lunedì 11 dicembre 2017

Antonio Caronia: Utopia e Fantascienza. Un menage difficile. 2^ Parte


Natura e produzione.
Ma perché insomma, non troviamo utopie nella fantascienza? Perché la raffigurazione del futuro o del possibile è utilizzata prevalentemente o in funzione anti-utopica o in funzione di conservare e preservare l’esistente? Thomas Disch non ha dubbi. Secondo lui, le utopie sono “notoriamente noiose, stupide, e ripugnanti”, (e tuttavia aggiunge “comunque abbiamo bisogno di utopie”)9. Ma così il problema è solo spostato: perché a Disch – e ad un osservatore del XX secolo – le utopie appaiono tali? Azzardiamo un’ipotesi: una delle differenze di fondo fra la letteratura utopica e quella di fantascienza al di là delle analogie nella configurazione del discorso di cui parlavamo all’inizio, potrebbe risiedere nel carattere fondamentalmente religioso della prima e, diciamo così, laico della seconda. Ma forse è ancora troppo poco. Che cosa significa, infatti, la religiosità dell’utopia classica? (Che la religiosità ne sia un carattere portante pare difficile contestarlo, da Moro e Campanella fino a Fourier) Significa il vagheggiamento di una natura – e di un rapporto dell’uomo con la natura come parte di essa – o incontaminata, restituita ad una purezza originaria (l’età dell’oro), o nuovamente fondata, ma sulle basi di una razionalità indiscussa, ideale, che non può avere il suo fondamento che in Dio – una razionalità trascendente, insomma. L’immaginario dell’Utopia è un immaginario trascendente, insomma. L’immaginario dell’Utopia è un immaginario trascendente. Quello della fantascienza, al contrario , è completamente immanente. Esso non procede da un’idea originaria o ideale di Natura, ma dalla realtà della natura, così come il capitalismo in espansione la ha trasformata o la sta trasformando. La fantascienza classica è la letteratura della produzione, della sua espansione illimitata, dell’energia e di tutto ciò che essa è in grado di far funzionare (di “materiale” e di “spirituale”), della macchina come prolungamento dell’uomo e della sua capacità, del modo di produzione capitalistico che si espande e si afferma su tutto l’universo. La distanza fra l’Utopia e la Fantascienza non sarebbe, insomma, altro che quella che separa l’organizzazione del sapere nei secoli XVII e XVIII nello spazio dell’Ordine, della Rappresentazione, dell’organizzazione del sapere affermatasi nel XIX secolo attorno al concetto di Storia.10 Questo potrebbe forse essere messo in relazione con il passaggio dal carattere spaziale, locativo delle Utopie classiche (l’isola felice, il paese della Cuccagna) a quello prevalentemente temporale della Fantascienza (non alludiamo solo ai viaggi nel tempo, ovviamente, ma alla caratteristica ambientazione nel futuro): “Una borghesia trionfante introduce una storica rottura epistemologica nell’immaginazione umana, attraverso cui il tempo lineare o scandito dall’orologio diviene lo spazio dello sviluppo umano perché esso è lo spazio della produzione industriale capitalistica”11. Non troveremo utopie in senso classico nella Fantascienza, in altri termini, perché lo spazio per pensare l’immaginario si è ristretto, nel senso che l’immaginario si identifica sempre più con la gamma delle varie possibilità aperte a partire dalla situazione data. L’utopia di uno sviluppo illimitato e tutto inglobante, al limite l’ideologia tecnocratica, tipiche della fantascienza “tecnologica”, e l’antiutopia satirica o drammatica non sarebbero, viste da questa prospettiva, che due facce della stessa medaglia. Le utopie della fantascienza non possono dunque che essere “ambigue”, nel migliore dei casi: Anarres reca dentro di sé i germi che possono, a lungo andare, trasformarla in una nuova Urras. E le stesse eccezioni più rilevanti a questa difficoltà della Fantascienza di trattare l’Utopia – vogliamo dire le utopie di società solo femminili, che si incontrano di recente in varie opere scritte da donne – non ci consegnano certo un messaggio univoco e refrattario alla sua messa in discussione12.
Dilatazione dell’immaginario nell’epoca dei modelli
