lunedì 27 dicembre 2021

Una strana idea.

 


Strana idea quella di volersi ostinare a “Continuare a distruggere la fantascienza” (1) quando la suddetta è già bella che morta da almeno mezzo secolo. E ancora più strano ostinarsi a ribadire questo impulso (forse un po’ necrofilo?) su una neonata rivista, necrofila a sua volta nel voler possedere la compianta defunta Un’Ambigua Utopia, deceduta da quasi un quarantennio.  Confrontarsi con le nuove generazioni, anche scontrarsi, è sempre entusiasmante. Le tue convinzioni, per quanto possano contare su un passato più lungo di esperienze, non possono altresì contare su un altrettanto lungo futuro. E il futuro, con le sue memorie e il suo intenso vissuto, è il terreno in cui i giovani possono muoversi con un tipo di agio che a noi vecchi, ormai, non è più concesso.

Forse per questa mancanza di un qualunque stimolo d’entusiasmo è stato difficile, per non dire impossibile, confrontarmi con un gruppo la cui età media coincide con la mia, o forse (o anche) perché nella morsa degli impulsi nostalgici il rischio della caduta negli stati confusionali caratteristici della nostra età senile sono troppo alti. Lo dimostra l’editoriale di questa UAU 11 (consultabile anche sul sito col titolo “La nostra storia”) in cui i redattori scoprono di essere rimasti, rispetto alla redazione di allora, solo in otto: “due colonne, Antonio e Giancarlo ci hanno lasciati, Giuliano ha scelto di non partecipare, Piero è molto anziano e poco attivo e tutti noi che qui trovate elencati siamo vecchietti e in pensione. Ma non abbiamo mollato ancora.” Anch’io non ho mollato, anche perché dovrei sapere prima cosa ho da mollare… Una militanza? Quella che abbiamo conosciuto in gioventù è finita da un pezzo, e almeno questa è stata una fortuna! Un’appartenenza? Destra e sinistra, due appartenenze che sempre più rischiano di essere puramente nominali. Un’identità? Questa forse sì è il problema che qui mi sembra più rilevante. Dimenticarsi, come è stato fatto in questa storia di un “noi”, di compagne e compagni che hanno fatto altrettanto parte di quella vecchia esperienza non credo possa addebitarsi al problema senile quanto piuttosto al bisogno di volersi sentire maggioranza e pertanto legittimati nel costituirsi come identità, come un ‘noi’ forte che possa reclamare diritti di proprietà. Chiedo scusa a nome loro a Luci Pittan (che non è più tra noi), Michela Panigada, Enrico Miotto, Maurizio Giannoni, Renato Aquilani, a Flavia De Giovanni e insieme a lei a tutte/i quelle/i che sono entrati attivamente negli ultimi tre anni della vita del collettivo (di cui rammento poco volti e nomi essendone io uscito proprio allora). Ricordo con commozione però quando al funerale di Antonio Caronia ha parlato una compagna che ha esordito dicendo “noi di Un’Ambigua Utopia” ed io con Giancarlo Bulgarelli e Patrizia Brambilla ci siamo guardati in faccia stupiti perché non ce la ricordavamo.

Perché in realtà UAU è stata veramente un “noi” ma ben di più ampio respiro di quanto si vorrebbe far credere in quella nuova storia fatta ad hoc. Perché è vero che tutte le storie sono di parte e parziali, ma quelle che si costituiscono in un dibattito nel corso degli anni hanno un valore di memoria che, per quanto inventata (e quale non la è?) si costruiscono come storie operanti nel presente. L’invenzione di una storia ad hoc per legittimare un’operazione improvvisa ha un valore completamente diverso in quanto ha la sola finalità di giustificare tale operazione. Ma non c’è nessuna legittimazione possibile ad un’operazione di accaparramento di una storia che non è solo quella degli anni ’70, ma è soprattutto quella che da più di vent’anni hanno portato avanti Caronia, il sottoscritto e tutte/i quelle/i compagne/i del movimento, attiviste/i dei centri sociali o meno, come ad esempio quelle che hanno messo in piedi l’Archivio di UAU (Bibliotork Interzona Caronia) del C.S. Torchiera, o quelli che hanno digitalizzato e resa pubblica l’intera serie della rivista e prodotto il n. 10 di UAU. Numero unico quest’ultimo perché privo, da parte di chi l’ha fatto, di istanze proprietaristiche, e quindi a disposizione, in quanto attrezzo libero, di chi abbia voglia ed esigenza di usarlo nel rispetto della sua specifica storia interna al movimento antagonista.

