domenica 14 gennaio 2018

Antonio Caronia: Una striscia per ogni galassia



C’è da stupirsi se le origini del fumetto sono fortemente nutrite di fantastico? I sogni di Little Nemo come i paesaggi di Krazy Kat o la sfrenata capacità del gatto Felix di realizzare fantasie non lasciano dubbi. Tuttavia, mentre già la fantascienza scritta (sia pure non ancora sotto questo nome) si diffondeva robustamente nelle pagine dei pulps, avremmo dovuto aspettare ancora diversi anni prima di avere dei veri fumetti di fantascienza. In effetti i fumetti delle origini (dalla fine del secolo scorso alla metà degli anni Venti) toccavano prevalentemente la corda dell’umorismo, più che quella dell’avventura, e il fantastico dei comics lasciava poco spazio alla fantascienza: Felix The Cat poteva andare sulla luna quando voleva, naturalmente, ma era un’altra cosa. È nel corso degli anni Venti che il pubblico comincia a rivolgersi verso il fumetto d’avventura: la situazione interna degli USA (criminalità, scandali, problemi economici) metteva in crisi nell’immaginario collettivo le strip “familiari” come Arcibaldo e Petronilla, orientava il gusto verso avventure esotiche, viaggi. La riconquista di una dimensione “realistica” ci sarebbe stata più tardi, negli anni Trenta, con le figure di detective, l’Agente segreto X-9 e Dick Tracy, per esempio. Adesso era la volta di Cino e Franco e già si annunciavano i due grandi personaggi di Lee Falk, Mandrake e il Phantom (L’uomo mascherato). In questo clima esotico e avventuroso la fantascienza si inseriva molto bene. Il battesimo al fumetto spaziale lo diede nel 1929 Buck Rogers, un pilota addormentatosi nel 1919 e risvegliatosi cinquecento anni dopo per ritrovare l’America invasa e dominata dai mongoli. Buck Rogers veniva diretto da un romanzo di Philip Francis Nowlan, appena pubblicata a puntate da “Amazing Stories”; Armaggedon 2429 A.D. L’idea era stata del distributore John F. Dillie, la sceneggiatura dello stesso Nowlan, il disegno di Dick Calkins. Era stata una buona idea; nel 1933 seguiva Brick Bradford, di Ritt e Gray, e nel 1934 quello che doveva diventare uno dei più famosi fumetti di fantascienza, Flash Gordon di Alex Raymond. Sia Buck Rogers che Brick Bradford (noto da noi con una quantità di nomi diversi, Guido Arceri, Marco Spada, Bat Star) erano space operas abbastanza ortodosse, più rozza la prima, soprattutto nel disegno, meno la seconda. Flash Gordon invece inclinava più verso l’avventura esotica, il fantasy: solo l’inizio della storia ha una ambientazione fantascientifica, con viaggi interplanetari, asrtronavi e pianeti lontani. Ma una volta che Gordon, la fidanzata Dale Arden e lo scienziato Zarkov sono sbarcati sul pianeta Mongo, si impegnano in una lotta contro il tiranno Ming e la storia assume la fisionomia di una saga cavalleresca. Ciò non toglie che Raymond (poi affiancato e sostituito da altri disegnatori) abbia dimostrato una straordinaria capacità di anticipare invenzioni posteriori, come il laser, il missile, il video-telefono, esercitando una certa influenza anche sul design dei decenni seguenti con il suo stile raffinato un po’ lussureggiante. Non si può negare che, al di là di questi motivi di interesse, il fumetto di fantascienza non sia poi più stato capace di staccarsi da questi cliché, condannandosi a un’esistenza ripetitiva e a schemi tutto sommato logori. Eppure nel fumetto di fantascienza echeggiano umori e esigenze profonde, a livello di massa. L’esempio più tipico è forse Superman, nato nel 1938bad opera di Jerome Siegel e Joe Shuster e destinato a un successo stupefacente. Anche Superman si ispira a un romanzo, Gladiator di Philip Wylie, del 1930, ma vive ben presto di vita propria, anzi attrae nella sua orbita più di uno scrittore di fantascienza, che negli anni seguenti collabora alla sceneggiatura delle storie (Alfred Bester e Henry Kuttner fra gli altri). In una memorabile analisi (in Apocalittici e integrati) Umberto Eco individuava le radici della grande popolarità di Superman nelle “esigenze di potenza” che il cittadino comune non riesce a soddisfare nella società tecnologicamente avanzata e proietta su eroi positivi di questo tipo. Il successo di Superman scatenò comunque una vera e propria febbre di supereroi nel fumetto USA, da Batman ai Fantastici Quattro e alla legione di personaggi della Marvel Comics. Leggiamo questo severo giudizio di Gaetano Strazzulla al proposito: “Nel comic di anticipazione americano, il ‘supermanismo’ ha oggi superato ogni limite dell’immaginazione, mescolando confusamente le risorse della tecnologia e della cibernetica con la magia e l’orrore. Siamo nel regno della favola moderna, che rispecchia la caotica e frenetica vita dell’uomo