martedì 25 maggio 2021

Antonio Caronia e Giuliano Spagnul, Storia di una cassetta degli attrezzi



È stata un’idea dell’editore, non nostra. Noi non siamo il tipo di persone che stanno a rimpiangere il proprio passato, a crogiolarsi nelle esperienze che hanno fatto e a piangere sulle tristezze e la decadenza del presente. Certo, i confronti sappiamo farli, e ne faremo anche in questa introduzione. Ma senza nessuna nostalgia. Le esperienze passate, se servono, servono a conservare un’ispirazione e un atteggiamento, non a coltivare rimpianti. E quindi, grazie a Pierre Dalla Vigna e alle edizioni Mimesis che hanno voluto la ristampa integrale di una rivista, di una storia di trent’anni fa: Un’ambigua utopia (UAU). Un episodio “forse trascurabile”, come avverte Domenico Gallo introducendo le memorie di tre ex componenti di quell’omonimo collettivo; ma un episodio che, in virtù di un punto di osservazione privilegiato, può illuminare squarci di storie collettive di più ampio respiro. Innanzitutto c’è la storia della rivista, quella apparentemente più facile da esaminare e da giudicare; con invidiabile pignoleria Piero Fiorili, nel suo intervento (che potete leggere, insieme ai nostri, in appendice al secondo volume), ce ne dà un preciso regesto, ma la sua descrizione accuratamente impietosa dei primi componenti del collettivo ha il merito di operare una sorta di scarto nella memoria di chi ha vissuto quell’esperienza, tra un quieto ricordo di quelle persone e una più attenta, meno pacificata, rammemorazione delle stesse.

Un sindacalista appassionato più che altro di cinema fantascientifico, (…) uno studente quindicenne, (…) un giovane illustratore in cerca di uno sbocco professionale, (…) un ragioniere che si occupò quasi esclusivamente di tenere la cassa di UAU, (…) una meteora che non ricordo cosa facesse, e neanche che faccia avesse, (…) un fotografo che campava vendendo servizi a varie riviste e che viveva in una casa arredata con cassette di frutta. 

 Sarebbe materiale per un racconto fantastico tendente al grottesco. Ma non è per fare della facile ironia che abbiamo fatto un collage di queste descrizioni; è perché veramente esse danno, quasi loro malgrado, il senso di quello che è stato il collettivo di UAU, e ci avvertono dell’impossibilità di farne una storia separata da quella della rivista. Proviamo a fare il confronto con una storia simile situata ai giorni nostri: un gruppo di giovani apre un circolo culturale, magari fruendo anche di qualche contributo degli enti pubblici attinto ai fondi per le politiche giovanili. Sarebbe mai possibile fare una descrizione dei suoi componenti come quella che abbiamo letto adesso per UAU? Il collettivo fa un bilancio delle attività svolte, un bel resoconto con tanto di fascicolo a colori, statistiche e diagrammi. A chi verrebbe in mente di descriverne i membri in questo modo, con questa ombra di sinistra inquietudine (penso in particolare a quell’essere meteora, privo di faccia)? Oggi quel che conta in un gruppo che fa attività culturali è il numero di eventi che è in grado di produrre, la quantità e il tipo di pubblico che riesce a coinvolgere, e se poi riesce addirittura a progettare un festival di qualcosa di cui ancora non sia stato fatto un festival, allora siamo al top. E invece quel gruppo di trent’anni fa era il prototipo di tanti altri gruppi simili, formati da individui con caratteristiche peculiari che influenzavano irrimediabilmente, con le loro particolari deformità e mostruosità, il prodotto culturale che andavano costruendo, e di cui per fortuna non erano tenuti a produrre bilanci.  