E forse questa è stata una pretesa eccessiva. Questo decimo numero a cui ho collaborato ma che non nasce da una mia proposta ma dal gruppo di digitalizzazione (anni fa avevo proposto al C.S. Il Cantiere un n. 10 fatto con un finto materiale recuperato nel classico baule della soffitta dell’immaginario, un fake da realizzare per il primo anniversario della morte di Caronia, che purtroppo non si è potuto realizzare)  è stato costruito come continuazione di un ciclo di incontri sulla fine dell’uomo al C.S. Piano Terra. Ma è evidente che nonostante la cautela e le premesse prudenziali di non voler far rinascere alcunché, del non voler cadere nelle maglie del nostalgico ritorno al passato, i rischi di inneschi di questo tipo c’erano tutti. Avrei molto volentieri evitato questo intervento ma non credo ci sia altro modo per contrastare quella confusione generata da un’iniziativa che si vorrebbe in continuità con tutto quello che è stata finora la storia di UAU e al contempo ne prende le distanze con la rivendicazione di una diversa via autonoma all’interno del vecchio collettivo.

È vero che quando si costituì il collettivo ci furono due linee contrastanti, una che voleva svolgere all’interno del mondo fantascientifico, sia nell’ambito ristretto del fandom che in quello più generale dei lettori anche occasionali del genere, sulla scia della pretesa egemonia culturale della sinistra che anche in questi ambiti particolari poteva e doveva rendersi tale (portata avanti soprattutto da Bulgarelli) e quella del sottoscritto che con l’editoriale del n. 1 annunciava la “distruzione della fantascienza”. Una line di politica culturale classicamente di sinistra contro una più settantasettina, tanto ingenuamente quanto genuinamente ribelle. Entrambe convergono però in quell’idea di far entrare la politica nella fantascienza coll’idea che si potesse separarne la parte buona (di sinistra) da quella cattiva (di destra). L’elenco degli scrittori pro e contro la guerra in Vietnam certificava proprio questo intento. In un qualche modo era difficile per tutti noi liberarci dai condizionamenti di un genere che aveva condotto le generazioni pre e post Seconda Guerra Mondiale attraverso il più rivoluzionario cambiamento epocale, quello tecnoscientifico, che l’umanità abbia mai fatto. Quell'inizio di distanziazione dal genere e di una larvale presa di coscienza di avere a che fare con qualcosa che oggi sappiamo essere stato un efficace dispositivo di assoggettamento è avvenuto solo con l’apporto di Caronia. Nessuna delle due linee preesistenti viene sconfitta, perdono semplicemente di significato perché prive di validi argomenti. Al di là dello slogan settantasettino non c’era poi molto d’altro e sulla vantata egemonia della sinistra e sulla sua liceità, lasciamo perdere!

Con molta franchezza va detto che il collettivo che trovava Caronia al suo ingresso non poteva vantare né un’esperienza di pratica politica né di preparazione culturale pari alla sua, sempre che si voglia essere sinceri! Il livello degli articoli, al di là delle buone intenzioni, più che lodevoli, certo, non poteva dirsi particolarmente elevato. Del resto era un po’ per tutti un’utile palestra. Ma, ancora di più, le idee erano abbastanza confuse e il livello di conflittualità non poteva, oltre agli scazzi, dare alcun contributo arricchente. Prova ne era, oltre a quell’ingenua suddivisione tra fantascienza di destra e di sinistra, soprattutto l’incapacità di uscire da quello schema asfittico di demarcazione del territorio tra ciò che è o non è fantascienza. Come dimostra l’incapacità di collocare nel n. 2 dedicato ai bambini nella SF l’articolo “Perché non voglio avere un bambino” altrimenti che non in fondo, fuori dal monografico. Occasione sprecata per situare un discorso astratto, che si distingueva da tanti altri solo per un linguaggio di sinistra stereotipato, in una situazione di vita concreta, vissuta.

