le entusiastiche ideologie tecnocratiche che non ammettono di esserlo. Perciò, in questa estate 1984, reduce dal X Congresso italiano di fantascienza che si è tenuto a Montegrotto alla fine di maggio proprio nel nome di Orwell, e delle discussioni che lì abbiamo fatto con Giuseppe lippi e Nicoletta Vallorani e Leo Marchetti e tanti altri, mi permetto di consigliarvi la lettura in parallelo di due libri. Le ragioni dell’utopia le troverete egregiamente sostenute nella futurologia medievaleggiante di Notizie da nessun luogo (Garzanti, pp. 2444, L 7.000), esposte con la prosa un po’ magniloquente di quel curioso socialista ottocentesco inglese che era William Morris; le ragioni (e che ragioni!) dell’anti-utopia stanno invece nel recentemente ristampato Noi (Feltrinelli, pp. 160, L. 6.000) scritto tra il 1920 e il ’22 dallo scrittore e ingegnere russo Evgénij Zamiàtin con lo stile secco ed essenziale che si addice alla descrizione di un mondo in cui anche le persone si chiamano con un numero e lo Stato totale regola pubblico e privato. Un testo che ha ispirato non solo orwell ma anche (tanto per fare un altro nome) l’epopea swiftiana di Zinovev, Cime abissali. Ma intanto la tecnologia avanza, il mercato dei personal computer comincia a diventare grandino anche in Italia e, utopia o no, è bene tenersi informati. Fra i tanti testi introduttivi all’argomento mi sento di segnalarvi La vita elettronica (Garzanti, pp. 290, L. 16.000), non solo perché è di Michael Crichton, l’autore di Andromeda e Congo, ma perché è il libro di un utente di computer che si rivolge ad altri utenti, non pretende quindi di insegnare l’informatica ma solo un uso non dispersivo di una macchina che è ormai impossibile ignorare, e poi è naturalmente divertente (andate subito a vedere in che cosa un personal computer assomiglia a un maggiordomo inglese!). Chi invece voglia un’informazione serena, ma critica sulle conseguenze sociali dell’introduzione dell’informatica nel mondo del lavoro può vedere il recentissimo Lavoro e intelligenza nell’età microelettronica (Feltrinelli, pp. 136, L. 17.000) di Paola Manacorda, una delle poche persone in Italia che scrive di questi argomenti con sperimentata conoscenza dei problemi e senza nessuno schieramento preconcetto nelle file degli “apocalittici” o degli “integrati”.


sabato 16 gennaio 2021

Dall'archivio UAU: Una lettera all'editore Bertani - novembre 1980

 



Nota: Il documento programmatico per una nuova serie di Un'Ambigua Utopia allegato alla lettera verrà pubblicato in un prossimo post.

venerdì 15 gennaio 2021

Antonio Caronia: Festival teatrali

 


