lunedì 20 novembre 2023

Il Fantasma della Verità - Introduzione

 


Introduzione

Occupare l’immaginario

Come auspicava Antonio Caronia alla fine della sua avventura terrestre


Questo volume è stato curato da Un’Ambigua Utopia (UAU) e da Andrea Bonato, Loretta Borrelli, Alberto “Abo” Di Monte e Giuliano Spagnul.

Ancora una volta la navicella di UAU ospita a bordo degli umani per compiere un viaggio, un viaggio immaginario che vuole creare figure complesse tirando i fili di una matassa di parole e discorsi che hanno riguardato Philip K. Dick in questi ultimi decenni.

La scelta di usare questo vecchio strumento, nato come rivista all’interno del movimento degli anni settanta, ha l’intento di immaginare una possibile, per quanto difficile, pratica utopica: per dirla con Primo Moroni quella di diffondere saperi senza fondare poteri.

L’esperienza e la storia di “Un’Ambigua Utopia”, ma non solo di questa se pensiamo al pensiero e alla vita di tante/i compagne/i che non ci sono più, e che ci mancano, non può essere riportata in vita come negazione ed esorcizzazione della morte. Un’esperienza finita, una vita finita, possono e devono essere usate in continuità, non tanto della loro storia che si è interrotta, ma del movimento alla cui storia hanno contribuito e a cui possono ancora contribuire per il presente e, si spera, per il futuro.

UAU non può che situarsi all’interno del movimento (così come si manifesta nella sua contingenza attuale) continuando a rimanere radicalmente altro da qualunque aggregato di appassionati di un generico mondo del fantastico.

Con tutta la delicatezza e la consapevolezza, quindi, di essere ospiti di uno strumento non nostro e che speriamo di lasciare a disposizione di altre/i arricchito di nuovi saperi, abbiamo intrapreso anche quest’avventura dentro il mondo di Dick.


Mi sembra giunto il momento, a trent’anni dalla morte, di tentare un salto di qualità nella lettura diDick. E riconoscere a questo autore frenetico e polimorfo, irrequieto eppure già “classico”, la qualifica che gli spetta: quella di narratore-filosofo. Antonio Caronia, 2012


Da qui siamo partiti, con questa presa di posizione abbiamo proposto il confronto in un ciclo di incontri finalmente non più virtuali. Al di fuori dalla contesa di chi privilegia la visione critica di Dick verso un mondo sempre più distopico e allucinante da cui pare impossibile immaginare una via d’uscita; o di chi lo vede come critico di una fantascienza ingenua, e quindi teso a innovarla e a traghettarla verso una fase matura e adulta (da genere popolare a letteratura alta); a chi infine lo vuole scrittore autentico, autore mainstream, che nulla o poco deve a quel genere che lo ha ospitato e protetto (permettendogli una libertà che altrove non gli era concessa) ma che lo ha anche relegato dentro gli angusti margini di un mondo di pura evasione, disimpegnato quanto infantile.

Fuori da questi schemi abbiamo cercato un nuovo punto di vista che privilegi l’aspetto più filosofico del suo pensiero. Quello meno considerato perché lontano dal formalismo accademico così connotato di pensiero astratto e avulso dalla vita concreta. Con Philip K. Dick pensiamo di aver trovato un buon compagno di viaggio per cercare la filosofia del vivere la vita, per ciò che è e che è in grado di darci. Insieme a tutti quei piccoli esseri umani, artigiani del vivere e del fallire, ma sempre del ricominciare che popolano le sue narrazioni. E abbiamo scoperto che in tutto questo panorama, privo di qualunque segno di speranza, alberga qualcosa che si può ancora definire gioia. Un umore non programmabile con il “Regolatore d’umore Penfield”, come in Gli androidi sognano pecore elettriche?, ma che risulta ben più reale e per nulla illusorio. Perché la realtà, nel mondo di Dick, non ha un futuro univoco. E questo non può che aprire al gioioso ricercare, insieme ad altri, le possibili alternative di nuovi mo(n)di dell’esistere (come suggerisce Alberto “Abo” Di Monte più avanti). E se vale per il suo mondo, perché mai non dovrebbe valere anche per il nostro? Cosa può voler dire una presa dickiana sul nostro mondo? C’è forse una capacità per comprendere maggiormente la realtà guardandola attraverso occhi così caleidoscopici o, forse, stiamo prendendo un abbaglio e ha ragione Nicoletta Vallorani a dirci che Dick intuisce ma non comprende? La discussione è aperta, ma forse potremmo avanzare l’idea che il termine comprendere può avere due connotazioni molto diverse tra loro: quella di stampo illuminista che pretende con la conoscenza di prendere il mondo, e quello di stampo, potremmo dire harawayano, in cui comprendere vuol dire modificare il nostro modo di concettualizzare la realtà. E chi più di Dick? Caronia ha parlato della capacità di Dick di annusare i suoi tempi. Non è la semplice intuizione che si vorrebbe a un livello inferiore della comprensione. L’annusare parte dal corpo, è qualcosa di profondo, non ha nulla di limitato.