Il discorso potrebbe anche fermarsi qui, se oltre e accanto a quella che abbiamo chiamato la “fantascienza classica” ci fosse il vuoto. Non è così. E le tendenze più recenti meritano qualche cenno anche per il discorso che stiamo tentando di fare qui. Che dopo l’esperienza della New Wave inglese e le sue propaggini americane si sia scatenato il casino, e la Fantascienza stia mutando sotto i nostri occhi verso una direzione (o direzioni?) non chiara, è stato già osservato da chi da più anni di questo genere si occupa.13 Qualche interpretazione, però, è possibile azzardarla. Ci ha provato Laura serra, per esempio, in una introduzione all’antologia di Wolheim (Il meglio della fantascienza) del 197714. La Serra osserva giustamente che un possibile filo conduttore di quell’antologia può essere visto nel rapporto Realtà-irrealtà, o nei problemi del rapporto uomo-realtà esterna. In effetti, in alcuni dei racconti di quell’antologia, questo rapporto tende proprio a vanificarsi. Prendiamo La banca della memoria di John Varley: un uomo rimane intrappolato in un computer, il cervello collegato alle sue terminazioni, e lì vive alcuni anni soggettivi (scoprirà poi che in “tempo oggettivo” sono solo alcune ore) di esperienze indistinguibili da quelle che avrebbe potuto vivere in un vero “mondo esterno”. Il finale sembra ricomporre l’immagine del mondo e la distinzione fra reale e immaginario; tuttavia non appare convincente, e le “scorie” di indistinzione che vi rimangono hanno una corposità ben più inquietante: un attimo prima che Fingal, l’uomo intrappolato, ritorni alla “realtà” la sua istruttrice tramite filo, Apollonia, tenta di rassicurarlo sulla validità degli studi che egli ha compiuto nel calcolatore, e se ne esce con questa significativa battuta: “Ma non era soltanto un gioco. Lei ha imparato veramente le cose che ha imparato, ed esse non le usciranno di testa, una volta ritornato. Certamente quella carta che tiene in mano (la laurea, ndr) è immaginaria, ma chi crede che stampi quelle vere? Nel computer lei risulta aver superato tutti i corsi prescritti, e questo è ciò che conta. Al suo ritorno riceverà un diploma vero”15. Situazione analoga in Problema d’identità, di Barrington J. Bayley: Naylor viaggia nello spazio con il suo tespitron, una sorta di apparecchio televisivo che è capace di produrre all’infinito storie che riproducono schemi logici e drammatici del mondo esterno e del suo proprietario. Fra la storia del tespitron e quella che vive Naylor nella nave spaziale si stabilisce un parallelismo mediato dalle riflessioni filosofiche del protagonista sul problema del pensiero e dell’identità. Alla fine, punito per aver abbandonato la “solida saggezza dell’empirismo materialista”16, Naylor si perderà nello spazio.    È possibile che il problema della distanza fra realtà e immaginazione, fra sogno e vita cosciente (il problema della diminuzione, al limite dell’annullamento di questa distanza) sia un filo conduttore utile per leggere le più interessanti tendenze dell’ultima fantascienza? Io credo di sì. Se Varley e Bayley sembrano essersi fermati a un certo punto di questo discorso, nei due racconti citati, Thomas Disch va ben più in là. I suoi racconti17 offrono esempi convincentissimi di “intrecci” (se così si può dire) o situazioni che a prima vista appaiono semplici trasposizioni di temi classici della fantascienza – o più spesso dell’orrore: ma basta fermarsi un attimo ad analizzare la sensazione stringentissima di angoscia che si prova nel leggerli per accorgersi che essa è dovuta principalmente all’instaurarsi di una circolarità fra realtà e irrealtà, in cui quest’ultima ha la stessa corposità della prima, e ne risulta indistinguibile. Le scale mobili in discesa di un grande magazzino scendono per centinaia di piani, e il viaggio all’inferno dura giorni e giorni; l’intuizione del protagonista che, riuscendo ad arrivare in fondo, riuscirà a trovare anche le scale in salita, è giusta: la morte non sopraggiunge perché il viaggio è infinito, ma perché sulle scale in salita è appeso il cartello: “Fuori servizio. La Direzione” (Scendendo). La Testa non è più una parte del corpo, ma una protesi intercambiabile, con i suoi input e otput, che garantisce tutte le sensazioni e le prestazioni… di che cosa? Dell’originale? Non è affatto sicuro che ci sia un originale (Divertitevi con la vostra nuova testa). John Benedict Harris, teorico dell’architettura, va ad Istanbul per liberarsi “dal senso di quello che gli era familiare” e dimostrare che le strutture architettoniche, come ogni altra struttura, sono costruzioni arbitrarie. Scoprirà che ogni costruzione intellettuale riposa sulla “disponibilità del pubblico a lasciarsi ingannare, disponibilità che