Linus agosto 1984
Impazza un’estate lungamente attesa, ed eccomi a
segnalarvi qualche distensiva, evasiva anche, ma non banale lettura canicolare:
sempre fra quelle, s’intende, che abbiano attinenza col nostro genere, o
supergenere, preferito, il fantastico. Cominciamo (un dubbio contrario non mi
sfiora neppure) con l’autore nuovo più interessante arrivato da noi quest’anno.
Se ancora non l’avete fatto, e disponete di almeno quattro o cinque pomeriggi
da dedicare alla lettura, dovete assolutamente procurarvi I figli della mezzanotte, terzo romanzo, ma primo tradotto in
italiano, dell’indiano Salman Rushdie (Garzanti, pp. 518, L. 22.000). Rushdie
scrive in inglese, per la buona ragione che vive a Londra dall’età di 14 anni
(adesso ne ha 37), e ci sommerge, ci inonda, ci ingolfa con l’autobiografia di
Saleem Sinai, portavoce e “coordinatore” della Midnight Children Conference
(Conferenza dei figli della mezzanotte). Costoro sono i bambini nati appunto
attorno alla mezzanotte del 15 agosto 1947, giorno di proclamazione dell’India
come Stato indipendente: ognuno di loro ha, per questa ragione, poteri
straordinari, e tutti insieme possono collegarsi telepaticamente tramite
Saleem. I giorni di questa “Conferenza” sono brevi, ma segneranno profondamente
la vita di ognuno di loro e in primo luogo quella di Saleem, che nel libro + il
martellante e invadente io narrante: tutta la narrazione, che parte dalla vita
del nonno di Saleem per arrivare alla sua nascita e alla storia della sua
“ascesa e caduta”, se così si può dire, sembra in effetti preparare l’ingresso
sulla scena dei fatidici bambini e lo straordinario intreccio tra vite peivate
e storia della nazione indiana che essi realizzano, fino allo sconvolgente
epilogo che, per carità di lettura, vi nascondiamo. La filosofia narrativa di
Rushdie è racchiusa tutta in queste due sentenze: “Per capire una sola vita
dovete inghiottire il mondo” e “Alla forma non si può sfuggire”. I critici
hanno paragonato I figli della
mezzanotte a Cent’anni di solitudine
di Garcia Marquez, a Augie March di
Bellow, hanno scomodato persino Laurence Sterne e, il suo Tristam Shandy. Io aggiungerei la storia di un’altra turbolenta e
mirabolante iniziazione alla vita, quella raccontata in Il grande tiratore di Vonnegut, di cui ho parlato il mese scorso su
queste stesse pagine. Con questa fondamentale differenza: che tanto Vonnegut
sottrae particolari alla narrazione, giocando su un sapiente uso ironico
dell’ellissi (ed è il suo biglietto da visita), quando Rushdie ne accumula, di
particolari, in una ridondanza barocca e stordente, in una spudorata esibizione
del meccanismo narrativo che ne fa un romanziere, se possibile, ancora più
“postmoderno” di Vonnegut. Postmoderno e gioiosamente materialistico, se alla
fine del romanzo scopriamo che Saleem Sinai ha costruito, un equivalente
gastronomico della sua autobiografia, 31 vasetti di mostarda indiana con dentro
i sapori della sua vita, uno per ogni capitolo, uno per ognuno dei suoi anni…
Sempre in tema di pseudo-autobiografie, prosegue la narrazione in prima persona
del viaggio-ricerca di Severian, che costituisce il ciclo in quattro volumi del
“Libro del nuovo sole” di Gene Wolfe. Nella terza tappa, l’ultima finora
disponibile (La spada del littore,
Nord, pp. 270, L. 10.000), Severian ha finalmente raggiunto la città di Thrax,
sua meta nel precedente volume, ma se ne allontana per nuove peregrinazioni. Ho
già consigliato la lettura di questo ciclo, ma rimando ancora una volta un
discorso più compiuto a quando l’ultimo volume, La cittadella dell’autarca (la cui uscita è peraltro imminente)
scioglierà i non pochi enigmi accumulati nei primi tre. Il ciclo di Wolfe è,