Se analizzassimo la rivista nella sua evoluzione, così come nelle numerose attività parallele al collettivo, si potrebbe dimostrare facilmente che la “svolta” di Antonio non è stata un’altra strada ma l’unica strada per un’esperienza che volesse stare dentro quel Movimento che stava tentando l’ultima, drammatica e gioiosa al tempo stesso, scalata al cielo. Ipotizzare due identità autonome all’interno di UAU, una che fa un percorso dalla “politica alla fantascienza” e l’altra “dalla fantascienza alla politica”, (anche volendo dare per scontato  che questi due percorsi così descritti abbiano un senso logico) e che “per alcuni anni furono superbamente intricate” vuol dire sclerotizzare una storia che ha avuto una pluralità di identità per quante sono state le decine e decine di persone che l’hanno attraversata e fatta vivere. Le due anime conflittuali dell’inizio, abbastanza confuse da non potersi delineare come precise identità autonome con l’arrivo di Antonio perdono la loro superficiale e sterile dicotomia sciogliendosi in una pluralità di identità e posizioni variegate. In “Distruggere l’utopia”, nel libro collettivo in memoria di Antonio Caronia, Mondi altri, Mimesis 2016) ho descritto quello che penso sia stato il significato del lavoro di Antonio all’interno di UAU e credo che questo possa delineare  il senso di tutta quella vecchia esperienza e e la sua possibile risignificazione oggi: “L’incontro di Antonio Caronia con un gruppo, con un ‘noi’ che non rinnega una precisa affiliazione politica ma che rifiuta una qualsivoglia progettualità a cui dover aderire collettivamente gli permette di portar avanti una propria ricerca personale, un proprio progetto di lavoro capace di avvalersi degli stimoli e dei confronti con quello degli altri senza dover imporre necessariamente il proprio. Trent’anni dopo la fine di questa esperienza, in una video-intervista parlando del suo punto di vista sull’arte nel movimento, prospetta una modalità del lavorare insieme in cui il criterio generale ‘sarebbe quello di un posto, di un collettivo, di un luogo in cui l’attenzione sia contemporaneamente o in tempi molto vicini, in modi molto vicini, al modo in cui sorgono le idee, al modo in cui sorgono i progetti, al modo in cui si pensa l’innovazione espressiva e contemporaneamente la si pratica, la si mette in opera” insomma, quasi un’ambigua utopia riadattata per il nuovo millennio.’ L’apporto di Antonio ha reso più concreta quel tipo di “utopia” che Primo Moroni ha esplicitato come la capacità di “diffondere saperi senza fondare poteri”. Alcuni di quei “noi” ne avranno saputo trarre vantaggio, altri evidentemente no.

(1): Il contributo in oggetto QUI mio e di Alberto Di Monte è stato dato al n. 11 della neonata rivista prima di aver potuto leggere l'editoriale. 

domenica 21 novembre 2021

Continuare a distruggere la fantascienza


 

Continuare a distruggere la fantascienza

Nel 1977, l’anno che ha visto bruciare tutti i desideri possibili di una generazione che sognava di dare l’assalto al cielo, l’editoriale del primo numero di Un’ambigua utopia titolava “Distruggere la fantascienza”. Questo dialogo, pontiere tra due generazioni a confronto, riprende la matassa di quell’ipotesi di lavoro su un genere stressato da tentazioni estetizzanti e schiacciamento sul tempo presente

