giovedì 23 agosto 2018

Alba di ruggine


Alba di ruggine, o, la nevicata dell’85
Questo racconto ucronico, scritto per Off Topic lab, costituisce la seconda parte testuale di una performance dal titolo Un’ambigua ucronia ed è dedicato ad A. Caronia e P. Moroni.
Mi piace immaginare che la sera del 13 gennaio, appena prima di andare a dormire, tutti abbiano dato uno sguardo al cielo, almeno per un attimo. La luce arancione della notte di Milano, salutava l’inizio del 1985 con grandi fiocchi bianchi di neve che tutto era, tranne che immacolata.
Il 14, 15 e 16 passarono con divertimento. Il 17 e 18 con sbigottimento, il 19 il timore mutò in paura. Il 20 gennaio lo stato d’emergenza venne dichiarato in tutte le regioni del nord. Quando le prime carovane di soccorso partirono dal sud dello stivale, i cigli delle piazze di partenza, anche quando imbiancati,
brulicavano di gente: mani a sfiorare le tute di pompieri e protezione civile, baci soffiati nel vento in direzione di quelle che al tempo chiamavamo guardie forestali. Eroi ignoti dai lineamenti familiari. In febbraio alla testa dei convogli militari, erano mezzi spazzaneve e per movimento terra. L’onestà ingenua delle prime ore era stata interrotta dal nuovo corso. Atteso e temuto, inevitabile e irreversibile, l’esercito aveva ottenuto il comando delle operazioni di messa in sicurezza e abbandono di piccoli paesi e grandi città. Fu così che l’atmosfera goliardica e umida delle palestre comunali lasciò il passo ai neon gelidi dei centri per sfollati.
Per il primo anniversario, a trenta giorni dall’inizio della bufera, il governo Craxi diramò un documento riservato ai direttori dei principali organi di stampa e alla tv di stato. Fu anticipato di una notte dalla seconda ondata di neve ghiacciata. I giornali nemmeno andarono in stampa per via del coprifuoco. A un mese esatto dai primi fiocchi, il paese era in ginocchio.
Con la sola eccezione dell’autostrada per Bologna, la cui unica corsia agibile era costantemente pattugliata da grandi mezzi spazzaneve, i collegamenti per Milano si chiusero come pori infreddoliti uno dopo l’altro, con rapidità imprevista dal centro per l’emergenza regionale. In aprile, quando i parchi urbani tagliati di fresco si riempiono di fiori, non era possibile scorgere un solo pallido sentore di verde in tutta la città. Sempre in aprile i primi palazzi furono sfollati per via dello spegnimento delle caldaie. I rifornimenti ai supermercati erano già stati razionati, così come gasolio e medicinali. Entro la fine del mese il trasporto pubblico fu formalmente sospeso, non c’erano più taxi né buontemponi in giro “sci ai piedi” nelle ore di tregua. Con le scuole e gli uffici pubblici serrati, la giunta cittadina riunita telefonicamente grazie a un ponte radio civile, commissariò tutte le zone della città e ottenne dal governo il compito di agevolare lo sfollamento in direzione sud di tutti quanti intendessero abbandonare la città.
Milano, per come l’avevamo conosciuta da sempre, collassò sopra queste parole
la prefettura della città, su ordine del governo centrale, invita tutti quanti desiderino lasciare la propria casa in cerca di un ricovero più sicuro, a raggiungere il centro di smistamento
Dopo il crollo del 12 marzo, i lavori di ripristino si erano concentrati sulla stazione centrale. La si raggiungeva di giorno e di notte, per quel che valevano il giorno e la notte, alla luce dei fari dell’esercito e delle altre forze dispiegate a osservare il centro città. Il corridoio di quindici giorni, predisposto per l’abbandono programmato della città, ricevette il nome nemmeno troppo originale, di Progetto esodo.
Il disgelo
Si dice che il giorno più caldo del 1985 sia stato il 24 agosto. Non prima, non dopo. I 14 gradi registrati quel pomeriggio suggerirono al sindaco Tognoli di tenere un discorso alla città. Dal culmine della collina di neve, cresciuta sulle macerie della cupola della storica galleria Vittorio Emanuele, si brindava a
un nuovo inizio per i milanesi. Quale illusione. L’autunno non si fece attendere prima di soffiare nuove abbondanti precipitazioni sulla pianura.