Sono molti gli spunti che vengono fuori da questa matassa di fili di discorsi poco organizzati tra loro ma, evidentemente, piuttosto ricchi e densi. È così che il rimprovero che Edoarda Masi fa a Dick di ricercare una via di fuga piuttosto che una via di uscita ci porta al pensiero negativo di Mark Fisher. Ma è poi così vero? Indubbiamente siamo di fronte all’assenza di una qualsivoglia utopia, in una qualche parte, che si possa prima o poi, o anche molto poi, raggiungere. Ma è pur vero che Dick ha una sua personale utopia, che come dice Caronia, lo accomuna, in qualche modo, con le avanguardie artistiche dei primi del Novecento e che unisce la sua opera con la sua vita.

La ribellione contro la distanza, la separazione tra arte e vita. Ritorniamo quindi a una filosofia per la vita e non viceversa. La svolta mistica o patologica, come la vede Edoarda Masi, ma anche come l’ha vista Ursula K. Le Guin, della sua ultima produzione potrebbe farci ricredere, almeno in parte, sulla sua lucidità e sulla sua capacità di quel comprendere che abbiamo pensato di attribuirgli, forse troppo generosamente. Ma anche a questo proposito Caronia è illuminante e va d’accordo con Pagetti (anche se Pagetti è ben più moderato) nel considerarlo come uno che non ha mai abbandonato una fiducia nella ragione pur con tutti i limiti che lui stesso riconosceva. E questo fino alla fine. Altro che svolta mistica, in lui c’è il coraggio di un materialismo dalle spalle larghe capace di comprendere anche una visione metafisica, visione che, del resto, sta alla base di qualunque premessa scientifica, anche se ovviamente sempre esorcizzata.

Reduci dall’ambigua Utopia del Novecento, giovani e vecchi, studiosi o solo appassionati, ci siamo ritrovati nella comune sfida di pensare che questi quarant’anni fossero da intendersi passati non senza ma piuttosto con lui. Dick ha continuato a dirci quanto il mondo reale, in cui siamo calati, ci sia imposto come una costruzione che esula dalla nostra possibilità di accettare o rifiutare; ma, ci dice anche che per tutti noi rimane comunque ancora qualcosa da fare. C’è sempre uno spazio, un interstizio in cui poter agire e interagire con gli altri nostri simili, e anche dissimili.

Dick è un antidoto (la sua opera è la risposta all’enigma del significato di Ubik) alla rassegnazione verso una realtà che si vuole immutabile, quanto al delirio di onnipotenza di un umanesimo accecato dalla ricerca ossessiva di un’essenza autenticamente umana.


lunedì 8 maggio 2023

Antonio Caronia: Introduzione a I libri del Possibile

 