rappresenta il vero cemento del contratto sociale”, e dovrà subire, suo malgrado, un costante e inspiegabile slittamento di identità, tornando a vivere con una donna e un bambino turchi che non aveva mai visto in precedenza ma che aveva abbandonato (Riva d’Asia). E possiamo fermarci qui. In realtà Disch, fornendoci la descrizione dell’intellettuale che, chiuso ermeticamente in una stanza senza contatti con l’esterno, produce storie e scritti che gli vengono sottratti e di cui non sa la destinazione (La gabbia dello scoiattolo), ci parla generalmente della condizione umana nell’epoca in cui sono i media a costruire il nostro reale, producendo un enorme vortice di fatti, rappresentazioni, spettacoli, in cui il senso si distrugge, e la gente va allo stadio con le radioline per essere sicura che quello che sta vedendo è proprio reale18. Ma non ci parla delle stessa cose Lafferty, quando ci racconta degli uomini raddoppiati (Cammelli e dromedari, Clem), dei continenti che si restringono e si allargano (Crisolite intero e perfetto), dell’interscambiabilità fra sogno e realtà (Sogno), dello sconvolgimento del tempo (Rainbird, Continua sulla prossima roccia?)?19. Attenzione: non è Lovecraft, non è la certezza (che sia certezza solamente letteraria o totalmente personale da poter essere classificata come malattia mentale, poco importa) non è la certezza, dicevamo di un ordine sottostante o sovrastante al nostro reale, al nostro quotidiano, in attesa di risvegliarsi e distruggerci: è la consapevolezza che l’altro, il totalmente arbitrario, abita tra noi e invade il nostro quotidiano. Non è il nonsense di Lewis Carrol, strumento per arrivare ad un nocciolo di verità dissimulato sotto le cose: è la consapevolezza che realtà e irrealtà sono ugualmente e assolutamente prive di senso. L’immaginario, buon vecchio rassicurante duplicato – distorto e deformato – del reale, è cresciuto come quella carta geografica dell’Impero di cui parla Borges, sempre più perfetta, tanto da coprire esattamente il territorio che pretendeva rappresentare. Non poteva accadere altrimenti nell’era dei modelli. “I modelli non costituiscono più una trascendenza o una proiezione, non costituiscono più un immaginario in rapporto al reale; sono essi stessi anticipazione del reale, e non lasciano perciò alcuno spazio ad alcun tipo di anticipazione finzionale; sono immanenti, e non lasciano perciò alcuno spazio ad alcun tipo di trascendenza immaginaria. Il campo che si apre è quello della simulazione in senso cibernetico, cioè quello della manipolazione in tutte le direzioni di questi modelli (scenari, messe in opera di situazioni simulate, ecc.): ma allora nulla più distingue queste operazioni dalla gestione e dalla stessa operazione del reale: non è più finzione”20. Non c’è utopia. E, per restare nel campo della fantascienza, tutto ciò ha dei padri, di cui non c’è più lo spazio per parlare, qui, ma che non si può fare a meno di ricordare, ripromettendoci di parlarne quanto meritano in futuro: Philip K. Dick e James G. Ballard.
Nota 9: AA.VV. Domani andrà meglio, cit., introduzione
Nota 10: Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose,  Rizzoli, Milano 1967.
Nota 11: Darko Suvin, La Fantascienza e il “Novum”, cit. p. 7.
Nota 12: I racconti scritti da donne che descrivono società  esclusivamente femminili meriterebbero più lunga trattazione. Io mi limito a questo breve accenno, visto che è preannunciato, per il prossimo fascicolo di Un’Ambigua Utopia, un contributo collettivo di alcune compagne.
Nota 13: Cfr. V. Curtoni, G. Lippi, Guida alla fantascienza, Gammalibri, Milano 1978, pp. 133-137; e anche V. Curtoni, Succede nella SF, editoriale di Robot n. 27 (1978).
Nota 14: L. Serra, I fantastici tempi del combustibile liquido, in: La banca della memoria, Il meglio della fantascienza nel 1976, Robot n. 30, 1978.
Nota 15: Ibid, p. 48
Nota 16: Ibid, p. 186
Nota 17 La raccolta più ricca è quella pubblicata in Urania: Thoma M. Disch, La signora degli scarafaggi, Urania 750, e La stanza vuota, Urania 752 (1978) da cui sono tratti tutti i racconti citati qui.
Nota 18: Cfr. Jean Baudrillard, L’implosione del senso nei media e l’implosione sociale nelle masse, in AUT AUT n. 169, gennaio-febbraio 1979, anche, di Baudrillard,  All’ombra della maggioranza silenziosa, ovvero la morte del sociale, Cappelli, Bologna, 1978.
Nota 19: Raphael A. Lafferty: Strani fatti, (antologia), Robot n. 31, 1978.