La furia non è quella dell’inverno alle spalle, il peggio è passato
dicevano in molti, come a tranquillizzare le anime esauste della piccola glaciazione. Il disgelo ebbe inizio in Aprile dell’anno successivo (1986), per procedere speditamente in Maggio e Giugno. La città rimaneva imbiancata di un velo insistente e le tubature fessurate dal ghiaccio, esplose dalla sua energia, riversavano fiotti d’acqua sghiacciata di fresco per strade e cantine. Di giorno era tutto uno zampillare, di notte la realtà si frizzava come fermo-immagine.
Il macabro calcolo dei dispersi, le polemiche sulla gestione commissariale dell’emergenza, il conteggio stupefatto dei danni e dei tempi di ripristino della vita civile, facevano i conti col ghiaccio già riversato sulla pianura. Di tante parole vergate febbrilmente su capricciose macchine da scrivere, nessuna
fu dedicata agli effetti sul territorio di quella mole impressionante di acqua surgelata, una volta tornata al suo stato naturale.
I sinonimi di esondazione sono: straripamento, inondazione, traboccamento, tracimazione. Per capire quello che è accaduto poi bisogna sapere che a nord di Milano, dai piedi delle prealpi al confine posto sul displuvio, il profilo delle valli prima di quello dei monti, era a questo punto della storia irriconoscibile.
La civiltà riposava, sepolta dalla coltre. L’abbandono precipitoso aveva lasciato spazio ad una quiete imbiancata e letargica. Quando i nevai cominciarono a fondere, nessuno era davvero preparato.
Dovete sapere che l’acqua di Milano, disciplinata in fiumi e corsi d’acqua dai nomi ignoti ai molti, proviene fondamentalmente da due fonti: il Ticino e l’Adda, completati dai rispettivi canali. Su questi, per quattrocento lunghi anni, erano transitate derrate e materie prime provenienti dalle regioni intorno. Solo nel ‘900 la bitumazione delle strade avrebbe messo definitivamente in ombra la loro importanza storica.
L’esondazione vera e propria cominciò nel mese di giugno del 1987. Dei due fiumi che lambivano la provincia, fu un terzo corso d’acqua a riportare la paura nelle strade. L’Olona lasciò il suo alveo, definitivamente occupato da ghiaccio e detriti, per farsi largo tra le carcasse dei palazzi in abbandono. Della fonte del fiume, ubicata nei pressi del Sacromonte di Varese, nessuno aveva notizie né testimonianze fotografiche da parecchi mesi. Le istantanee fanno impressione anche a vederle a tanti anni di distanza, impresse nella memoria collettiva come l’uomo coi sacchetti in piazza Tien-an-men.
Per prima venne la palude. L’orografia stravolta dalle radici dell’urbanizzazione, non era nota alle acque che si aprivano una rotta sulla base della consistenza degli ostacoli incontrati. Allora nessuno avrebbe pensato, nemmeno per un attimo, alla parola “ri-scal-da-men-to climatico”. Nel luglio del 1988, a due anni dall’avvio del disgelo, l’A.P.U., per esteso argine di protezione urbana, fu ultimato: Milano ne uscì fortemente ridimensionata e stravolta. Stabilito e ordinato il nuovo corso del fiume, per
quel che era possibile stabilire e ordinare, l’Oltreolona apparve. Una muraglia di cemento armato vibrato lunga sedici chilometri, feriva la città separando indelebilmente la west coast dal centro storico e dalle sue propaggini a nord e sud-est. Da 4 a 8 metri di altezza, da 2 a 5 metri di spessore, giorno dopo giorno la barriera prendeva forma con lo scopo dichiarato di tutelare la città dalle acque ma come ogni fortificazione si rivelò ben presto, e prima di ogni altra cose, un elemento di separazione tra chi abitava dentro e chi fuori dal nuovo confine.