Quando si parla di fantascienza fuori dalle riviste o dalle pubblicazioni specializzate non si sa mai bene che pesci pigliare. La ragione principale è che non si sa mai a chi si parla: a lettori abituali di fantascienza, a lettori occasionali o a gente che ne ha soltanto sentito parlare? Il destinatario del discorso, in questo caso, è doppiamente importante. Nessun settore della letteratura di consumo, forse, divide tanto la gente. Di solito si passa, senza zone intermedie, dall'esaltazione dell'appassionato alla denigrazione di chi, su altri argomenti, sarebbe soltanto indifferente. Ciò che per gli uni è divertente, splendido, esaltante, profondo, avvincente (le varie categorie di lettori abituali potranno scegliere il loro aggettivo preferito), per gli altri è noioso, puerile, superficiale, inutilmente iperbolico, inverosimile. Inutile dire che, se le critiche aprioristiche sono sempre ingenerose e spesso contraddittorie o fuori bersaglio, le lodi entusiastiche sono a volte eccessive e fuori misura.

Noi dunque, per fare l'elogio di questi libri così apparentemente bizzarri, e rimanendo nel dubbio sui destinatari di questo catalogo, ci manterremo su una posizione mediana, e ci limiteremo ad affermare e ad argomentare che la fantascienza rappresenta la sintesi più completa e rigorosa delle culture e delle civiltà umane in senso tanto storico quanto descrittivo. Non diremo nulla più di questo, anche se spesso ci si aspettano elogi più superlativi, iperboli più smaglianti, e più smaccati abbellimenti della realtà dagli elogi funebri. Sì, perché dimenticavamo che l'altra cosa che diremo della fantascienza è che essa è praticamente morta o, se ancora vivacchia, è proprio moribonda: il che, però, è uno splendido sintomo della sua ottima salute.

Il fatto che una forma di letteratura popolare rechi in sé tracce vistose della civiltà che la prodotta, dei sistemi politici e sociali dominanti, anche dei dibattiti culturali “alti” che si erano svolti o si svolgevano apparentemente mille miglia sopra di essa, non è una novità (basta pensare per esempio a tutta la letteratura sulla fiaba). Anche se c'è voluto molto tempo per capire e interpretare quelle tracce che, proprio per la loro vistosità, come la lettera rubata di Poe, si sono sottratte a lungo allo sguardo degli studiosi. Perché questa caratteristica sia così spiccata nel caso della fantascienza, è invece qualcosa che ha a che fare con le circostanze storiche della sua nascita, con la sua grande abilità nell'intrattenere rapporti con generi letterari, colti e popolari, che l'hanno preceduta, con la pienezza della sua adesione alle condizioni nuove in cui si andava strutturando la vita umana all'inizio di questo secolo e cioè la presa del potere da parte delle scienze pure e applicate.

Quando la fantascienza nasce come genere “commerciale”, e perciò immediatamente riconoscibile, sulle pagine delle riviste popolari nell'America degli anni Venti, ha già alle spalle i “romanzi scientifici” di Wells e i “viaggi straordinari” di Verne, ma anche le immersioni nei mondi esotici e primitivi di Haggard e di E. R. Burroughs, il creatore di Tarzan, le visioni delle “terre dimenticate dal tempo” di Conan Doyle. Fino dai suoi inizi dichiara dunque i suoi debiti verso la tradizione colta e quella popolare, le miscela, le integra e ripercorre poi, a ritroso, tutto il lato notturno della narrativa ottocentesca. Poe e Hoffmann e le storie dell'orrore e il romanzo gotico del primo romanticismo, fino al “racconto filosofico” e al romanzo utopistico, e per suo tramite al racconto di viaggi e alle più antiche storie d'avventure dell'umanità, i miti.