Nota 20: Jean Baudrillard, Simulacres et science-fiction, intervento al convegno di Palermo, cicl. P.2 (traduzione nostra; anche l’intervento di Baudrillard dovrebbe essere compreso nel volume degli atti del convegno).

(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia n. 2 marzo-aprile 1979) 

venerdì 8 dicembre 2017

Antonio Caronia: Utopia e fantascienza. Un menage difficile. 1^ Parte


“E lui chiese a Gargantua d’istituire il suo Ordine al contrario di tutti gli altri. – Per prima cosa allora – disse Gargantua – non bisognerà costruirvi muraglie all’ingiro, visto che tutte le altre abbazie sono fieramente murate.
Francois Rabelais
“L’utopia si presenta come un giardino ben riuscito: ogni cambio di stagione porta con sé il suo nuovo ciclo di colori piacevoli, profumi paradisiaci e lavoro da spaccare la schiena.
John Sladek

Utopia e Fantascienza, sembrerebbe, denunciano parentele e frequentazioni comuni indubitabili. Analogo sembra, se non il progetto, o l’intenzione, perlomeno il mezzo scelto, la configurazione di fondo del discorso. Entrambe ci parlano di una realtà “altra”, diversa, lontana nello spazio o nel tempo; ma entrambe ce ne parlano con più di un occhio aperto e spalancato sulla nostra realtà. Certo, in modo ben più consapevole negli utopisti che negli scrittori di fantascienza. Ma è risultato ormai acquisito generalmente (se escludiamo gli apologeti sciocchi e i detrattori per partito preso) che, in maggiore o minore misura, comunque a prescindere dalla consapevolezza che gli autori ne hanno, l’uso dei marchingegni, delle situazioni, dei personaggi e degli scenari della fantascienza fornisca le opere in cui questi marchingegni, ecc. ecc. si calano, di un discorso abbastanza preciso sulla nostra società, sulla nostra realtà. È giusto insistere su questo punto, perché la sua negazione rappresenta uno dei pregiudizi maggiormente diffusi sulla Fantascienza, fra chi non la legge come fra chi ne legge troppa e/o troppo distrattamente. E non parliamo qui dei capolavori, egli autori più avvertiti e più interessanti della Fantascienza, ma del prodotto, per così dire, commerciale medio. Anche nelle space operas, più superficiali, nei più squallidi romanzi di Ron Goulart o di Vargo Statten (tanto per fare degli esempi e farci qualche altro nemico) troveremo in controluce un discorso su di noi, su qualche aspetto della nostra condizione sociale o morale o affettiva; un discorso forse inconsapevolmente da parte dell’autore, ma intenzionale, sul piano dell’opera. Diverso quindi, tento per intenderci, da quello che troviamo in altri generi di narrativa popolare, dal giallo all’orrore al romanzo di avventure. Non che questi ultimi siano, per così dire, atemporali. È ovvio che ritroviamo anche in loro, per lo stile, per l’ideologia rispecchiata o proposta, per il tipo di maschere che vi fungono da personaggi, il marchio del loro tempo, il discorso letterario (e quindi di potere) egemone. Ma questo nel giallo, o nell’orrore, avviene per così dire, una volta per tutte: il marchio si imprime nel genere in quanto tale, non nelle sue variazioni e articolazioni concrete che sono i singoli romanzi e racconti1: non è così nella fantascienza. Qui il discorso sull’oggi, su di noi, non è dato una volta per tutte, impresso nelle caratteristiche di un genere che, a meno di varianti tutto sommato inessenziali, si ritrova immutato nelle varie opere e, in ultima analisi, riscrive sempre la stessa storia. Qui il discorso è ricco, articolato, spazia su tutti i temi della condizione umana, non ripete mai lo stesso cliché: anche se, a voler fare un discorso statistico, è ovvio che questo discorso risulta nella maggior parte dei suoi casi reazionario, conservatore, un puro contributo alla conservazione dei rapporti di potere esistenti.