L’alba di ruggine
La prima luce del 1993 viene ancora ricordata come Alba di ruggine. Nella city abitavano 318.455 figli dell’orgoglio, della disperazione e sfollati dell’hinterland, ad ovest del grande fiume era intanto sorta la Federazione della cintura ovest. Se all’interno dell’argine a difesa dei quartieri interni la vita scorreva febbrile all’insegna della ricostruzione, i quartieri e i comuni separati dalla forza delle acque, si erano organizzati in veste neofeudale, all’insegna di scontri di potere e di una caotica forma di ospitalità di quanti non avevano trovato posto a Milano. Orfano della pioggia di finanziamenti e
attenzione che la city concentrava su di sé, diviso al suo interno dagli allagamenti, l’Oltreolona aveva l’assetto amorfo di una rete di borghi alleati e al tempo stesso in competizione tra di loro. Così, dopo la stagione dello spaesamento e della caduta, vennero i giorni della discordia e della diffidenza, quelli citati nella Convenzione di Wagner (1995) come
il tempo fratricida della crisi ha messo a dura prova la tenuta dell’ordine democratico
E ancora
I firmatari del presente atto si impegnano a garantire il rispetto dell’alveo e la tutela del suo status di indipendenza fino all’avvento del 2000.
Lo spazio liminale che separava al tempo l’argine dalle paludi dell’Oltreolona, era destinato ad essere conteso, come e più di tanti muri eretti a separare i corpi, ben più a lungo di quanto ingenuamente previsto. I sabotaggi all’argine non tardarono ad arrivare: la primavera del ’94 è ricordata specialmente
per la prima breccia da cui l’acqua zampillò per dieci giorni ad alta pressione prima che i lavori di restauro fossero ultimati. All’interno della city non una sola voce pubblica in sostegno dell’azione si sollevò, eppure erano in molti a rumoreggiare nell’ombra. All’esterno della cinta si organizzavano cortei, dei molti è rimasto impresso nella memoria collettiva quello del 25 aprile 1994: tutti con gli ombrelli, un fiume umano sopra un fiume liquido, a combattere una pioggia senza fine con l’acqua alle caviglie nei punti più protetti. Una manifestazione di rabbia degna, “oceanica” e indimenticabile, filmata dagli occhi elettronici disposti in sequenza, a 100 metri dall’argine.
Né esclusivo né escludente, Oltreolona terra accogliente
In questo, tra i murales storici vergati ossessivamente nella periferia imbiancata, si perde la mitologia dei giorni della prima resistenza. Tanto più la city assumeva i contorni di una mini-metropoli postmoderna, verticale e prepotente, tanto più la sua versione periferica e litigiosa dell’Oltreolona ne inseguiva le orme in forma di contraltare umido e democratico. La ribellione ai posti di controllo, ai razionamenti, alle giornate di lavoro pubblico obbligatorio, da prepolitica divenne semi-clandestina ed organizzata, trovando terreno fertile all’ombra dei conflitti tra potentati locali.
Il programma di Rigenerazione fu esplicitato, col sostegno del governo nazionale, nel corso dell’unità di crisi dell’anno successivo (1995): l’allagamento controllato dell’Oltreolona avrebbe permesso di liberare Milano dalle acque, rinunciando al 15% del territorio originale ma evitando la definitiva distruzione delle fondamenta messe a dura prova da ghiaccio e ruggine. Contro questa ipotesi, che a pensarci a mente fredda pare davvero fantascienza, si opposero in pochi all’interno della city. Di segno opposto fu la reazione degli abitanti extra moenia, che, guidati dai gruppi di potere emersi dalle stagioni più rigide, credettero di sollevarsi contro l’esproprio manu militari del proprio quartiere, via, palazzo, appartamento, del proprio parco, alimentari, biblioteca, scuola.
Meglio divisi che allagati
recitavano gli slogan vergati a tinte forti sui muri in vista delle carcasse rugginose e sfatte degli immobili più imponenti. Il programma, che prevedeva la deviazione dell’Olona all’altezza del suo ingresso in città in corrispondenza dell’interramento a questo punto irreversibilmente ostruito, fu presentato in pompa magna e presto contestato in ciascuna delle borgate il cui futuro era minacciato dal pantano. E tornarono gli attentati alla diga, questa volta più rumorosi, così come tornarono i fuochi nell’Oltreolona, dove allo spettro dell’allagamento si aggiungeva quello dell’influenza più aggressiva del Dopoguerra.