Passa certo attraverso inconcepibili rozzezze, ingenuità ridicole, sentimentalismi da quattro soldi: impiega decenni a recuperare esperienze già compiute e bruciate dalle avanguardie storiche dell'inizio del secolo, banalizza sistemi filosofici e ardite speculazioni sullo spazio e sul tempo. Ma ha sempre, dalla sua, lo straordinario coraggio di chi come diceva Benjamin, “si pronuncia senza riserve a favore dello stato di cose presente, ma non nutre alcuna illusione su di esso”. È una letteratura onnivora, adolescenziale perché tale è l'umanità e la Storia di cui parla. Comprende che la scienza e le sue applicazioni sono lo scenario essenziale della nuova (epoca...) epoca, ma non vuole fare mai – a dispetto delle intenzioni dei suoi primi pionieri – della divulgazione scientifica: assume la scienza, pura e applicata, per quello che essa realmente è, la più potente forza di modificazione dell'immaginario collettivo. E infatti non crea personaggi, nei suoi libri, ma immagini e paesaggi. È fuorviante leggerla come “letteratura di idee” o come “mito del XX secolo”, perché non conserva, della classica letteratura di idee o del mito, l'atteggiamento partecipativo delle culture antiche, o di quella illuministica che quelle letterature hanno prodotto. È vero che sembra assolvere, come aveva già notato Sergio Solmi, alcune funzioni sociali che erano state proprie volta a volta, del mito classico, delle epopee nazionali, del “racconto filosofico”: ma senza nessuna nostalgia delle “grandi narrazioni”, senza nessuna pretesa di fondare alcunché, neppure a livello di ideologia popolare o di divulgazione di idee. Ecco perché le ideologie politiche dei suoi autori hanno potuto attraversarla e lasciarla tale e quale. La fantascienza ha avuto la fortuna di nascere nell'ultima stagione del mito dell'espansione illimitata della produzione e nel paese che sopra tutti lo ha nutrito e incarnato, e di vivere la parabola discendente, la frammentazione, di quel mito e di quella società, da forma letteraria “bassa” e non da dentro le convulsioni della cultura “alta”.

Ecco perché riesce a restituirci le stesse fotografie delle rovine, ma con l'occhio disinvolto, né allegro né triste, di chi non lavora a preparare nessun futuro.

La fantascienza è un gigantesco repertorio dell'immaginario contemporaneo, una massiccia raccolta di studi sulla psicologia dell'uomo che verrà, un'esplorazione sistematica e vorticosa dei paesaggi che qualcuno, dopo di noi, abiterà. Questa è la ragione della sua morte. Di questo gigantesco repertorio, in cui la metafora è morta e le tecniche narrative sono esse stesse i contenuti di ogni possibile “senso del bello”, si nutre tutta la produzione culturale contemporanea, a cominciare dal cinema che ne è l'erede più conseguente. L'invito che vi rivolgiamo è perciò ad un percorso archeologico nei meandri di una forma letteraria e narrativa che si è dilatata fino a fagocitare e a comprendere l'intero universo culturale: non solo il passato, ma anche il futuro. Perché questi libri, in fondo, non sono altro che le vestigia delle narrazioni di domani.

(Antonio Caronia: Introduzione a “I libri del Possibile” Proposta bibliografica per una mostra mercato itinerante. Provincia di Milano, settembre 1982.)


domenica 30 aprile 2023

Antonio Caronia: L'astuta follia di Don Chisciotte

 


La realtà si presenta oggi, alla nostra sensibilità ipermoderna, come un'entità frammentaria, conoscibile localmente ma inafferrabile globalmente, oggetto di costante negoziazione intersoggettiva. Ma per avviare il processo che ha portato la realtà a diventare ciò che è oggi, la modernità ha dovuto, fin dai suoi inizi, operare alcune cesure e alcuni ribaltamenti di prospettiva radicali. Fra quelle cesure e quei ribaltamenti possiamo annoverare il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, pubblicato in Spagna all'inizio del XVII secolo. Possiamo farlo selezionando, fra le letture che ne sono state fatte nei secoli seguenti, quelle che mettono in primo piano appunto il problema della costituzione della realtà come accordo intersoggettivo, e che quindi affrontano il tema della follia di Don Chisciotte non tanto e non solo come problema di “patologia”, quanto come problema (per usare una terminologia foucaultiana) di costituzione di un “discorso”.