Linus luglio 1985

GUIDA RAGIONATA ALLE PRINCIPALI SCADENZE. Luglio è il mese in cui gli appassionati di teatro, quelli veri, vanno in giro ad annusare e carpire le novità delle novità, gli embrioni, a volte i germogli di quelle che saranno le dominanti (pacifiche o contrastate) della stagione successiva. Gli aficionados hanno già saputo tutto dalle pagine dei quotidiani, meticolosamente spulciate e ritagliate; per i distratti, o gli apprendisti esperti, o i curiosi, ecco una guida idiosincratica e ragionata delle principali scadenze. Il festival principe, fra i tanti in Europa, rimane quello di Avignone: la città francese è ancora il luogo di massima concentrazione estiva di teatro di tutti i tipi. Fra le grandi attrazioni di quest’anno la mastodontica riduzione del poema nazionale indiano, Mahabharata, che Peter Brook ha allestito dopo anni di studio: dura più di una notte, ci si siede alle 19 e si va via all’alba. Un regista ormai mitico, un repertorio mitologico e allegorico che non ha eguali al mondo, il fascino del teatro notturno; non occorre altro per stuzzicare i palati più esigenti. I quali, peraltro, possono essere ragionevolmente intrigati anche dall’ultimo spettacolo di Tadeus Kantor, Gli artisti, che crepino! Che conclude la “trilogia della memoria” iniziata con La classe morta e Wielopole-Wielepole. I più aggiornati lo hanno già visto nell’anteprima milanese del 14 giugno; gli altri possono telefonare allo 003390/829900 per prenotare posti, informarsi sul programma completo, sugli alberghi, camping e quanto altro interessi loro. Le date sono dal 6 al 31 luglio. Più concentrate le rassegne italiane. Qui da noi si usa dire, da qualche tempo, che i festival sono in crisi. Però si continuano a fare, e con un certo successo di pubblico. Chi non è stato, almeno una volta, per le strade a Sali e scendi di Santarcangelo, circondato da sacchi a pelo, piadine e tanti, tanti ragazzi? La cittadina romagnola ha visto passare, nelle sue estati, almeno due generazioni di spettatori più o meno esigenti, più o meno affascinati dal “nuovo” che si andava producendo nel teatro italiano ed europeo, e che a Santarcangelo con grande passione si consumava. Una parte di quel “nuovo”, oggi, forse non è più tale, e non solo per gli evidenti quindici anni di festival, ma anche perché le tendenze che vi hanno abitato hanno poi trovato altri spazi, o si sono esaurite. Quest’anno il direttore Roberto Bacci, con il sostegno di un comitato di studiosi come Claudio Meldolesi, Ferruccio Merisi e Ferdinando Taviani, propone dal 17 al 21 luglio una “Cittadella della cultura teatrale” centrata intorno a due appuntamenti: il teatro quasi iperrealista dei polacchi di Akademia Ruhu, ospiti tradizionali dei festival, e la sezione “Euritmie” in cui i Magazzini Criminali tentano il confronto fra il loro ultimo lavoro (Genet a Tangeri affiancato ad una nuova performance, Guevara e Fidel) che affronta con forza il tema del sacro, e quello di alcuni gruppi dalle origini diverse, come il Teatro della Valdoca, Società Raffaello Sanzio e Padiglione