Utopie e antiutopie

Ma torniamo all’utopia. Utopia e Fantascienza, dunque, parlano di altri mondi per parlarci di noi. Da un certo punto di vista si potrebbe forse sostenere che la fantascienza è la più grande produzione di utopie del nostro tempo. Per affermare questo occorrerebbe però servirsi di un’accezione del termine “utopia” un po’ troppo ampia. Identificare l’utopia con la manipolazione, il gioco letterario sul possibile sotto qualsiasi forma può essere forse affascinante, ma rischia di far perdere spessore a quello che l’utopia storicamente è stata. Ora non c’è dubbio (come del resto ha mostrato bene Henri Desrosche nell’articolo che precede)(*) che l’Utopia scritta e praticata, dai primordi alla fioritura rinascimentale fino ai grandi sistemi socialisti del XVIII/XIX secolo, è stata costantemente intesa come società ideale, perfetta, immagine o simulacro non localizzabile ma proposto come valore, contrapposto alla società esistente2. Da questo punto di vista, allora, cercheremmo invano le utopie nella fantascienza. O meglio, ne troveremmo alcune, ma isolate, eccezionali. E insomma non tali da caratterizzare la fantascienza come genere “utopico” /e anche questi casi isolati meritano esami particolareggiati, perché la loro classificazione come “utopia” non è del tutto pacifica: ad alcuni di essi accenneremmo più avanti). Se un rapporto più preciso con l’Utopia è intrattenuto dalla Fantascienza, si tratta piuttosto – sul piano contenutistico e stilistico – di un rapporto negativo: la Fantascienza abbonda, insomma, di quelle che sono state definite “antiutopie” o “distopie”. Non è difficile tracciare una linea (neanche poi tanto contorta) che parta da Wells (in particolare La macchina del tempo) tocchi due o tre scrittori la cui appartenenza al campo fantascientifico è più reclamata dagli appassionati e dai critici specializzati che ammessa dagli interessati – diciamo ovviamente l’Orwell di 1984 e La fattoria degli animali, l’Huxley di Il mondo nuovo, il Vonnegut di Player Piano – e arrivi alla stagione della Fantascienza di critica sociale – quella fiorita sulla rivista americana Galaxy a metà fra i ’50 e i ’60 e nota presso gli appassionati col nome di “fantascienza sociologica”. Questa linea ha alcune propaggini che arrivano sino ai nostri giorni, e io vi includerei anche Ursula Le Guin, che è probabilmente l’ultima grande scrittrice di fantascienza “classica”,3 e ovviamente in particolare il suo I reietti dell’altro pianeta, che potrebbe essere annoverato fra le poche eccezioni “utopistiche” della fantascienza di cui si parlava qualche rigo sopra. Mentre nella letteratura utopica abbiamo in genere il modello di un Viaggiatore, proveniente dal nostro tempo, o dalla nostra società, che visita la società alternativa, e quindi istituisce, intenzionalmente o no, un parallelo fra istituzioni sociali, politiche, religiose, economiche (e a volte anche vita quotidiana) del mondo reale e di quello immaginario, il modello del racconto anti-utopico si basa generalmente su un conflitto fra la società del futuro (o dell’allegoria) e il Ribelle, che può anche essere portatore delle convinzioni in nome delle quali l’autore si oppone al tipo di società raffigurata. Il modello “conflitto fra Ribelle e Società totalitaria” può combinarsi sia con il modello tratto dalla grande tradizione europea del “romanzo di sviluppo”, sia con il vecchio modello dei viaggi meravigliosi e della letteratura utopica classica, quello del viaggiatore. Nel primo caso, che è quello di 1984, o di Mercanti dello spazio di Pohl e Kornbluth, il Ribelle è un membro disciplinato della società, che all’inizio ne accetta almeno apparentemente  regole e convenzioni, ed è portato a ribellarsi per effetto di un processo di maturazione, di sviluppo individuale, che a poco a poco gli svela la “vera natura” della società in cui vive e lo convince della necessità di opporvisi. Nel secondo caso, un magnifico esempio del quale è Un biglietto per Tranai di Robert Sheckley, il protagonista è invece un viaggiatore che visita la società anti-utopica (convinto magari, come nell’esempio citato, che sia il paese di Utopia), si rende conto dell’errore e scatena il conflitto. In entrambi i casi (più nel primo che nel secondo, evidentemente) la “distanziazione cognitiva” di cui parla Suvin4 – cioè, nel caso concreto, la coscienza del carattere “antiutopico”, negativo, della società descritta – è affidata ad un confronto implicito  fra la società narrata e le potenzialità esistenti in quella reale: implicito, cioè non affidato a prese di posizione di qualche personaggio nella narrazione, ma alla struttura semantica e sintattica della narrazione. Il riferimento alla realtà dell’autore è del resto, per Suvin, un carattere di tutto il genere fantascientifico: “Dal momento che, a differenza del racconto fantastico o mitologico, la SF non mostra un’altra realtà più alta e ‘più reale’, ma un’alternativa sullo stesso livello ontologico della realtà empirica dell’autore, si dovrebbe dire che la correlazione necessaria del novum  è una realtà alternativa, che possiede un diverso tempo storico corrispondente alle diverse relazioni umane e norme socio-culturali rese attuali dalla narrazione. (…) La specifica modalità di esistenza (della SF) è un’oscillazione di ritorno, che muove ora dalla norma della realtà dell’autore e del presunto lettore verso il novum…, in modo da capire gli eventi dell’intreccio, ora in direzione opposta da queste novità verso la realtà dell’autore, in modo da vederla daccapo dalla nuova prospettiva che è stata ottenuta. Questa oscillazione (è stata) chiamata estraniamento da Skhlovsky e Brecht.”5  Naturalmente c’è una bella differenza fra la “distanziazione cognitiva” della linea Wells-Orwell-Vonnegut-Pohl/Kornbluth-Shekley-Le Guin, (che ha poi dietro di sé il grande esempio di Swift) e quella dell’altra linea della “fantascienza classica”, che dalla space opera luccicante di acciai e lustrini va al “verosimile” tecnologico predicato da Campbell e realizzato da Asimov6 e continuato dai suoi stanchi epigoni di oggi, Niven, Pournelle e simili, la “cara, vecchia fantascienza di base”, insomma che “altro non è che un implicito programma di riforma della società secondo principi tecnocratici: il mondo visto come una trappola perfezionata”7. L’utopia di Asimov, se così la si può chiamare, è un’utopia della sopravvivenza. “sopravvivenza fisica dell’umanità”  non meno che ”sopravvivenza dei dati essenziali della sua cultura”, della cultura di quella “classe media, spina dorsale dell’impero americano, (che) si costruisce nelle pagine di questo scrittore  medio e nelle imprese dei suoi eroi medi un monumento destinato a durare oltre la fine dell’Eternità”8.

