da Un'ambigua Utopia marzo-aprile 1979 (disegno di Elisabetta Cassari) |
(da: Mondi altri. Processi di soggettivazione nell'era postumana a partire dal pensiero di Antonio Caronia, a cura di Amos Bianchi e Giovanni Leghissa, Mimesis 2016)
di una quotidianità che lo espropria di ogni
significato e lo uccide a poco a poco.”
Antonio Caronia, Il
corpo virtuale
L’uomo senza utopia, l’uomo senza qualità, l’uomo
senza, l’uomo espropriato di ogni significato. Condizione a cui dobbiamo rassegnarci
a vivere oggi oppure ciò contro cui dobbiamo combattere con tutte le nostre
forze? “Praticare l’utopia, non sognarla”1 facile
slogan che sembra risolvere il problema del paradosso utopico, la realizzazione
dell’utopia che si ritorce contro se stessa divenendo nel suo concretizzarsi,
distopia.2
Ma cosa significa praticare qualcosa che per sua natura non può essere
praticata? È solo una provocazione, un ossimoro che al contrario di quello che
afferma, serve a farci sognare ancora? L’intera opera di Antonio Caronia è
attraversata, e forse tenuta insieme, dal filo rosso dell’utopia che si
ripensa, si problematizza, deve decidere se esserci ancora o farsi
definitivamente da parte. La citazione di Caronia, qui usata come esergo,
prosegue con la desolante constatazione che l’essere umano “appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso
prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce.”3
In
una bella immagine Edoardo Galeano risolve, pensa di risolvere, l’ambiguità
dell’utopia definendola come un orizzonte verso cui si procede, il cammino che
si compie è in sé l’utopia che si realizza. Ma è solo, appunto, una
bella immagine, i problemi legati all’utopia non sono solo quelli che si
concretizzano una volta che questa si sia realizzata, ma riguardano, più
spesso, proprio la direzione del suo procedere. I compagni che sbagliano sono
quelli che non sono allineati verso la direzione giusta; quella, e solo quella,
che porta al sol dell’avvenire. Antonio Caronia, da militante socialista, poi
trozkista, saltando il breve interludio del ’77, ha intrapreso una sorta di
militanza “culturale” nel collettivo di Un’ambigua utopia4
per
costruirsi infine un abito su misura da intellettuale, come lui stesso qualche
volta si è definito, di tipo deleuziano. Sarebbe profondamente sbagliato
pensare Caronia come un pentito del marxismo, come uno che avesse capito che la
via dell’utopia non fosse quella intrapresa da Marx e soci ma invece proprio
quella di quei poco amati e mal sopportati compagni di strada degli anarchici. E
il termine libertario nel suo caso sembra più una comoda foglia di fico per
nascondere, la ben precisa e scomoda posizione critica di chi, come lui, è
disposto a tagliare i ponti verso qualsivoglia ipotetica rifondazione per
intraprendere un percorso la cui novità non è dettata solamente da un desiderio
del nuovo, quanto piuttosto dalla consapevolezza del dispiegarsi davanti a sé
di un’era affatto nuova. Che il superamento di questa soglia porti poi di
conseguenza verso la direzione dell’auspicabile uscita dal neolitico5
è
tutt’altra cosa, quello che è certo invece è che ad essere messa discussione, e
in modo radicale, è la necessità stessa dell’idea di utopia. Il lavoro cultura
all’interno del collettivo di Un’ambigua utopia tra il 1978 e il 1982 è stato
per Caronia un autentico corpo a corpo con l’utopia. Nel n. 2 della nuova serie
della rivista, numero speciale sull’utopia,6 Caronia enuclea, in un
cappello introduttivo a un dibattito interno al collettivo sull’argomento, i
termini della questione:
“Una ricognizione, molto
approssimativa, dei temi in discussione oggi sull’idea e la pratica di utopia
ci porta dritto ad affrontare una serie di questioni forse irritanti, certo
spinose. Che il concetto di utopia nascondesse molti trabocchetti l’abbiamo
sempre saputo (e l’hanno saputo prima di noi coloro che si sono sforzati di
ritrovare questa idea guida in una tradizione marxista sempre più
sclerotizzata). Ma il disagio, l’imbarazzo, possono venire quando ci sentiamo
proporre da settori (ex-settori) del movimento (ex-movimento) interrogativi ben
più radicali, per esempio questo: esiste ancora la possibilità di un’utopia di
parte proletaria (o marginale, o di qualunque soggetto si assuma come referente
per un processo di rovesciamento dello stato di cose presenti) come idea guida
dei comportamenti, o piuttosto l’utopia, in quanto progetto totalizzante, non
risulta sempre e forzatamente di parte capitalistica, anche quando chi si assume
il compito di progettare un futuro alternativo lo fa in nome di interessi e
bisogni che si vorrebbero anticapitalistici? La programmazione del futuro, più
esplicitamente, è un metodo, uno strumento, di cui si possono appropriare
diverse forze sociali, diversi soggetti, per fini diversi, oppure porta in sé
congenito, impresso a fuoco il marchio della totalizzazione e della logica del
dominio?”.