contemporaneo, proiettato in maniera vertiginosa verso un futuro pieno di inquietanti incognite.” (I fumetti, Sansoni, 1980). Nel filone della space opera sono uscite opere interessanti in Inghilterra, come Dan Dare (1950), ma più ancora il Jeff Hawke creato da Sidney Jordan nel 1954. Senza rinunciare a certe atmosfere fiabesche, la solidità degli intrecci, una gradevole tendenza all’ironia e una notevole galleria di estrose creature extra-terrestri fanno di questo fumetto uno dei più gradevoli dell’intera fantascienza. Ma le novità più rilevanti, nel dopoguerra, sono venute dalla Francia. In questo paese (o meglio in area francofona) si erano avuti fumetti di fantascienza autoctoni già negli anni Trenta e Quaranta, con Futuropolis di René Pellos e le avventure di Blake e Mortimer del belga Edgar-Pierre Jacobs, fantascienza ortodossa con tendenze alla fantaarcheologia e robuste connotazioni poliziesche. Poi, nel 1962, scoppiò Barbarella, questa vagabonda delle galassie dai costumi sessuali alquanto liberi creata da Jean-Claude Forest. Un colpo all’ortodossia avventurosa che suscitò varie imitazioni. E poi, nel 1974, la vera rivoluzione: gli “Humanoides associés” fondano la rivista “Metal Hurlant”. Gli “umanoidi” sono quattro personaggi del fumetto francese, lo sceneggiatore Jean-Pierre Dionnet, il poeta Bernard Farkas e i disegnatori Philippe Druillet e Jean Giraud. Druillet aveva già creato un personaggio fantascientifico nel 1967, Lone Sloane, un vagabondo dello spazio dedito ad avventure di tipo western; Giraud (col nome di Gir) disegnava nel 1963 una saga western ortodossa, quella di Blueberry. Ma con la fondazione della nuova rivista si apre un discorso del tutto nuovo: “Metal Hurlant” vuole rispecchiare nel fumetto tendenze, aspirazioni e gusti degli strati più inquieti delle nuove generazioni, vuole sperimentare le intersezioni tra fumetto, musica e letteratura popolare, e naturalmente la fantascienza è al centro dell’attenzione, ma non secondo i moduli tradizionali. Il riferimento è a quanto, anni prima, è stato fatto di innovativo nella fantascienza scritta, alla cosiddetta new wave al di qua e al di là dell’atlantico, ad autori come Farmer, Dick, Ballard, Moorcock. Il disegno di Druillet diviene più complesso, sovrabbondante, barocco, quasi acido. La violenza metropolitana che altri autori della rivista descrivono con riferimento ai nostri giorni, lui la trasferisce su scenari fantastici e crea opere di grande potenza. Quanto a Giraud, riprende lo pseudonimo che aveva usato anni prima per le collaborazioni al giornale satirico “Hara-Kiri” (Moebius) e crea storie completamente diverse, nel disegno e nella concezione, rispetto a Blueberry: universi enigmatici come quello di Arzach, storie complesse con trame incassate l’una nell’altra e apparenti nonsense come Il garage ermetico di Jerry Cornelius (o Il maggiore fatale) ispirato a un personaggio “new wave” di Moorccock. Con “Metal Hurlant” e i nuovi autori francesi e americani che si raccolgono intorno alla rivista la fantascienza diventa anche nel fumetto una chiave di lettura, volta a volta ironica e drammatica, viscerale e cerebrale, della realtà contemporanea. L’esempio francese contagia anche l’Italia. Per quanto riguarda la fantascienza nel nostro paese c’era stato un avvio alla fine degli anni Trenta con Federico Pedrocchi, un intelligente sceneggiatore che aveva creato, senza praticamente conoscere nulla della fantascienza americana, due interessanti storie, Saturno contro la Terra (soggetto di Cesare Zavattini, disegni di Giovanni Scolari) e Virus, illustrato da Walter Molino. Ma, scomparso Pedrocchi, nessuno aveva raccolto il suo esempio. Alla fine degli anni Settanta è il gruppo di “Valvoline” (Igort, Brolli, Mattotti, Carpinteri, e poi Mattioli) che all’interno di un discorso di rinnovamento radicale del fumetto italiano utilizza spunti, idee e figure della fantascienza in modo non convenzionale, ironico e corrosivo: le realizzazioni più interessanti sono quelle di Massimo Martioli con la sua satira della space opera nella serie di avventure di Joe Galaxy, già avviate sulla rivista “Cannibale”, da cui prende le mosse “Frigidaire”. Ed è su quelle pagine che prende avvio il più famoso fumetto italiano contemporaneo di fantascienza, Ranxerox, creato da Stefano Tamburini e disegnato con rabbia  e partecipazione da Tanino Liberatore: ed è in quest figura di coatto sintetico in una Roma del futuro non troppo dissimile poi dalla nostra che la fantascienza italiana ha mostrato una via non banale e svincolata dalla soggezione a modelli stranieri. 

Pubblicato in Variazioni Cosmiche, Edizioni Nord, Milano, 1988

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