Nota 1: Facciamo qui riferimento essenzialmente al giallo poliziesco di tipo inglese, e non al giallo americano hard-boiled per il quale, perlomeno nel caso di Chandler e Hammet, il discorso sarebbe diverso.
Nota 2: Darko Suvin, Pour une poétique de la science-fiction, Montréal, 1977, 1.ère partie, chap. IV.
Nota 3: Il significato dell’espressione “fantascienza classica” sarà più chiaro nel seguito dell’articolo, con esso intendo delimitare tutte le correnti e gli autori, anche attivi in questi anni, che non intrattengono alcun tipo di rapporto con la lezione della new wave.
Nota 4: Darko Suvin, op. cit., 1.ère partie, chap. 1.er.
Nota 5: Darko Suvin, La fantascienza e il novum, relazione introduttiva al convegno internazionale di Palermo, cicl., p. 6 (di prossima pubblicazione negli Atti del Convegno presso l’editore Feltrinelli).  
Nota 6: Non stupisca questo accostamento, inusuale, nelle periodizzaziobni della fantascienza in uso presso la critica nostrana, fra la space opera e la FS tecnologica di Campbell. Le differenze sono molte, ma l’atteggiamento nei confronti del reale, per il discorso che qui ci interessa, è del tutto analogo.
Nota 7: AA.VV., Domani andrà meglio, (a cura di T. Disch). Fantapocket Longanesi, Milano 1977; introduzione di T. Disch, p. 7.

Nota 8: Alessandro Portelli, Il presente come utopia: la narrativa di Isaac Asimov, in Calibano n. 2, Savelli, Roma, 1978, p. 175 e 179.     

(*): Henri Desroche, La cavalcata delle utopie.