Il villaggio ipogeo
Mutuo appoggio, ricostruzione, autodifesa
del Manifesto 94 non abbiamo che alcuni stralci. Si dice la sua copia originale sia stata andata distrutta nei giorni del rogo. Il motto è invece sopravvissuto alla fragilità della carta ingiallita dall’umidità e rappresenta lo spirito di quei mesi con limpidezza. Queste tre parole riassumono ancora oggi, per chi si è speso a tramandare l’epopea del villaggio ipogeo di Piazza d’armi, il punto d’attacco ineludibile.
Dove il suolo esisteva ancora, e fu possibile scavare e sopravvivere nei giorni più difficili, sorse infatti nell’antica area militare posta sulla via delle Forze Armate, una vera e propria cittadina sotterranea. Mentre la neve prima e l’acqua poi nutrivano la terra rendendola al tempo stesso inospitale, i grandi parchi urbani dimostravano tutta la loro resilienza, assorbendo le acque che il cemento e l’asfalto trattenevano in allagamenti senza fine. Assorbimento e dispersione, pozze in superficie e cunicoli sotto la prima linea di falda acquifera, che scaricava a sud il grosso delle precipitazioni.
Qui, dove nei giorni frementi erano stati cavati i primi tunnel per sopravvivere al freddo laddove la terra manteneva invece una temperatura statica, erano cresciuti nel tempo magazzini e stoccaggi sotterranei, quindi cunicoli per abitare e spostarsi da un quartiere all’altro senza bisogno di affrontare
i rigori della piccola glaciazione. In questo luogo, tra i molti, sorsero le prime cooperative di mutuo sostegno e trasformazione a lungo termine delle derrate. Sempre qui sorsero, siamo agli albori del 1998, i gruppi di autodifesa dell’Oltreolona, quando l’arroganza dei milanesi e la repressione dei Feudi
consorziati, dette il giro di vite finale in vista della conferenza per il riassetto urbano tra Est e Ovest. Il Villaggio ipogeo della Piazza d’armi non era l’unica ma rimase certamente un esempio di ispirazione per resistenti e resilienti di altre borgate e libere municipalità. L’adattamento alla vita sotterranea non fu semplice: se i primi tunnel furono aperti già durante la ghiacciata, solo nel tempo la complessità di cunicoli, scavi, camere ipogee e ancora raccordi, vie di fuga, impianti, portò a far emergere (almeno in termini figurativi) una vera e propria cittadella posta al di sopra e al di sotto del piano di campagna. Case, botteghe, scuole, magazzini erano disposti nel cuore di una pianta inestricabile di percorsi ipogei in cui era possibile difendersi dagli agenti atmosferici, dalle pretese dei Feudi e dall’aggressività paramilitare della city e delle sue incursioni a protezione dell’argine. Qui si accumulavano provviste offrendo forza lavoro, con impieghi anche nei Feudi circostanti, e ogni risorsa economica e materiale era messa in comune. L’amministrazione autogestionaria del villaggio prese forma poco per volta, si procedeva per esperimenti, litigi, tanti, e mutamenti di rotta. Il fatto più curioso era la scuola per adulti, laddove ciascuno poteva assumere il ruolo di docente ed alunna/o a seconda delle esigenze della stagione e dei saperi messi a disposizione della comunità. Il gruppo di autodifesa, l’unico ad abitare in pianta stabile sulle palafitte poste a tutela dell’area, contava nel 2001 almeno 230 elementi.
Lo sviluppo post-moderno della City conobbe una fase di accelerazione improvvisa con lo sblocco dei fondi ministeriali per l’emergenza e la crisi del 1999: da una parte un numero incalcolabile di cantieri fu aperto per smontare e ricostruire letteralmente metà del corpo urbano, dall’altro l’assalto umano di
marzo costrinse i due contendenti ad abbassare i toni dello scontro aperto per cercare una soluzione diplomatica al concreto rischio di allagamento del fronte ovest. Le lancette della Convenzione di Wagner correvano giorno dopo giorno. Solo agli albori del primo caldo la soluzione fu annunciata: rinuncia
definitiva all’allagamento dell’Oltreolona, convocazione di elezioni costituenti per la rifondazione della città di Milano, rinuncia all’autonomia amministrativa da parte dei feudi e libera partecipazione alle elezioni dei suoi leader incriminati per aver minato la stabilità dell’unione territoriale.