A dispetto di quello che tanti pennivendoli ne scrivono oggi, gli anni settanta in Italia furono un enorme cantiere sperimentale, una rassegna di innumerevoli modi di praticare nel concreto le varie utopie di cambiamento del mondo, insieme alla costruzione di un’impalcatura reale e duratura di quel contropotere necessario a sostenerlo. Ma questo non significa affatto indulgere alla stupida contrapposizione, tanto in voga oggi, tra ’68 e ’77; sappiamo bene che quest’ultimo, senza il primo, non avrebbe neanche potuto esistere, ma sosteniamo anche che quel tanto vituperato ’77, quel Franti nella classe delle date storiche, fu uno tra i più significativi sussulti rivoluzionari nella controstoria del nostro paese. Quello che più di tutti ha da un lato allargato a dismisura la partecipazione a tutte le classi, le categorie, i generi di persone, senza di fatto certificare l’egemonia di nessuna di esse sulle altre; e dall’altro ha messo in campo tutte le pratiche di cambiamento possibili – economiche, culturali, spirituali, sessuali e via dicendo – in una continua e incessante discussione che si concentrava in modo particolare sulle questioni del potere e della violenza. Senza dimenticare che tutto ciò, ritratto in questa sintesi un po’ sommaria ma fedele, poggiava su quella vera e propria faglia di Sant’Andrea che fu il femminismo. Se non teniamo presente questo quadro di riferimento, la storia di UAU, insieme a quella della stragrande maggioranza delle altre storie di allora, non solo è trascurabile, ma è del tutto incomprensibile. La fondatezza e la veridicità del quadro che abbiamo delineato si ricava, in negativo, proprio da quanto è accaduto dopo, dalle mosse astute e intelligenti di chi in quegli anni era sotto attacco e misurava tutta la propria difficoltà. Perché c’è stato chi, meglio di noi, ha saputo far tesoro di quanto di ricco e innovativo emergeva da quel bozzolo di crisalide che il movimento di quegli anni andava tessendo con poca pazienza e tanto furore. Il capitale, nel suo processo di trasformazione, ha saputo inglobare molte delle esperienze ad esso antagoniste – basti pensare alle pratiche relazionali femminili, o a quelle inerenti a un rapporto diverso col corpo proprio e altrui – tanto da far apparire il “pensiero unico” che andava costruendo e la nuova organizzazione socioeconomica pieni delle più strabilianti e diversificate attrattive. Per quanto riguarda noi invece, noi che ancora abbiamo voglia di definirci antagonisti (e non chiedeteci a chi o a che cosa, fosse anche solo a noi stessi sarebbe già abbastanza, in questo universo in cui l’unica cosa che ci riesce ancora di condividere con qualcuno è l’incubo in cui viviamo), be’, noi non abbiamo saputo capitalizzare (scusate il termine) granché. L’odierno movimento, il più documentato, autoradiografato e con una interconnessione in tempo reale tra tutti i suoi membri e componenti non è ancora in grado di sviluppare un dibattito sui propri meccanismi di potere e di violenza pari neanche alla centesima parte di quella che si sviluppò allora. Uno smisurato velo di oblio si è steso su quegli anni, ma i discorsi non possono ripartire da zero, soprattutto se chi quei discorsi li ha fatti è ancora vivo e vegeto e interagisce con la realtà odierna, indipendentemente dal ruolo con cui vi opera attualmente. Più che giustificato, quindi, rimestare le ceneri di quel passato, fosse anche solo per far rivivere un documento marginale di quel contesto quale fu UAU. Le responsabilità di aver distrutto la famiglia, aver praticato e teorizzato la violenza, aver voluto rompere il vaso di Pandora del sesso, e, saltando gli altri innumerevoli peccati, di esserci infine anche occupati di fantascienza, ce le dobbiamo assumere tutte. E lo facciamo volentieri. Nove numeri di una rivista partita con un ciclostile e approdata a una vera tipografia, un libro, una libreria, tentativi vari di sedi redazionali (in proprio o ospiti di altre realtà aggregative), manifestazioni, dibattiti, convegni, feste, trasmissioni radiofoniche, una vasta eco sulla stampa nazionale non di settore, e una proliferazione di altri gruppi e riviste associate in tutt’Italia. Se andassimo a vivisezionare questa mole di esperienze, con qualche abbellimento qua e là, ne potremmo ricavare un quadro estremamente gratificante. Ma sarebbe una falsificazione, così come lo sarebbe per altro una