(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia n.2 marzo-aprile 1979) 

sabato 2 dicembre 2017

La filosofia del post-umano: nuova frontiera del soggetto. Antonio Caronia, Mario Pireddu e Antonio Tursi


Non è la prima volta che l’uso di un termine è causa di ambiguità e di confusione nella comprensione del concetto che vuole esprimere o del processo che vuole descrivere. Questo è tipico in particolare dei neologismi con prefisso post-, che si riferiscono al superamento o alla profonda modificazione di una situazione mentre il processo è ancora in corso, e quindi non è ancora chiaro l’approdo, neppure provvisorio, a cui essi tendono. Col termine “post-umano” sta accadendo qualcosa del genere, come peraltro già accadde col termine “post-moderno”. Come in quel caso, post-umano si riferisce a una serie di trasformazioni di portata molto generale che riguardano il rapporto dell’uomo col mondo e i dispositivi di regolazione delle culture: in definitiva l’uso di questo termine segnala che siamo in presenza di nuove caratteristiche del cammino dell’umanità che, iniziato oltre tre milioni e mezzo milioni di anni fa con la comparsa delle prime specie di primati a stazione eretta e a vocazione tecnica, non ha mai smesso di trasformarsi e di ridefinirsi ad ogni nuova tappa del connesso sviluppo delle tecniche e delle culture. È vero che, come nel caso del dibattito sul post-moderno, anche il termine post-umano finisce per coprire una serie di visioni molto diverse e spesso antitetiche, tutte sviluppate a partire dal riconoscimento comune del carattere di nuova soglia tecnologica e culturale che i processi in corso comportano. È bene osservare però che in questo dibattito i sostenitori delle posizioni più radicali ed essenzialiste (coloro, cioè, che mettono l’accento esclusivamente o prevalentemente sulle modificazioni morfologiche a cui l’uomo dovrebbe prepararsi per effetto dei nuovi strumenti messi a disposizione dalle tecnologie informatiche, biologiche e bioinformatiche), preferiscono utilizzare il termine “trans-umano”.
A differenza di questi ultimi (come Hans Moravec, o i redattori della Dichiarazione transumanista del 1999, Max More e altri), non riteniamo che il punto sia quello della nascita – desiderabile secondo loro, da esorcizzare o da respingere secondo altri – di una nuova specie che si appresti a sostituire l’homo sapiens a seguito di una serie di ibridazioni con le tecnologie: queste posizioni le consideriamo deboli, intrinsecamente contraddittorie, e pensiamo anche, come ha osservato il biologo Roberto Marchesini, che esse non superino affatto l’umanesimo e l’antropocentrismo della tradizione occidentale, ma al contrario ne rappresentino una tardiva e iperbolica esaltazione. Il pensiero del post-umano non deve limitarsi ad esaltare acriticamente una “nuova specie” che attraverso la tecnologia sconfigga la morte, ma deve certamente assumere tutta la complessità di una situazione nella quale sono entrati in crisi i tradizionali rapporti fra dato biologico e dato culturale. Post-umano significa, in questo senso, il riconoscimento che l’equilibrio fra componenti culturali e componenti biologiche nell’essere umano sta cambiando in modo più radicale di quanto non sia mai cambiato nella storia della specie, ma che questa discontinuità è comunque effetto di una storia evolutiva che non viene affatto negata. Se i processi di ibridazione stanno subendo un’estensione e un’accelerazione senza precedenti, ciò non deve far dimenticare che l’ibridazione è sempre stata presente nella storia dell’umanità, e che su di essa si è basato ogni processo culturale. Quello che oggi c’è di nuovo è che il ritmo di trasformazione culturale e tecnologica sta mettendo in discussione il ruolo che la biologia dell’essere umano aveva sinora avuto, e cioè quello di segnare il limite dell’evoluzione culturale. Questo è conseguenza del salto che le culture stanno facendo da una scala locale a una scala globale, da una dimensione di adattamento a una dimensione di espansione, da una sfera di intervento limitata alla materialità del mondo esterno alla possibilità di influire direttamente sulla dimensione genetica e biologica dell’essere umano stesso.