grosso modo, collocabile nel filone “fantasy”. Rimaniamo quindi nei paraggi e
vediamo che cosa ci riserba quest’estate
la fantascienza. Nel settore classici in primo luogo i mai dimenticati Cristalli sognanti di Theodore
Sturgeon, che ricompaiono nella collana Cosmo Oro riutilizzando la vecchia
traduzione di Malaguti (Editrice Nord pp. VIII-210, L 8.000): sono pochi gli
appassionati che non l’hanno letto, ma ai neofiti non deve mancare questa
affascinante contaminazione tra il mondo dei freaks e la tematica del
superuomo. Mondadori ci offre, nella collana “I Massimi”, un trittico di
Clifford Simak, che non è per nulla uno dei miei autori preferiti, ma ha un
posto ineliminabile nel cuore dei fan (Anni
senza fine, Camminavano come noi, Oltre l’invisibile, pp. 420, L. 18.000):
l’evento è memorabile perché il primo romanzo, uscito varie volte tagliatissimo
su “Urania”, è ora ripristinato in versione integrale). Proseguendo nella scia
delle antologie d’autore, inaugurata dai due volumi di “Cosmolinea B” di
Frederic Brown, ecco negli “Oscar fantascienza” i quattro volumi di Shock di Richard Matheson (pp.784, L.
18.000), praticamente l’opera omnia, quanto ai racconti, dello sceneggiatore di
Duel, e in “Urania blu” La signora degli scarafaggi di Thomas
Dish (L. 3.000). E scusate se è poco. Per quanto riguarda le novità, il tema
del passato dell’umanità e del viaggio nel tempo sembra avere largo spazio,
visto che lo si trova in due libri peraltro molto diversi, e cioè in La terra dai molti colori della nuova
autrice, Julian May (Nord, pp. 460, L. 12.000), primo volume di una “Saga
dell’esilio del Pliocene” di cui molto si è discusso in America negli anni
scorsi, e Il tempo è il solo nemico (Nord,
pp. 286, L. 8.000) di Michael Bishop, autore ben poco pubblicato da noi ma
notevole per la presenza di un vivo interesse antropologico in una solida
cornice da “space opera”. Dopo aver ancora segnalato, per gli amanti del filone
utopistico-sociologico, Le torri
dell’Eden di Renato Pastriniero (Fanucci, pp. 190, L. 6.000), per gli
amanti di Farmer il suo ultimo Il
distruttore (Nord, pp. 290, L. 5.000) e per i masochisti il Dramocles (Urania 974) di uno Scheckley
che non si vuole maltrattare solo per riguardo al suo glorioso (ma quanto
lontano!) passato, veniamo ad un ritorno atteso e graditissimo. Esce infatti in
questi giorni in edicola Urania n. 976,
edizione speciale argentata con l’ultima antologia di James G. Ballard (10
racconti tutti nuovi, compresi un paio di inediti) uscita in Inghilterra nel
1982 e tradotta per noi da Giuseppe Lippi: Mitologie
del futuro prossimo. Ballard, dopo un periodo abbastanza lungo di prove non
certo entusiasmanti (Condominium, Hello America) ritorna al suo tema di
sempre, la regressione dell’uomo in una realtà psichica che prende via via il
posto del mondo esterno, ci ritorna con la dimensione narrativa che gli è più
congeniale, quella del racconto, e con una insolita radicalità. L’unico spazio
che rimane all’uomo, sembra dire Ballard, è proprio questo percorso
“all’indietro”, fino alle sue estreme conseguenze, fino alla negazione della
vita, a una morte prima subita, poi accettata e comunque percorsa fino in
fondo. Un libro da non perdere, che sembra riproporre temi oscuri ma
persistenti della nostra cultura, A riprova, ecco un’altra iniziativa
editoriale. Le edizioni Theoria, già note per un catalogo all’insegna della
contaminazione fra scienza e fantasia, hanno da qualche mese mandato in
libreria una nuova collana, “Riflessi”, che si propone di “disegnare la storia
delle paure e delle ossessioni della cultura occidentale” attraverso testi di
letteratura fantastica (gotico in particolare), cronache di processi,
autobiografie e testi scientifici. Il progetto non appare forse molto chiaro:
personalmente non ho capito per esempio, che cosa c’entrino con la collana le
ultime divagazioni autobiografico-critiche di Oreste del Buono (La talpa di città), che peraltro si
leggono volentieri. Raccomando però ugualmente questi volumetti dal formato
ultra-tascabile e dal basso prezzo. Fra i titoli finora usciti mi sembrano più
interessanti i testi minori di autori gotici o neo-gotici: L’anaconda di Matthew G. Lewis, per esempio (pp. 128, L. 6.000), La catena del destino di Bram Stoker
(l’autore di Dracula), stesse pagine, stesso prezzo, e Il vampiro di John Polidori, segretario di Lord Byron, a cui
talvolta il racconto fu attribuito. Di questo, che il primo testo letterario in
assoluto in cui viene rielaborata la leggenda popolare del non-morto, bisogna
però segnalare, per una di quelle bizzarrie non frequenti nel nostro mondo
editoriale, un’altra edizione pressoché contemporanea, più costosa ma molto
meglio curata, anche criticamente (John William Polidori, Il vampiro, a cura di Giovanna Franci e Rossella Mangaroni, con 22
illustrazioni, pp. XXXJJ-130, Studio Tesi, L. 15.000). Mi piace pensare che
questo rinnovato interesse dell’editoria, e (si spera) anche dei lettori, per
il gotico e la letteratura della paura abbia a che fare con gli anni in cui
viviamo, con il fallimento delle utopie realizzate e la pervicace
riproposizione (sotto varie forme) delle utopie progettate, ivi comprese le
entusiastiche ideologie tecnocratiche che non ammettono di esserlo. Perciò, in
questa estate 1984, reduce dal X Congresso italiano di fantascienza che si è
tenuto a Montegrotto alla fine di maggio proprio nel nome di Orwell, e delle
discussioni che lì abbiamo fatto con Giuseppe lippi e Nicoletta Vallorani e Leo
Marchetti e tanti altri, mi permetto di consigliarvi la lettura in parallelo di
due libri. Le ragioni dell’utopia le troverete egregiamente sostenute nella
futurologia medievaleggiante di Notizie
da nessun luogo (Garzanti, pp. 2444, L 7.000), esposte con la prosa un po’
magniloquente di quel curioso socialista ottocentesco inglese che era William
Morris; le ragioni (e che ragioni!) dell’anti-utopia stanno invece nel
recentemente ristampato Noi
(Feltrinelli, pp. 160, L. 6.000) scritto tra il 1920 e il ’22 dallo scrittore e
ingegnere russo Evgénij Zamiàtin con lo stile secco ed essenziale che si addice
alla descrizione di un mondo in cui anche le persone si chiamano con un numero
e lo Stato totale regola pubblico e privato. Un testo che ha ispirato non solo
orwell ma anche (tanto per fare un altro nome) l’epopea swiftiana di Zinovev, Cime abissali. Ma intanto la tecnologia
avanza, il mercato dei personal computer comincia a diventare grandino anche in
Italia e, utopia o no, è bene tenersi informati. Fra i tanti testi introduttivi
all’argomento mi sento di segnalarvi La
vita elettronica (Garzanti, pp. 290, L. 16.000), non solo perché è di
Michael Crichton, l’autore di Andromeda e
Congo, ma perché è il libro di un
utente di computer che si rivolge ad altri utenti, non pretende quindi di
insegnare l’informatica ma solo un uso non dispersivo di una macchina che è
ormai impossibile ignorare, e poi è naturalmente divertente (andate subito a
vedere in che cosa un personal computer assomiglia a un maggiordomo inglese!).
Chi invece voglia un’informazione serena, ma critica sulle conseguenze sociali
dell’introduzione dell’informatica nel mondo del lavoro può vedere il
recentissimo Lavoro e intelligenza
nell’età microelettronica (Feltrinelli, pp. 136, L. 17.000) di Paola
Manacorda, una delle poche persone in Italia che scrive di questi argomenti con
sperimentata conoscenza dei problemi e senza nessuno schieramento preconcetto
nelle file degli “apocalittici” o degli “integrati”.