visione contrapposta tutta fallimentare. E se, com’è ovvio, le “giuste vie di mezzo” continuiamo a schifarle, ciò che si può dire ed è giusto dire di quell’esperienza è che tutti noi che ne facemmo parte, l’abbiamo vissuta, l’abbiamo agita. Tutti abbiamo potuto fare i conti con essa privi di qualsivoglia obbligo esterno al nostro sentire, padroni del nostro agire, e liberi dalla minaccia di quell’essere agiti dal dovere di un’istanza superiore , sia essa politica o squisitamente culturale, da cui tutto il movimento di quegli anni era o si stava definitivamente emancipando. In quel contesto di spaesante ebbrezza, prendersi delle responsabilità nello spingere verso una direzione piuttosto che un’altra era possibile solo al di fuori di qualunque garanzia di protezione, ideologica, normativa ecc. (quanto al proporsi come leader, era qualcosa che allora equivaleva a un suicidio). Un’ambigua utopia non è stata un’eccezione. La sua nascita e la sua morte non possono essere addebitate a responsabilità singole, individuali. E la sua fine, se da una parte si inscrive nella scia del concomitante esaurirsi della storia del movimento degli anni settanta, dall’altra va di pari passo con quella vera e propria devitalizzazione che il genere “fantascienza” andava man mano evidenziando proprio in quegli anni. Insomma, nonostante il tentativo di ampliare il proprio  orizzonte verso un immaginario più ampio di quello legato alla fantascienza, UAU non poté certo sopravvivere alla fine di quest’ultima. Ma perché scegliere proprio la fantascienza, con quella sua ombra di irriducibile fiducia nel progresso e nella razionalità tecnico-scientifica, già in crisi alla fine dell’Ottocento e di nuovo sotto attacco proprio in quegli anni da parte di una rinvigorita critica politica? Perché non piuttosto il fantasy, e i suoi legami con quel fantastico che attraverso i miti, le leggende e le fiabe, percorreva sia i tempi remoti che le diverse culture, geografiche e sociali (da quella popolare a quella colta)? Tra l’altro, in questo caso, avremmo avuto come avversari proprio quelli a noi più pertinenti, i fascisti dei Campi hobbit, per intenderci, e non quella strana melassa, assolutamente aliena alla nostra pur volenterosa comprensione, che erano e sono i fan della fantascienza. Estraneità, sia detto qui per inciso, che riguardava tutti i fan, di destra o di sinistra che fossero. La rabbia di un compagno come Vittorio Curtoni, nel congedarsi da Robot al momento della chiusura della rivista, contro i suoi stessi lettori, risultò a tutti noi semplicemente incomprensibile. Eppure, riflettendo a posteriori, era un gesto emblematico della differenza che c’era tra noi di UAU e un qualsiasi fan anche di sinistra: nessuno di noi metteva al primo posto la fantascienza, qualsiasi strategia e qualsiasi tattica ci potesse dividere, nessuno si era costruito, tramite la fantascienza, il proprio giocattolo solipsistico. Nessuno tendeva a evasioni da abate Faria. Con la fantascienza non pensavamo di evadere dalla prigione, ma di distruggere quella prigione, o per meglio dire, di avere uno strumento in più per farlo. Il fatto è che eravamo convinti che la fantascienza fosse la forma narrativa più adatta ad esprimere la sensibilità di una società industriale matura. Ballard l’aveva detto prima di noi, sin dai primi anni Sessanta, e restò fedele sino alla fine a questa convinzione, anche quando ormai non scriveva più fantascienza. Nella sua autobiografia, scritta l’anno prima di morire, nel 2008, diceva:

Io pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che da un certo punto di vista la fantascienza sia stata la vera letteratura del XX secolo, e che abbia avuto una grande influenza sul cinema, la televisione, la pubblicità e il design dei prodotti di largo consumo. Oggi la fantascienza è il solo luogo dove sopravvive il futuro, come la fiction televisiva in costume è il solo luogo in cui sopravvive il passato (I miracoli della vita, Feltrinelli, Milano 2009, p. 162).