Nel dibattito che segue alle considerazioni di un
compagno che dice: “a livello collettivo
manca qualcosa che possiamo definire ‘utopia’. L’utopia è un ‘fatto’ che deve
diventare collettivo.” Caronia
risponde: “L’utopia no, la liberazione
si.” E prosegue più avanti:
“il ‘noi’ era qualcosa da
costruire nell’organizzazione, nel partito, nel sindacato, nel movimento,
nell’occupazione della casa. Invece il ‘noi’ oggi è già un dato di fatto,
perché siamo massificati, è il capitalismo che ci ha portati a questo. Marx ha
detto che il capitalismo è l’unico tipo di società che permette di passare
dalla preistoria alla storia. Furono gli epigoni poi, a cominciare da Engels, a
interpretare: cerchiamo di realizzare al meglio l’utopia capitalistica e poi
programmeremo il socialismo. E se lo sono pigliati nel culo. Il ‘noi’ oggi è
dato dai comportamenti diffusi, perché il noi è già costruito, è la
realizzazione del ‘noi’ che non è ancora costruita, ma bisogna costruirla anche
al di fuori di un’organizzazione solidaristica, movimentistica nel senso
classico. E’ questa la divergenza che è apparsa stasera. Stiamo facendo una
rivista e ognuno di noi vive questa esperienza in modo diverso e io sono
contento di viverla in modo diverso dagli altri. Se dietro a ‘Un’ambigua
utopia’ ci fosse un progetto complessivo non ci starei, perché la vedrei come
una riedizione della militanza.”
L’incontro di Antonio Caronia con un gruppo, con un
“noi” che non rinnega una precisa affiliazione politica ma che rifiuta una
qualsivoglia progettualità a cui dover aderire collettivamente gli permette di
portar avanti una propria ricerca personale, un proprio progetto di lavoro
capace di avvalersi degli stimoli e dei confronti con quello degli altri senza
dover imporre necessariamente il proprio. Trent’anni dopo la fine di questa
esperienza, in una video-intervista parlando del suo punto di vista
sull’arte nel movimento, prospetta una modalità del lavorare insieme in cui il
criterio generale “sarebbe quello di un
posto, di un collettivo, di un luogo in cui l’attenzione sia contemporaneamente
o in tempi molto vicini, in modi molto vicini, al modo in cui sorgono le idee,
al modo in cui sorgono i progetti, al modo in cui si pensa l’innovazione
espressiva e contemporaneamente la si pratica, la si mette in opera” insomma,
quasi un’ambigua utopia riadattata per il nuovo millennio. Se
stiamo entrando, se siamo entrati in una nuova epoca dell’umanità che comporta “una trasformazione delle basi e della
modalità della vita associata talmente radicale da far parlare più d’uno di
‘mutazione antropologica’”,7 allora questa
mutazione può portare minacce tanto quanto promesse per la nuova era che
necessariamente consegue al nuovo uomo. Caronia non cade nel facile
trabocchetto di una “mutazione antropologica” come inevitabile conseguenza di
una “tecnologia intesa come agente
autonomo (…) questo è ciò che credono, da punti di vista opposti ma convergenti
i cantori delle meraviglie e i lamentatori degli obbrobri della rivoluzione
informatica. La tecnologia è figlia di un’attività umana, e come tale non è
causa, ma sintomo eclatante, elemento mediatore, simbolo della trasformazione
che ci avvolge.”8 Caronia insomma,
fin dagli anni ’80, ci dice che la tecnologia è il classico dito che indica, ma
