giovedì 25 febbraio 2021

Antonio Caronia: Mondo impossibile!

 


Linus aprile 1984

Nella sua introduzione alla più recente edizione del romanzo di Orwell che quest’anno celebra una sorta di compleanno/scadenza (1984 Mondadori, pp. XIV-308, L. 16.000) Umberto Eco argomenta che non tanto di profezia o utopia negativa si tratti, quanto di storia. Soprattutto in questi ultimi anni ci si è resi conto che “quel libro, se da un lato parlava di ciò che è già avvenuto, dall’altro, più che parlare di ciò che sarebbe potuto accadere, parlava di ciò che stava accadendo”. Si tratta di un’interpretazione non nuova, ma che a me continua a sembrare convincente. E d’altra parte, in qualche modo, tutte le opere riconducibili al filone dell’’utopia negativa’, dai Viaggi di Gulliver a Terra! Di Benni, si caratterizzano proprio per il fatto che, facendo le viste di parlare del futuro o di paesi immaginari, parlano in realtà del nostro ‘qui e ora’. Detto questo non si deve però dimenticare che gran parte della presa di questi libri sul lettore sta proprio nell’effetto di straniamento, nel vero e proprio brivido che si prova a vedere proiettate le tematiche del ‘qui e ora’ su uno sfondo che non è quello che noi conosciamo adesso, ma è lontano da noi nel tempo, nello spazio e a volte anche nella logica. Questo è il modo di operare della narrativa fantastica di ogni tipo: la costruzione di un universo autonomo o, come è stato detto di un ‘mondo possibile’. Tanto è vero che la denuncia del totalitarismo di Orwell è diventata famosa più con 1984 (o magari con La fattoria degli animali) che con Omaggio alla Catalogna, narrazione fedele dell’esperienza dell’autore durante la guerra di Spagna, che affronta ugualmente il tema della critica allo stalinismo, e con una resa letteraria, a mio parere, superiore a quella di 1984. Ma questo non vuol dire che il successo di questo libro sia immeritato. Al di là della debolezza della scrittura, infatti, Orwell ha saputo tradurre la sua ispirazione politica e morale di fondo nella costruzione di un universo credibile, e non già rispetto all’attendibilità dell’estrapolazione o alla verosimiglianza della previsione scientifica, ma rispetto alla coerenza interna di quel mondo. Per costruire un “mondo possibile” avvincente, che funzioni dal punto di vista narrativo, che tenga insomma il lettore attaccato alla sedia, non è sufficiente affastellare particolari curiosi o stravaganti, stravolgere le leggi della fisica, della sociologia o della scienza politica. Bisogna riuscire a mettere in opera delle leggi che facciano funzionare i dispositivi fondamentali di quel mondo in modo credibile e coerente. Ora le due più grandi scuole di costruzione di “mondi possibili” nella narrativa popolare del nostro secolo sono state, a mio parere, la fantascienza per così dire “classica” (quella che gli appassionati chiamano “tecnologica”, fiorita soprattutto negli anni Quaranta: alla Asimov, tanto per intenderci) e il filone più chiaramente fantastico, quello delle varie terre di mezzo, il cui rapprenetante insuperato rimane Tolkien. Oggi però l’ortodossia di queste correnti (cioè la fedeltà più o meno accentuata alle convenzioni e ai modi di questi due generi, o sottogeneri) mi sembra in declino, e comunque sforna prodotti sempre più deteriorati. In misura maggiore, devo dire, la prima, e cioè la fantascienza “classica”. Prendiamo un esempio recente: I costruttori di Ringworld  di Larry Niven (Fanucci, pp. 354, Lire 12.500), séguito del più famoso Ringworld del 1970 che aveva avuto i premi Hugo e Nebula. Grande precisione di particolari tecnici, alieni di ogni tipo, avvenimenti a iosa, ambienti i più diversi, il tutto sullo sfondo di un gigantesco mondo artificiale ad anello grande tre milioni di volte la Terra. Lo sforzo immaginativo non manca, ma la storia non regge e si trascina stancamente. “Che cos’era un uomo, di fronte a una creazione artificiale tanto immensa?” riflette Niven con sconvolgente profondità a p. 75, e decide di rimanere fedele per altre 300 pagine a questa apprezzabile ma un po’ statica verità. Tutt’altro sapore si avverte davanti al ciclo del Nuovo Sole, quattro romanzi di Gene Wolfe di cui sono apparsi in traduzione italiana i primi due, mentre è in preparazione il terzo (L’ombra del torturatore, Nord, L. 8.000; L’artiglio del conciliatore, Nord, L. 10.000). Gene Wolfe è uno degli autori più interessanti della fantascienza americana, una  curiosa figura di ingegnere che già negli anni Settanta aveva dimostrato di saper ben giocare con le regole tradizionali del genere (ma in Italia, per le ragioni che evito di ripetere per la centesima volta, non si erano finora visti tradotti che due o tre racconti). Qui si cimenta con il fantasy e con il suo classico armamentario di situazioni e figure: un mondo dalla struttura produttiva e sociale di tipo francamente medievale, un giovane eroe che compie il suo apprendistato di torturatore, una spada (ovviamente), un viaggio e una ricerca. Ma gli stereotipi appaiono corrosi dall’interno, nella narrazione aleggia un clima di inquietudine e di ambiguità che produce un fascino diverso dal ritmo ampio e disteso di tolkien, ma altrettanto intenso. Wolfe controlla con grande sapienza il suo mondo possibile: sa, come sapeva Orwell, che esso è un fatto prima di tutto linguistico. E forse sta qui la chiave dell’inquietudine e del fascino di cui si è detto. Ma ne riparleremo a ciclo concluso.

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