La fantascienza era il tipo di letteratura che meglio esprimeva la mediazione fra natura e cultura messa in atto dalla società industriale, ma proprio per questo era anche quella che meglio ne esprimeva la crisi. Se nei primi decenni del Novecento il suo immaginario era un inno alla tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle sue capacità, con Ballard, con Dick, con il primo Vonnegut, più ancora forse con la visionarietà barocca di William Burroughs, cominciava ad emergere un’altra visione e un’altra pratica, con cui la fantascienza avrebbe accompagnato la trasformazione dell’economia e della società in senso postfordista, registrando e proiettando la crisi di quel modello titanico e prometeico, cantandone il tramonto e l’avvento di nuove preoccupazioni e di nuovi scenari dell’immaginario, quelli che poi si sarebbero espressi negli anni ottanta nel movimento cyberpunk (che della fantascienza fu in effetti il canto del cigno). Ma, paradossalmente, era proprio la sua nascita “sporca”, erano i pulp americani degli anni venti e trenta, era la sua impossibilità di aspirare a natali più nobili (una scorsa ai pretesi ascendenti storici, a partire da Luciano di Samosata, si commenta da sola), era tutto questo che ai nostri occhi rendeva la fantascienza suscettibile di un ventaglio di approcci estremamente variegato. In quella discarica di immondizia in cui ci si poteva imbattere in rifiuti tossici per lo spirito, per la razionalità o per la semplice igiene fisica e mentale, con i suoi superuomini, mutanti, alieni e invenzioni altamente improbabili, in quella sorta di fiera del cattivo gusto estesa a dimensioni galattiche, qualcosa tendeva però ad emergere in superficie urlando la propria indisponibilità alla salute del mondo. Un mondo malato che necessitava disperatamente di un pharmakon in grado di salvarlo. Una componente indispensabile di quel pharmakon si trovava proprio in quel monte di immondizia, tra quella nauseante puzza di rifiuti. I seguaci della fantascienza, i sacerdoti e i semplici devoti di quel monte, hanno saputo vedere la componente salvifica di quell’enorme simulazione della messa in crisi del mondo e di tutte le possibili forme di cura dello stesso. Assecondare la lacerazione del tessuto della realtà per evidenziarne i punti di rottura e porvi rimedio. La fantascienza, al contrario del fantasy, non costruisce altri mondi in cui trasmigrare, lasciando andare alla deriva quello che si abita realmente. È terribilmente gelosa della propria appartenenza terrestre. La datità è il grande Moloch a cui si sacrifica, e se la mette in discussione è solo per meglio rafforzarla. Ma è un gioco sul filo del rasoio, e alla lunga questo mettere in crisi per risolvere produce come scarto un’ansia che si accumula sempre più, fino a trasformarsi in vera e propria paura senza riscatto. Alcuni autori, o semplici appassionati come noi, hanno intravisto, poco importa quanto consciamente, come questo vero e proprio sintomo della crisi del mondo fosse sottovalutato e usato male, e da alleati della cura ci siamo fatti alleati della malattia. D’altra parte questo fu l’uso della fantascienza che non proponemmo, alla fine degli anni settanta, solo noi, ma tutto un nutrito settore della cultura underground, e anche alcuni filosofi visionari e radicali come Baudrillard. Se la fantascienza di Dick, di Ballard, di Burroughs, ebbe la capacità di distanziarsi dal suo tempo per vedere i germi di un futuro che si stava preparando e che presto non sarebbe più stato futuro, ma onnipresente presente, se seppe “ricevere in pieno viso il fascio di tenebra che proveniva dal suo tempo„ (per usare un’espressione di Giorgio Agamben) senza indulgere ad alcuna tentazione salvifica, fu perché essa sapeva vedere nel contingente il suo rovescio, fu perché sapeva rovesciarne il linguaggio. Perché sapeva mentire. Perché