Nella storia di questo hildago 'middle class' - se così si può dire - affascinato dalle imprese dei cavalieri erranti, che scambia i mulini a vento per giganti, una bacinella da barbiere per l'elmo di Mambrino, e un'ordinaria contadinotta per la grande dama Dulcinea del Toboso, suo grande amore e musa ispiratrice, più di una volta si è voluto vedere un'apologia della libertà del soggetto di fronte ai vincoli della prosaica 'realtà', le cui ragioni nel romanzo, sarebbero rappresentate - oltre che dal curato, dal barbiere e da Sansone Carrasco, borghesi ante litteram e desiderosi di ricondurre il cavaliere alla ragione - dall'alter ego Sancho Panza, contadino materialista e suo fedele scudiero. Don Chisciotte sarebbe, secondo la lettura romantica, un 'eroe dell'ideale'. Una lettura del genere non resse a lungo, almeno per il ruolo di Sancho i più attenti lettori si avvidero già nell'Ottocento dell'osmosi che si crea tra il mondo della follia di Don Chisciotte e quello dello scudiero. Ma non regge neppure l'identificazione tra follia e libertà. La follia di Don Chisciotte è una follia molto particolare. Per tutto il romanzo, sia coloro che lo conoscono bene, sia quelli che lo incontrano di volta in volta nelle sue avventure, concordano sul fatto che, a parte la fissazione per la cavalleria e le conseguenze pratiche ch'egli ne trae, la mente di don Chisciotte funziona benissimo. Non sempre nella sua mente scatta il dispositivo che lo porta a vedere nel mondo contadino della Spagna dei suoi tempi il mondo favoloso della cavalleria e quando ciò non avviene egli legge la 'realtà' esattamente come gli altri. Una parte non piccola del fascino del libro sta senza dubbio nel fatto che, benché noi sappiamo bene che i mulini a vento non sono giganti, le pecore non sono eserciti, e Aldonza Lorenzo non è Dulcinea, la figura di Don Chisciotte non ne risulta sminuita: noi non lo vediamo mai come un povero mentecatto, anche se sappiamo che la sua visione del mondo è in conflitto con la nostra, è inequivocabilmente 'sbagliata' nei termini della vita quotidiana, e il suo 'ideale' è per noi ben poco affascinante. È la tenacia delle sue convinzioni e la fermezza del suo codice morale, che ci conquistano, come conquistano, nell'universo narrativo, Sancho, che è sì il rappresentante del senso comune ma che più di una volta vacilla, nella seconda parte del libro, e cede lala visione della realtà che ha il suo padrone, o quando gli sembrino convenienti i vantaggi materiali che egli ne potrebbe ricavare (il promesso governatorato dell'isola), o quando gli manchino i dati sensoriali su cui basare una lettura della realtà ordinaria. Così, quando nell'episodio di Clavilegno (Parte II, cap. XLI) i due vengono messi su un cavallo di legno bendati e con vari trucchi vengono convinti ad attraversare a volo le regioni celesti, Sancho addirittura emula - come può - il suo padrone, costruendo un resoconto del loro supposto viaggio nel cosmo ancora più fantastico di quello che potrebbe darne Don Chisciotte.

Come leggere allora, produttivamente, la follia di Don Chisciotte? Una prima indicazione ce la può dare Michel Foucault che, nella sua “Storia della follia” (1963), ha analizzato come un fenomeno che nel sedicesimo secolo era ancora un intreccio di immaginario e socialità (la follia, appunto), si trasformi, nel processo di affermazione della modernità, in un elemento del discorso strategico sui saperi e divenga quindi una 'patologia'. Scrive Foucault: “il fatto è che ora [tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII] la verità della follia è una sola e stessa cosa con la vittoria della ragione e il suo definitivo dominio: perché la verità della follia è di essere all'interno della regione, di esserne un aspetto, una forza e come un bisogno momentaneo per diventare più sicura di se stessa.” Ed ecco che possiamo quindi individuare un nesso tra follia e morte. Osserva infatti Foucault che in Cervantes o in Shakespeare la follia occupa sempre una posizione estrema, nel senso che essa è senza rimedio. La follia, nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è 'un male molto al di là della mia scienza', come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già la pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico, ma della misericordia divina.