la luna indicata è sempre e comunque l’essere umano. Minacce e promesse sono
connaturate alla “naturale” artificialità dell’uomo. Ma la nuova
“trasformazione che ci avvolge” porta in se una inevitabile fascinazione ,
nuove lusinghe rispetto a cui è difficile il necessario distacco critico, e
anche Caronia, orfano volontario di qualsivoglia passata utopia, non può non
subirne, in una qualche misura, alcuni effetti. In uno scritto in memoria di
Enrico Livraghi del 20109
ricorda: “Capivo
che lui mi etichettava spietatamente ma con una certa tolleranza tra gli
‘antropologi ottimisti del cyberspazio’ (come scrisse nel catalogo di quella
rassegna) – e riluttavo allora, mentre capii poi che nell’essenziale aveva
ragione.” E in effetti come si può mantenere una qualche sorta di
equilibrio tra i “cantori delle meraviglie” e i “lamentatori degli obbrobri”
senza coltivare un abbozzo, un’idea di progetto, un embrione di una nuova
utopia? Se l’ibridazione tra l’uomo e la macchina non può essere solo minaccia
né solo promessa e quel che se ne può concludere è “Tutto sta a vedere qual è il prezzo.”,10 allora non
possiamo non chiederci se questo prezzo non riguardi in definitiva quello di
una nuova utopia. La tentazione, a ben vedere, ci sta tutta. Se sull’onda di un
movimento, la cui ritirata politica apriva nuovi spazi, di riflessioni, di
creatività e di pratiche diverse, era possibile sbarazzarci, senza troppi
rimpianti, di utopie viste come complici dei fallimenti del passato, nella
nuova fase storica che si apriva non più su un presunto riflusso politico ma in
una desertificazione del movimento che avrebbe caratterizzato tutto il nuovo
decennio degli anni ’80, l’utopia allora poteva anche sembrare in definitiva il
male minore. Se non c’è stato nessun ripensamento, da parte di Caronia, sulla
necessità di ricostruzione di un’utopia, per contro non essendoci più, almeno
non più diffusi, visibili, quei “comportamenti
diversi, alternativi, fuori dalla logica, dalla morale. (…) gli unici che
possono essere sovversivi” e che in quanto tali “sono fondamentalmente comportamenti contro l’utopia”11 è inevitabile
che tra le pieghe del suo discorso, in un varco lasciato volutamente aperto
nella sospensiva del “che fare”, possa
insinuarsi comunque una siffatta tentazione. Questo varco, in un discorso
teorico che vuole affrontare l’impatto che il processo di virtualizzazione ha
nella socialità dell’homo sapiens,
porta inevitabilmente alla domanda sul costo dell’innovazione. Cioè si da per
scontato che il guadagno ci sia e che non venga inficiato da un costo troppo
alto sembrerebbe l’unica reale posta in gioco. Da qui alla necessità di una
rinnovata utopia che indirizzi verso la strada giusta da percorrere verso
l’inarrestabile evoluzione, il passo è breve. Ma è un passo che Caronia non
segue, a costo di rimanere invischiato in quel facile, indefinito
cyberentusiasmo, cerca ancora; si schiera ma non si allea, prende posizione ma
rifiuta di farsi incasellare, in una sorta di autoimposto disagio e conseguente
disorientamento simile a quello che si potrebbe provare all’interno di quel
negozio della pecora di Alice. Nell’immagine tanto amata da Caronia stesso. In
realtà per Caronia è chiaro che la vecchia utopia è legata “a una biologia, a una concezione della storia della storia e del suo senso,