Italia, oltre a proposte di teatro ispirato più scopertamente alla danza o alle arti visive (Parco Butterfley, Enzo Cosimi, Tradimenti incidentali). Le informazioni allo 0541/620252. Santarcangelo non monopolizza però, come potrebbe apparire dai nomi, i diversi filoni di ricerca che si diramano dal tronco chiamato, qualche anno fa, della “nuova spettacolarità”. Troviamo infatti Falso Movimento, un gruppo caro al pubblico abituato al teatro “di confine” fra linguaggi diversi, nel programma del festival “Inteatro” di Polverigi, dal 6 al 13 luglio (071/906341). La giovane rassegna marchigiana ha ormai trovato un suo spazio preciso, meno affollato di quello di Santarcangelo, molto attento alle emergenze soprattutto straniere. Non è che gli italiani siano assenti (oltre a Coltelli nel cuore, da Brecht, di Falso Movimento, vedremo Giovanotti Mondani Meccanici, che dal fumetto tentano nuove vie, e altri gruppi nostrani): ma il programma proposto quest’anno da Roberto Cimetta e Velia Papa è decisamente sbilanciato verso l’estero. Ci sono ritorni attesi, come l’americano Squat Theatre, che anni fa entusiasmò con una rutilante Battaglia di Sirolo e vari e diversi gruppi di teatro-danza (le giapponesi Ariadone, mark Tompkins e altri), e gli inglesi di Hesitade and Demostrate con un teatro in cui suggerimenti letterari e macchine teatrali si scontrano in un accattivante agrodolce. E ci sono proposte inedite e stimolanti non di “video-teatro” (cioè di nastri video prodotti da gruppi teatrali) ma di uso del video nel e col teatro, con una commistione e un confronto fra ritmi del palcoscenico e ritmi del video: tre proposte diversissime, ma in questo convergenti, dei berlinesi F.D.G.O. (Relations-Chips), del francese Ligeon Ligeonnet (III,3, dall’Otello), dell’olandese Theater Mickery (Kidnap). Fra le nuove proposte di gruppi comunque già affermati (Santarcangelo) e le suggestioni di gruppi internazionali (Polverigi), una terza formula, rischiosa ma appassionante. “Arrivano dal mare!”, Festival dei burattini e delle figure di Cervia, ha affidato quest’anno ad Antonio Attisani l’organizzazione di un progetto speciale. Si chiama Verso l’alba, si svolge a Bagnocavallo (Ravenna) fra il 10 e il 20 luglio. Quattro nottate, dalla tarda serata fino al sorgere del sole, vedranno avvicendarsi altrettanti gruppi in una presentazione antologica della loro produzione. È un viaggio attraverso la notte, un percorso quasi di iniziazione alla ricerca di una dimensione forse perduta ma fortemente connaturata al teatro, un itinerario per gli spettatori che vogliono “scegliere” e non “essere scelti”. Una curiosa figura di Mercurio (un dio che in altri tempi accompagnava le anime nel loro viaggio nell’aldilà) introdurrà ogni sera agli spettacoli delle Albe di Verhaeren (Ravenna), Teatro Settimo (Settimo Torrinese), Teatro delle Briciole (Parma), Tam Teatromusica (Padova), Ticoteatro e Danio manfredini (Milano). Gli organizzatori scommettono che di tutto questo si riparlerà. I nottambuli chiamino, per le informazioni, lo 0544/39714 0 423119.