Di fronte a processi di tale portata lo sgomento e lo sconcerto possono essere reazioni comprensibili, ma impediscono di valutare con chiarezza la situazione, e soprattutto suggeriscono interventi di rifiuto e di ritorno a uno statu quo ante che, oltre a essere impossibili, ci lasciano disarmati di fronte alle conseguenze più negative dei processi stessi. L’atteggiamento più giusto, di fronte alle tematiche del post-umano, ci pare quello che Karl Marx propose di fronte al capitalismo: non rifugiarsi in un impossibile “ritorno al passato”, ma assumere coraggiosamente la nuova situazione economica, sociale e culturale per fare emergere al suo interno le possibilità di liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dal dominio, un obiettivo che solo le nuove condizioni, e non le antiche, permettevano. Così oggi affrontare i problemi del post-umano significa lavorare perché le nuove possibilità dispiegate dalla tecnologia significhino possibilità di emancipazione e di sviluppo di nuove soggettività.
Confrontarsi con l’orizzonte post-umano comporta aprirsi all’alterità di un mondo globalizzato e abbandonare le rivendicazione di un “umanesimo” che è stato quasi sempre sinonimo di antropocentrismo: oggi che il diverso ci è sempre più vicino, non è più accettabile la pretesa di de-finire l’Uomo in base a limitate categorie (ragionevole, bianco, colto, proprietario, occidentale). Ancora: è stata la cibernetica a mettere addirittura l’accento sulle possibilità comunicative del non-umano, inteso come macchina (o come animale), e appare ormai meramente autocelebrativo il richiamo alla differenza dell’umano in quanto unico essere capace di comunicazione. Tralasciando pure il discorso sulle macchine, è quasi banale ricordare come siano tantissime le specie animali in grado di comunicare, e di farlo in maniera anche molto complessa, non solo tra conspecifici ma anche tra appartenenti a specie differenti. Il concetto di post-umano, dunque, lungi dall’essere anche solo simile a quello di post-organico o trans-umano, implica per noi il riconoscimento della necessaria apertura all’altro e all’alterità per la definizione di ciò che siamo in quanto umani.
Infine, non possono essere taciute le dirette ricadute che il discorso del post-umano ha sulla sfera del politico e dei diritti: a questo proposito non c’è a nostro avviso nessun tentativo di “onnipotenza” nel voler comprendere più da vicino la natura delle relazioni tra uomo e tecnologia –
come ha invece suggerito di recente Pietro Barcellona nella sua lectio magistralis in onore di Pietro Ingrao dal titolo “L’epoca del post-umano”. Non consideriamo onnipotenza l’utilizzo di determinate competenze per contrastare l’insorgere di nuove malattie o per combatterne di già esistenti. Il problema semmai si pone quando si esercita un controllo tale per cui anche le forme di intervento che più dipendono – o dovrebbero dipendere – dal libero esercizio della volontà individuale vengono negate nel nome di una tensione morale che non sempre appartiene a tutti. Come è accaduto per la legge 40 sulla fecondazione assistita, con cui si è negato il diritto della donna all’utilizzo consapevole delle tecnologie per la procreazione, e come accade quotidianamente per chi sente il bisogno di chiedere la sospensione di terapie che non curano più, ma si limitano a prolungare la morte. In quest’ultimo caso ad essere negato è il diritto al rifiuto consapevole della partnership tecnologica, laddove la si ritenga ormai un peso e non più un aiuto.

L’orizzonte post-umano si presenta, dunque, come richiamo all’autonomia della sfera personale, alla consapevolezza nell’accettazione e nella rinuncia, all’attraversamento delle soglie e all’ibridazione con l’alterità. Non più hybris come momento di crisi ma come motore di coniugazione, non più le tecnologie e i media come meri strumenti ma come parti di noi stessi, del nostro vivere, del nostro abitare.

Pubblicato su Liberazione 21 aprile 2007

Alcuni articoli di Antonio Caronia sul post-umano:
Dopo l’uomo – L’insolenza dell’ibrido, in Cyberzone n. 16 2002   https://www.academia.edu/305674/Dopo_l_uomo_L_insolenza_dell_ibrido
Corpi e informazioni. Il post-human da Wiener a Gibson, in Post-umano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, a cura di Mario pireddu e Antonio Tursi, Guerrini e Associati, Milano 2006  https://www.academia.edu/304324/Corpi_e_informazioni._Il_post-human_da_Wiener_a_Gibson
Il corpo in trappola, in Equilibri n. 2 2008

Per un’antropologia evoluzionista, Prefazione a Cristian Fuschetto ‘Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopolitica’, Mimesis. Milano 2010   https://www.academia.edu/487022/Per_unantropologia_evoluzionista