a una visione lineare del tempo che non ci appartengono più” e che noi ci
troviamo oggi “nell’era della
Programmazione Biologica (…) svincolati ormai dalla vecchia forma proto-umana,
(…) a cui il tempo non appare più né (come) una retta né come una circonferenza, ma una spirale cilindrica tridimensionale”.12 In questa nuova
era “il rovesciamento di senso del
processo di artificializzazione attraverso la sua accelerazione”13
pone
le basi per il superamento della distanza tra il naturale e l’artificiale
inglobando quest’ultimo dentro noi stessi e realizzando così l’annichilimento
della distanza tra noi e il mondo e il conseguente avvento dell’utopia
realizzata. Un’utopia totale che vede il capitalismo far trionfare su qualunque
forma di opposizione o resistenza, i suoi sogni/incubi più estremi. Il
possibile si concreta come sogno del possibile capitalista. Non c’è nessuna
indicazione nell’opera di Caronia che sembri alludere a una possibile
contro-utopia. Ci sono spazi lasciati vuoti, echi di una possibile futura, non
meglio definita, liberazione, ma nessun, neanche vago, progetto di un’utopia di
segno diverso, opposta a quella del capitale. Esula dai compiti e dagli
obiettivi di questo breve scritto indagare su quello che potremmo chiamare,
anche se in modo scorretto, il “propositivo” nell’opera di Caronia (confidiamo
che questo libro nel suo insieme possa considerarsi un primo approccio di lavoro
in questa direzione). Rimanendo qui concentrati sulla posizione di Caronia nei
riguardi dell’utopia, dobbiamo constatare due cose importanti: la prima è che
persiste, diffusa tra i giovani e i meno giovani che hanno seguito il suo
pensiero o che lo scoprono solo ora, l’idea che esso contenga una perorazione
per una nuova utopia collettiva che prenda il posto di quelle vecchie,
obsolete; la seconda è che nell’ultimo anno di vita, Caronia ha concesso, suo
malgrado, un chance a questa ipotesi. “PRATICARE
L’UTOPIA, NON SOGNARLA” è stato l’ultimo slogan lanciato da Caronia,
un’ultima incitazione, potremmo dire, ambiguamente utopica. Ambigua in quanto
sollecita l’equivoco di una possibile, auspicabile creazione di utopie
concrete. Uno slogan di cui è necessario qui raccontare la genesi per poter
sciogliere l’equivoco. Questo titolo è servito nell’aprile del 2012 per
presentare alla libreria Utopia di Milano la riedizione del libro Nei labirinti della fantascienza uscito
la prima volta nel 1979 a cura del collettivo Un’ambigua utopia.14
Alla
presentazione era collegata una mostra storica della rivista e per scegliere il
titolo dell’iniziativa Caronia ne propone due diversi: DISTRUGGERE LA
FANTASCIENZA o PRATICARE L’UTOPIA, NON
SOGNARLA. Il primo, che deriva dall’editoriale del n. 1 della rivista15
viene scartato perché troppo schiacciato su una prospettiva fantascientifica e
considerato anacronistico in quanto rivolto a un genere oggi definitivamente
concluso. Il secondo che alla fine viene scelto, rifà il verso al primo
editoriale ma lo reindirizza non più sulla fantascienza ma sull’utopia.
L’obiettivo della rivista nel dichiarare di voler distruggere la fantascienza
era quello di voler “rompere questo
involucro, questo contenitore che si chiama fantascienza, e dimostrare che ciò
che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro che quello che si trova fuori.