venerdì 8 gennaio 2021

Antonio Caronia: Una foresta di segni

 


Linus maggio 1984

“Dov’era la detective story prima che Poe inspirasse in essa il soffio vitale?”, si chiedeva nel 1911 sir Arthur Conan Doyle. Una domanda retorica, naturalmente, che il medico e studioso di spiritismo scozzese formulava solo per riconoscere al visionario Poe la paternità di un genere, e per situare il suo Sherlock Holmes in continuità con Auguste Dupin. La linea Dupin-Holmes viene ora illustrata da un gruppo di semiologi, storici, logici (Il segno dei tre. Homes, Dupin, Peirce. A cura di U. Eco e Th. A. Sebeok, Bompiani, pp. 314, L. 25.000), e il metodo dei due investigatori è accostato alle riflessioni filosofiche di Charles Peirce sulla cosiddetta “abduzione”. Termine un po’ repellente, per la verità, che indica però un tipo di ragionamento assolutamente rispettabile (la capacità di formulare congetture) e forse più adatto dei tradizionali modelli induttivo e deduttivo a rendere conto dell’effettivo procedere della conoscenza umana. Secondo alcuni autori dei saggi qui raccolti, insomma, il metodo del detective sarebbe affine addirittura al lavoro dello scienziato, che registra fatti magari insignificanti agli occhi del senso comune, formula ipotesi (o congetture) e le sottopone a verifica: Viene ripresa e argomentata in modo anche vivace una tesi non nuova, che cioè il genere giallo testimoni della lotta della ragione contro il caos di una realtà disordinata, per dare coerenza e intelligibilità a un insieme di avvenimenti e dati che, al di fuori di un intervento umano, non ne possederebbero. Il riferimento del lavoro del medico e al sapere della medicina come precursore della semiotica è peraltro esplicito in molti punti del libro (per esempio nel saggio di Sebeok). Ma ogni lettore di gialli sa che non è sempre così: il detective non ha sempre ragione della malattia sociale, a volte si limita a esserne un dolente e disincantato osservatore: Philippe Marlowe vs. Sherlock Holmes. E quando il detective non c’era? A parziale risposta alla domanda di Conan Doyle ricordata all’inizio (dov’era la detective story prima di Poe?) esce adesso la riproposta di un racconto di Hoffmann del 1819 (La signorina Scuderi, a cura di Maria Paola Arena, ed. Theoria, pp. 92, L. 10.000) che testimonia l’emergere del genere “giallo” dalla grande corrente del romanzo “nero”, qualche decennio prima di Poe. La narrazione è costruita secondo i classici dettami del racconto del mistero, ma senza il ricorso al soprannaturale tipico del “gotico” inglese. Una strana catena di delitti notturni e furti di gioielli sconvolge la Parigi del Re Sole. Un innocente viene arrestato. Ma non è l’acume di un investigatore, solo il caso, a porre fine ai crimini; e non è la forza della ragione, ma il sentimento e l’umanità di Mademoiselle de Scuderi consentono di liberare l’innocente. Una novella insolita per Hoffman, perché non fa alcun ricorso a procedimenti fantastici, ma pienamente hoffmanniana quanto a tematiche: il germe della follia, l’io diviso tengono in scacco la razionalità dominante (il tribunale segreto) e solo una quieta figura di outsider (la signorina Scuderi del titolo) ricompone l’armonia. Per giungere più vicino a noi, neppure per Fernando Pessoa il mistero è padroneggiabile con la ragione, Herr Prosit, presidente della Società di Gastronomia di Berlino, sfida i suoi invitati a indovinare gli ingredienti straordinari della sua Cena molto originale (F. Pessoa, Due racconti del mistero, a cura di Amina di Munno, pref. di A. Tabucchi, ed. Herodote, pp. 74, L. 7.000). Nessuno ci riuscirà, e sarà lo stesso protagonista, in un parossismo di furia, a rivelare l’orribile segreto della cena e a subire la reazione degli invitati stravolti. “Ogni cosa era possibile, ogni cosa vagamente probabile, ogni cosa ragionevolmente improbabile, impossibile; tutto ciò forniva un motivo di sospetto, di dubbio, di disorientamento”. È stato scritto che tutta la letteratura non sarebbe altro che il racconto, vagamente travisato e irriconoscibile di un originario senso di colpa di fronte a un delitto originario indicibile e per metà dimenticato. Ogni enigma non farebbe che alludere a esso. Per l’enigmista Pessoa, al contrario che per Sherlock Holmes, il mondo è sì una grande foresta di segni, ma indecifrabili.


venerdì 1 gennaio 2021

Antonio Caronia: Scienza, coscienza e fantascienza

 