sapeva costruire degli obbrobriosi falsi, e in questi falsi sapeva illuminare di luce obliqua e radente la verità che pareva nascosta, e invece era lì, a disposizione di chiunque volesse vederla. Il valore della fantascienza, anche di quella più miserabile e rattoppata, consisteva in fondo in due punti fondamentali. In primo luogo, essa minava – a volte apertamente scardinava – la nozione più ristretta di “realtà„, metteva in dubbio che la realtà potesse identificarsi con l’esistente, reintroduceva a vele spiegate il possibile come irrinunciabile elemento costitutivo del reale (secondo un programma già espresso anche da Robert Musil negli anni trenta). In secondo luogo la fantascienza, traducendo in termini molto accessibili la crisi del soggetto narrante impersonale e onnisciente su cui si basava il romanzo realistico ottocentesco, introduceva nella narrazione il punto di vista del futuro (o del passato, o del presente alternativo): ma così facendo contribuiva a mettere in discussione la neutralità della narrazione, e mostrava più in generale che ogni discorso viene enunciato da un luogo preciso, da un tempo determinato, da un corpo concreto. E che quindi è illusorio – e quasi sempre mistificante, e prevaricante – assegnare a certi racconti, a certi saperi, a certe enunciazioni, un valore assoluto e universale, svincolato dalle condizioni storiche e contingenti delle narrazioni, dei saperi, delle enunciazioni. Che ogni sapere ha (per usare il termine di Foucalt) un’epistéme, che ogni discorso è prodotto da una “formazione discorsiva„. Che ogni conoscenza è “situata„. Le stesse cose che, più o meno negli stessi anni, andava scoprendo il pensiero femminista, per rivelare le mistificate radici maschili e fallocentriche del pensiero occidentale. E questo lega la fantascienza (nella sua accezione più radicale e davvero immaginativa) alla critica corrosiva del fake, alle identità immaginarie e collettive, alla guerriglia mediatica. Che è quella che praticò per breve tempo il movimento studentesco del 68 a Parigi come a Roma e a Berlino (prima di finire frantumato e immiserito nella diaspora dei presuntuosi e impotenti gruppetti della sinistra sedicente “rivoluzionaria„), quella che continuò a vivere con l’endemica rivolta dei giovani operai italiani ed europei per tutti gli anni settanta – nella quotidiana ricerca di invenzioni per realizzare il rifiuto del lavoro, quella che deflagrò come pratica condivisa e unica forma possibile di insurrezione in Italia tra la fine del 1976 e il marzo del 1977. UAU dal suo iniziale, risibile, ingenuo quanto si voglia, “vogliamo distruggere la fantascienza”, sino al gatto del Cheshire sornione e inquietante dell’ultimo numero della rivista (catalogo di una mostra convegno sulla simulazione, gli ologrammi e il falso, forse un po’ in anticipo sui tempi), non ha perseguito altro scopo che questo. Distruggere. Allearsi alla malattia lasciando operare il sintomo. Distruggere la fantascienza significa usarla e non servirla. Ma il nostro uso politico della stessa non aveva per noi solo lo scopo, dichiarato, di redimerla dall’apparente neutralità del prodotto di genere, rivelandone le ideologie soggiacenti: meno dichiarato ma – credo – ben più rilevante, era quello di far emergere dalle sue viscere la sua più intima vocazione di strumento, di cassetta degli attrezzi, o per dirla alla Gunther Anders, di “filosofia grossolana”, capace di affrontare la disperata situazione di un mondo, per la prima volta in grado di distruggersi nell’arco di un amen. C’era molto pressappochismo, almeno nella prima serie di UAU, ma nessun intento divulgativo, né spirito scolastico. E abbiamo fallito. Certo. Ma la nostra speranza è di continuare a farlo. E che altri, dopo di noi, lo possano fare ancora, e ancora, e ancora.



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