(…) Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché
si può sognare e non praticare.” Nell’ultimo scritto sulla storia della
rivista16
Caronia commenta così questo editoriale: “Pratica
dell’obiettivo, pratica dell’utopia, sarà stata pure una formulazione rigida e
ingenua, ma non li sentite gli echi e gli slogan del 77? Dei volantini dei
circoli del proletariato giovanile? Non le vedete le assonanze con le pagine di
A/traverso, le sintonie con le trasmissioni di Radio Alice?”.17
Di conseguenza il titolo “giusto” dell’iniziativa avrebbe dovuto mantenere il
primo termine DISTRUGGERE sostituendo il secondo, la fantascienza, con
L’UTOPIA.18
È ovvio che per Caronia, entrando nel collettivo di Un’ambigua utopia dopo un
anno dalla sua nascita, quel vecchio slogan non potesse che essere rigido e
ingenuo, ma era anche una esemplificazione formidabile per cogliere i frutti di
quel fenomeno letterario ormai prossimo alla fine che era la fantascienza:
“Era evidente che la fantascienza
non poteva sopravvivere, né nella sua forma ‘ottimista’ né in quella di
‘testimonianza’ della crisi, all’avvento della nuova fase del capitalismo
iniziata negli anni ottanta. I generi della letteratura popolare sono, più
degli altri, fenomeni storici contingenti, che nascono e muoiono in simbiosi
con i processi sociali. La fantascienza è morta, quindi, nel momento in cui la
società non riusciva più a ‘progettare il proprio futuro’; ma i suoi temi, le
sue strategie narrative, le sue modalità discorsive stanno migrando già in
questi anni nelle nuove produzioni della nuova industria culturale, nei nuovi
generi che si preparano e già vivono nella narrativa, nel cinema, nei videogiochi,
dalla fantasy, al noir.”19
Se a questo punto possiamo dire che tutto sommato è
stato relativamente facile un lavoro demolitorio del ruolo consolatorio della
fantascienza di ben altro tenore è stato quello nei confronti dell’utopia. Che
questa possa essere ambigua, non è cosa difficile da accettare, ma che si possa
addirittura farne a meno è ben arduo da accettare non solo da parte dei più
utopici sognatori, ma anche da chiunque consideri irrinunciabile la necessità
di un pur minimo senso del futuro. La fine del futuro, che è la fine della
nostra era, rende obsoleta un tipo di letteratura caratteristico del
capitalismo industriale come la fantascienza, ma cosa ben più gravida di
conseguenze, minando la consistenza di ogni utopia congela il nostro agire
collettivo. Un’inerzia da cui tentare di uscire pensando davvero di poter
proporre una pratica dell’utopia, è uguale al tentativo del barone di Münchhausen
di uscire dalla palude tirandosi su per il codino. Che questo passaggio verso
il nuovo non fosse una cosa semplice e fosse tenuta volutamente in sospensione
ce lo dimostra l’alternanza degli autori a cui Caronia fa riferimento tra gli
anni ’80 e ’90. Se nel campo della fantascienza l’interesse per un’autrice come
Ursula K. LeGuin era già superato, quando
ancora la rivista di un’ambigua utopia (il cui nome è debitore di un’opera
della scrittrice stessa20)
era ancora viva, scrittori come Samuel Delany e soprattutto J. G. Ballard
occuperanno una posizione crescente e privilegiata, un altro autore, P. K. Dick,
scomodissima figura antitecnologica e intrisa di fervore mistico filosofico,
acquisterà man mano uno spazio e un interesse vieppiù fagocitanti. Così come
nel campo più prettamente teorico, a fianco di un Baudrillard, non estraneo a
una storia “marxista” ne abbiamo uno come Foucault affatto estraneo. Foucault e
Dick saranno gli elementi perturbatori di quegli anni. Di entrambi Caronia
aveva inizialmente una visione limitata ad alcuni punti, importanti ma
circoscritti. Il potere e la società disciplinare per Foucault, il carattere
epistemologico e ontologico delle trame narrative per Dick. Senza soluzione di
continuità l’interesse nei loro confronti crescerà man mano fino a convergere
in un articolo per il trentennale della scomparsa di Dick.21