Indubbiamente la morte di Don Chisciotte avviene in un paesaggio placato, che si è ricollegato all'ultimo istante con la ragione e con la verità. Tutt'a un tratto la follia del Cavaliere ha preso coscienza di se stessa, e davanti ai propri occhi si tramuta in stupidità. Ma questa brusca saggezza della propria follia è qualcosa di diverso da 'una nuova follia che gli è appena entrata nella testa'? Ecco un equivoco eternamente reversibile, che non può essere risolto, in ultima analisi, se non dalla morte stessa. La follia dissolta non può che confondersi con l'imminenza della fine; 'e uno dei sintomi dai quali congetturarono che il malato stava per morire fu il fatto di essere tornato così in fretta dalla follia alla ragione'. Ma la morte stessa non arreca la pace: la follia trionferà ancora: verità derisoriamente eterna, al di là del termine di una vita che tuttavia si era liberata della follia con questo stesso termine. Ironicamente la sua vita insensata lo insegue e lo immortalizza solo con la sua demenza; la follia è ancora la vita imperitura della morte: 'Qui giace l'hildago temibile, che spinse così lontano il valore che la morte non poté trionfare della vita nel suo trapasso.' Non c'è qui il tempo di sviluppare queste preziose indicazioni di Foucault, anche perché, come punto di vista complementare vorrei proporre in conclusione quello del sociologo tedesco Alfred Schutz, che nel saggio del 1955 “Don Chisciotte il problema della realtà” analizza acutamente le strategie cognitive del personaggio, sostenendo una visione della conoscenza che assegna un ruolo attivo, creativo, al soggetto conoscente, e non un ruolo passivo (come fanno le teorie che vedono nella conoscenza un semplice 'rispecchiamento' della realtà). Partendo dalle teorie dello psicologo americano William James, Schutz sostiene infatti che la realtà non è una a priori, ma il risultato di un accordo intersoggettivo, perché ognuno di noi è in grado di vivere in 'sotto-universi' differenti, sui quali di volta in volta viene posto un 'accento di realtà'. Don Chisciotte non è affatto incapace di comprendere il sotto-universo del senso comune, quello in cui vivono gli altri personaggi. Non sempre la marionette diventano persone in carne ed ossa, non tutte le bacinelle sono elmi, non tutte le locande per lui sono castelli né gli osti castellani. Perché? Perché, come scrive Schutz, né il sotto-universo della follia di Don Chisciotte né l'ovvia realtà dei sensi in cui noi come Sancho Panza viviamo la nostra esistenza di tutti i giorni sono in verità così monolitici come appaiono. Entrambi contengono delle enclavi di esperienze che trascendono sia il sotto-universo dato per scontato da Don Chisciotte sia quello di Sancho, e implicano riferimenti ad altre sfere di realtà che non sono compatibili con essi. Ci sono rumori notturni enigmatici e inquietanti, ci sono la morte e il sogno, la visione e l'arte, la profezia e la scienza. Se il sotto-universo della cavalleria è quello su cui Don Chisciotte pone l'accento di realtà è per una ragione etica, perché, come dice egli stesso, 'io nacqui, per volere del cielo, in questa nostra età di ferro per farvi risorgere quella d'oro o aurea, come suol chiamarsi.' Tutto il Don Chisciotte appare allora come la contesa (che può essere scontro, ma anche incontro o mediazione) fra sotto-universi differenti: potremmo anche dire, forse, fra diversi 'sistemi di valori'. E si capisce anche l'evoluzione dei personaggi, da quella di Sancho che la vita in comune con Don Chisciotte porta a un certo punto ad accettare (come può) alcuni aspetti del mondo del suo padrone, a quella di Don Chisciotte che, dopo l'episodio del cavallo di legno (citiamo sempre Schutz), 'sente di aver infranto i confini della realtà della provincia privata che lui stesso ha stabilito, e di essere stato debole nel por limite ai sogni, confondendo così due sfere della realtà e rendendosi colpevole nei confronti dello spirito della verità, la cui difesa è il primo dovere del cavaliere errante.'

Ecco quindi che la follia di Don Chisciotte appare più come un episodio rilevante della costituzione di un nuovo senso della realtà, quello dell'epoca moderna, che il bizzarro esperimento di uno scrittore.

(Pubblicato su Cyberzone n. 13 - 2001)