Linus giugno 1982

Abbiamo passato anni a tentare di convincere il pubblico che la fantascienza non è scienza degenerata, e che non è dal punto di vista della plausibilità scientifica che va presa in considerazione e giudicata; che è una forma di narrativa, addirittura (abbiamo scritto in parecchi) un “genere letterario”. Ed ecco un libro, di cui è imminente l’uscita nella collana “Le guide dell’Espresso” che si intitola La scienza della fantascienza. Che succede? Ci rimangiamo tutto? Niente affatto. Non dovete prendere l’osservazione precedente come una critica al libro e al suo autore, Renato Giovannoli; non avrei titoli per farne, del resto, essendo appena uscito sul n. 6 di “Biblioteca e territorio”, bollettino di informazione della Provincia di Milano, un mio articolo dal titolo clamorosamente simile (“Le scienze della fantascienza”). (1) Dirò anzi che l’idea delle “Guide dell’Espresso” mi sembra apprezzabile, e il lavoro di Giovannoli complessivamente convincente. Le tre proposizioni che l’autore intende dimostrare sono: 1) che “la fantascienza produce teorie scientifiche autonome” (p. es. la macchina del tempo, l’iperspazio, etc…); 2) che “la logica interna alla fantascienza si sviluppa nel tempo attraverso vere e proprie rivoluzioni scientifiche” (cioè nello stesso modo in cui, secondo alcuni storici e filosofi della scienza, si sviluppa la scienza ufficiale, vedi: La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, Einaudi); 3) che “la fantascienza ingloba continuamente frammenti di dibattito scientifico “reale”, e anche le scienze “reali” non sembrano del tutto immuni dall’influenza della cultura fantascientifica”. Mi sembra che almeno le prime due proposizioni siano abbastanza ragionevoli, facilmente dimostrabili, e che il materiale fornito da Giovannoli le supporti adeguatamente. L’aspetto più godibile e divertente del libro è in effetti questa carrellata sulle figure “classiche” della fantascienza, l’alieno, il robot, l’androide, il cyborg, i viaggi nel tempo, gli universi paralleli, il superuomo, i mondi a più dimensioni e l’iperspazio, rivisitate e descritte come teorie scientifiche, con tanto di armamentario assiomatico, di dimostrazioni, di paradossi. Sulla terza affermazione, bisogna intendersi. A me pare che la comunità scientifica, in genere, abbia ben poca coscienza di un interscambio, sia pure limitato, tra scienza e fantascienza: ma è indubbio che certe similarità di struttura messe in luce nel libro tra scienze “reali” e scienze fantascientifiche siano suggestive. Io preferisco comunque continuare a pensare che il legame più stretto, anche se a volte sotterraneo, fra scienza e fantascienza sia quello dell’epistemologia, cioè della riflessione sulla scienza, della teoria della scienza: e che sia possibile leggere tutta la fantascienza come un “metafora epistemologica”, come una traduzione delle teorie scientifiche e delle visioni della scienza dominanti nei vari periodi nell’immaginario collettivo (è il problema che Giovannoli affronta nel penultimo capitolo). Se c’è un difetto (almeno dal mio punto di vista) in La scienza della fantascienza è quello della ristrettezza dei punti di riferimento fantascientifici: dalle citazioni (peraltro abbondantissime) Giovannoli appare legato prevalentemente alla fantascienza degli anni d’oro (Asimov, Heinlein, Van Vogt) e a quella degli anni Cinquanta (Sheckley soprattutto). Non discuto il gusto naturalmente: ma mi sembra difficile parlare degli universi paralleli senza citare Farmer, fare un capitolo sui neopositivisti e le storie future senza nominare la Le Guin, parlare del “potere della logica” senza ricordare la “metalogica” di Delany. Ma è una pecca, in fondo, minore, in un libro vivace, unico, per il momento, nel suo genere, e la cui lettura è consigliabile soprattutto a chi sa poco o nulla di scienza e di fantascienza (per gli altri, va da sé, l’indicazione è scontata). Resta il problema: perché un libro del genere è stato scritto oggi, e non dieci anni fa? Hegelianamente risponderemo: perché questo è il suo momento. Perché, da un lato, la fantascienza sta cominciando a vincere la sua battaglia, c’è sempre più gente disposta a leggerla per divertirsi e insieme per trovarvi pronunciamenti sul mondo più interessanti di quelli che si trovano su certi libri di filosofia e di sociologia, per non parlare dei romanzi di Moravia; dall’altro lato la scienza sta cominciando a perdere la sua “aurea”, viene cioè accettata sempre più perché garantisce delle buone e efficaci traduzioni pratiche, nella veste di tecnologia, e sempre meno perché dice una “verità” incontrovertibile sul mondo. Come dice Thom, citato da Giovannoli, ogni buona geometria è una magia, e in questo non c’è nulla di disonorevole per la scienza, ma solo la rimozione di una incrostazione ideologica che ce ne restituisce un’immagine più simpatica, quella di un gioco: le cui regole, peraltro, non sono fisse e immutabili. Che non ci sia più bisogno, insomma, di difendere la fantascienza dall’accusa di essere “cattiva scienza”, che scrivere e pubblicare un libro sulla scienza della fantascienza non sia considerato una cosa fuori dal mondo, è almeno confortante. Mi sta venendo un dubbio: siamo per caso finiti senza accorgercene, in un universo parallelo?

(1) https://www.academia.edu/344383/Scienza_e_fantanzascienza