Dick e Foucault non saranno solo gli
strumenti, da affinare e perfezionare, per affrontare quello che ormai sembra
emergere dietro la figura del cyborg, un salto antropologico come uscita
auspicabile dal neolitico “oggi tutta
l’era neolitica dovrebbe forse apparire come una gigantesca parentesi da
abbandonare al più presto, un esperimento che ha avuto le sue luci e le sue
ombre, ma la cui continuazione avrebbe costi insostenibili.”22
ma
saranno fondamentalmente l’antidoto a che questa auspicata uscita non si trasformi
in un’ennesima consolatoria forma di nuova utopia. Sempre più l’incantesimo “dei cyborg elettronici e dei corpi
disseminati nell’era digitale”23
dovrà
passare sotto il vaglio della “spada da samurai” di Foucault24
e
del D.I. (distruttore d’incantesimi) di Dick.25
Un conto è dichiarare la necessità di uscita dal neolitico e un altro è pensare
di poterla progettare. Caronia percepisce la nuova trappola utopica e scarta
l’ostacolo invece di saltarlo. Sceglie un altro percorso dal risultato incerto,
imprevedibile. Se ha ragione Foucault nell’identificare “la nascita dell’’uomo’ in senso moderno con quello dell’antropologia,
con le trasformazioni dell’episteme che hanno reso possibile fare dell’uomo un
oggetto di indagine” ciò fa si che di conseguenza “mutando le ‘disposizioni fondamentali del sapere’, l’uomo (inteso in
questo senso ‘epistemico’) potrebbe scomparire come è nato.” Allora “questo e non altro, potremmo dire, è il
problema del postumano oggi.”26
Ecco
allora che il postumano, così come si prospetta nel nuovo millennio per Caronia
non poteva presentarsi come nuovo cavallo di Troia per l’utopia così come forse
aveva rischiato di essere il cyborg tra
gli anni 1985 e 1996, tra la
pubblicazione del libro sul Cyborg e quello
sul Corpo virtuale. Sarà sempre più chiaro che “se l’attrito fra cervello paleolitico e
società neolitica era inquietante ma ancora tollerabile, l’abisso fra lo stesso
cervello e la società industriale matura e onnipervasiva (il capitalismo
cognitivo) è potenzialmente distruttivo.” E allora inevitabile è
“l’ipotesi che la presenza forte
e la centralità del mondo materiale creasse quella vischiosità fra mondo ed
esperienza che si esprimeva nella percezione del tempo come durata; e che il
dilagare della dimensione immateriale (relazionale nel senso di sganciata dalla
materia e dal corpo) sia una delle condizioni, forse la più importante, di
questo processo di estrema frammentazione e distruzione del tempo. La
conseguenza sarebbe che solo un nuovo ancoraggio alla materia e al corpo potrebbe
costruire un antidoto efficace all’estremo spaesamento e al nostro naufragare
in un tempo sempre più microbico e parcellare.”27
Foucault e
Dick stanno procedendo a passi da gigante. Caronia non rinnega l’interesse e la
necessità di affrontare il nuovo e di accettare la sfida di un mondo in cui reale e immaginario sempre più
sembrano fondersi; semplicemente, in una radicale scelta anti-utopica, ancora
il proprio interesse a un presente che possa contenere in sé il futuro come
possibilità e non come programma. La cura di sé che Foucault studia negli
antichi greci e i primi cristiani e che Dick analizza nei suoi personaggi,
falliti ma disperatamente vivi, è la risorsa a cui Caronia si aggrappa con
tutte le sue residue forze per traghettarsi fuori dal pantano della palude del
soggetto, il vero volto dell’utopia occidentale, infine. Ed è da qui che
Caronia ha ricominciato e ci induce a ricominciare a lavorare. Una nuova
pratica priva di qualunque utopia e, per quanto alieno dalla nostra storia
possa apparirci, che contenga invece una nuova forma di spiritualità che, come
scrive Foucault, abbia dentro di se quell’”insieme
di quelle ricerche, di quelle pratiche e di quelle esperienze che (…) per il
soggetto, per il suo stesso essere di soggetto, rappresentino, il prezzo da
pagare per avere accesso alla verità”28, verità che non potrà
che essere sempre, dickianamente, una penultima verità.