Nel 2000
Prenderemo quattro pillole e con gran semplicità, la fame sparirà
cantava nel 1959 Bruno Martino. Negli anni 00 di pillole ne circolavano in abbondanza, eppure la fame, specie quella di giustizia, non era affatto placata. Nel cuore della city i primi grattacieli alberati svettavano ricchi di essenze geneticamente modificate e frutti d’ogni colore, mentre all’esterno erano colture idroponiche e serre a
rinnovare il paesaggio dell’oltretorrente. Il cuore pulsante di Milano batteva frenetico di lavori in corso e grandi progetti di rigenerazione urbana: il nuovo stadio fu inaugurato nel 2002 sulla macerie del Piranesi, l’anno successivo furono aperti i distretti “tremila”: tre nuovi quartieri privati al posto della
tabula rasa degli scali ferroviari. E ancora nel 2007 il nuovo municipio aprì i battenti al 52esimo piano della Coima tower in Melchiorre Gioia.
Le elezioni, di volta in volta rinviate per via dell’ostilità e della litigiosità dei Feudi di fronte al nuovo corso, furono fissate con macabra ironia per l’8 settembre 2012. Una tortura di campagna elettorale aveva segnato le due stagioni precedenti all’insegna della riunificazione e della pace. Le bandiere
con lo stemma e il biscione, issate a centinaia ai due lati della barriera e presto sbiadite dal tempo, furono sostituite sei mesi prima a segnare un countdown dall’esito già scritto. Intanto in quanti erano ostaggio delle incursioni extraterritoriali della guardie di confine? In quanti erano stati comprati dalla
promessa di lavoro e casa per il ripopolamento della città di dentro?
Quegli stemmi erano diventati il simbolo manifesto di un’unione d’intenti ritrovata per scongiurare l’allagamento e la definitiva frattura della città ma segnavano anche l’inevitabile vittoria di un progetto che faceva pesare oltremodo la Potenza del capitale nella ridefinizione dell’assetto urbano e sociale del presente. Intanto i nostri tessevano incessantemente la trama di relazioni sommerse, esercitavano la prossimità, vivevano e resistevano con la stessa caparbia di chi non si adatta.
Epilogo
Ricordiamo il 1 maggio 2015 come i compagni degli anni ’60 o ’70 (allora si chiamavano così) omaggiavano la Comune di Parigi.
Non si può dire che non rimanesse nulla dello spirito che aveva animato l’Oltreolona ma quando alle 15 in punto cominciò la distruzione controllata di quell’odiato muro non tutti parteciparono alla festa. I mille giorni di tolleranza erano terminati e la nuova polizia unitaria aveva preso il controllo di quasi tutto l’agglomerato metropolitano. Gli scoppi, intervallati da pause di 6 secondi, durarono un minuto in tutto: 60 secondi per aprire una breccia nel manufatto che aveva diviso in due la popolazione.
Quella stessa mattina, a sorpresa, la carovana abbandonava il Villaggio lungo la linea di frontiera dell’Oltreolona alla ricerca di territori liberi dal giogo della modernità selvaggia, spazi nuovi territori per nuove forme di vita. La decisione di non annegare nel sangue la Resistenza fu presa, per una volta,
non dal più forte ma dai resistenti stessi. Il villaggio ipotesi brillò 15 minuti dopo i varchi aperti dalle esplosioni controllate nella diga. Un botto epocale, anzi una sequenza ordinata come una scarica di colpi a salutare i festeggiamenti che impazzavano al di là e al di qua del muro, quindi il rogo. La festa di chi, indomabile, non poteva trovare cittadinanza né requie.
Nel ricordo di quella resistenza, tanto coraggiosa e nomade da abbandonare Milano per portare altrove il germe della sua incompatibilità, si torna oggi, ad anni di distanza, in questo stesso territorio che pareva smarrito per sempre alle lotte, forti di una tradizione, quella del Far West di Milano, nuovamente
da solcare.
Bentornati.

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