Nota 1: Titolo
dell’iniziativa tenutasi alla libreria Utopia di Milano il 22 aprile 2012 per
la presentazione del libro Nei labirinti
della fantascienza, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2012.
Nota 2: La
distopia o antiutopia è la componente utopica in negativo con cui il genere
letterario della fantascienza ha manifestato in modo prevalente la propria
visione del futuro.
Nota 3: Antonio
Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo
robotizzato al corpo disseminato nelle reti. Muzzio Editore, Padova 1996,
p. 58.
Nota 4: Per
una storia di Un’ambigua utopia: Antonio Caronia, Giuliano Spagnul, (a cura di),
Un’ambigua utopia. Fantascienza,
ribellione e radicalità negli anni 70, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI),
2010, vol. II Appendice.
Nota 5: Uscire dal neolitico è il titolo dell’ultimo capito
del libro di A. Caronia, Il corpo
virtuale, cit.
Nota 6: Antonio
Caronia, Giuliano Spagnul, (a cura di), Un’ambigua
utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, cit. vol. II.
Nota 7: A.
Caronia, Il cyborg, Theoria, Roma,
1985, p. 8. Rivisto e ampliato questo testo è stato riedito nel 2001 per le
edizioni Shake, e ancora per le stesse edizioni nel 2008 con l’aggiunta di un
poscritto.
Nota 8: Ibidem
Nota 9:
A. Caronia, Per Enrico Livraghi. Da Zuppa
d’anatra a Matrix. http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2015/06/antonio-caronia-per-enrico-livraghi-da.html
Enrico Livraghi è
stato tra i fondatori del cineclub Obraz di Milano.
Nota 10:
A. Caronia, Il cyborg, cit. p. 118
Nota 11:
A. Caronia, G. Spagnul, (a cura di), Un’ambigua
utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, cit. vol. II.
Nota 12:
A. Caronia, Il corpo virtuale, cit.
p. 58.
Nota 13:
Ivi, p. 88.
Nota 14:
A. Caronia, G. Spagnul, Nei labirinti
della fantascienza, cit.
Nota 15:
A. Caronia, G. Spagnul, (a cura), Un’ambigua
utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni 70, cit. vol. I.
Nota 16:
A. Caronia, Quando i marziani invadevano Milano, http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2014/12/antonio-caronia-quando-i-marziani.html
Nota 17:
ibidem.
Nota 18:
Un titolo per altro improponibile per una manifestazione da tenere in una
libreria che si chiama proprio Utopia.
Nota 19:
A. Caronia, La SF è morta, viva la SF.
In “Hamelin” 22/2009 https://www.academia.edu/298069/La_fantascienza_%C3%A8_morta_viva_la_fs_
Nota 20:
Ursula K. LeGuin, I reietti dell’altro
pianeta (1974), Editrice Nord, Milano, 1990.
Nota 21:
A. Caronia, Un filosofo in veste di
romanziere, Il Manifesto 1 marzo 2012. http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/01/antonio-caronia-un-filosofo-in-veste-di.html
Nota 22:
A. Caronia, Il corpo virtuale, cit.
p. 177.
Nota 23:
Ivi, p. 178.
Nota 24:
Nell’efficace metafora usata da Antonio Caronia nel seminario su Foucault
tenutosi alla NABA di Milano nel 2011-2012. https://archive.org/details/MichelFoucault_PerUnaGenealogiaDelSoggetto
Nota 25:
Philip K. Dick, La città sostituita (1957),
Fanucci, Roma 2011.
Nota 26:
A. Caronia, Transumano, troppo postumano,
“S&F” 1/2009 https://www.academia.edu/288184/Transumano_Troppo_Postumano
Nota 27:
A. Caronia, Cogli l’attimo! (Se ci
riesci), “L’Unità” 10 giugno 2004 https://www.academia.edu/305223/Cogli_lattimo_se_ci_riesci_
Nota 28:
Michel Foucault, L’ermeneutica del
soggetto (2001), Feltrinelli editore, Milano 2003, p. 17.
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