Giuliano Spagnul - Nel 1965, a pochi anni dallo sbarco sulla Luna, la televisione italiana (che all’epoca aveva due soli canali le cui trasmissioni finivano, come i mascheramenti di Cenerentola, allo scoccare della mezzanotte) ha mandato in onda un ciclo di sei film1 di fantascienza. Fu un evento epocale in cui la cultura di massa doveva misurarsi, in prima serata, con opere di una certa levatura della settima arte: Eisenstein, Dreyer, Ford, Lang, per fare solo qualche nome. L’ansia per un possibile incipiente ultimatum alla terra e la speranza nelle “magnifiche sorti e progressive” che il connubio scienza e tecnica sembrava offrire, si coniugavano in un immaginario fantascientifico ad uso popolare che conteneva in sé sia la critica che l’adeguamento alla velocità del progresso tecnoscientifico, che andava modificando irreversibilmente gli automatismi soggiacenti ai normali comportamenti quotidiani. Voi giovani siete il prodotto di questa fucina di trasformazione che noi abbiamo deciso, quanto subito. Pensi che la tua, come le altre ancor più giovani generazioni, siate in grado di immaginare (e quindi di non esserne stati del tutto privati) quel senso di speranza verso un futuro come promessa, per quanto talvolta inquietante e minacciosa che muoveva la nostra, come le precedenti generazioni?

Alberto Di Monte - Sono cresciuto in tempo di monopolio capitale. Un tempo orfano di socialismi desiderabili, in cui i concetti di blocco e di muro evocano immagini inedite rispetto a quanto risuona nella testa dei miei familiari. Ho conosciuto l’ondata montante della crisi climatica: ieri terreno di conflitto accademico, oggi matrice di sopravvivenza, processi migratori e accaparramento di risorse. Oltre le facili retoriche thunberghiane sul fallimento della generazione che mi ha preceduto, l’ineluttabilità di un futuro come minaccia, o quantomeno incognita, è chiaro a quante e quanti mi circondano. I tentativi di sottrazione a questo senso di incombenza, anche in campo letterario, svelano il loro carattere ideologico ed estetizzante, suggerendo affreschi rigenerativi e resilienti (ma scevri dal conflitto) ad un pubblico che nutre presentimenti survivalisti.

G.S. - Se la fantascienza ha corroso dall’interno il mito del progresso, come diceva Antonio Caronia “nutrendoci dell’immaginario della catastrofe e del dramma insito nella potenza della tecnologia”, in che modo, con quali discussioni pensi che oggi la tua generazione avverta i tentativi di una riproposizione della fantascienza in termini progressivi e ottimistici? Mi riferisco tanto ai manifesti dell’ottimismo tecnologico del solarpunk (in contrapposizione al nichilismo catastrofico cyberpunk) quanto a posizioni che sottendono tesi accelerazionistiche, piuttosto che a nuove prospettive di espansione spaziale, nelle nuove frontiere cosmiche che i soldi dei miliardari Musk o Bezos vorrebbero rendere possibili.

A.D.M. - Ci sono più filiazioni narrative del punk che punk umani in circolazione: dieselpunk e atompunk nella versione analogica del già citato cyber, steampunk dal sapore vittoriano e dai pomi d’ottone, in tempi più recenti appunto il più rassicurante e olistico solarpunk. La mia impressione è che questa fantascienza soffra della stessa patologia di quella sulle cui ceneri è sorta, dedicandosi ad un esercizio d’ambientazione che, non senza una certa abilità descrittiva, rinuncia alla comprensione del metaverso in cui la sfera del reale e quella digitalmente aumentata, precipitano inesorabilmente. Dal punto di vista del suo consumo, questo approccio compilativo può indicare la direzione di vene aurifere ancora inesplorate nell’ambito del gaming e della serialità televisiva. Ma tutto questo potrebbe non bastarci.

Tornando ai voli suborbitali in streaming-visione promossi dal trio dei patrimoni da capogiro: dietro la patina di fastidio provocata da questo inedito svago per ultra ricchi, non si cela il "solo" accreditamento per servizi spaziali da vendere alle agenzie internazionali e tantomeno l'ospitalità per studi scientifici della durata di dieci minuti di assenza di gravità. Dopo anni sottotono lo spazio "ultima frontiera" guarda nuovamente a Marte (per non dire delle suggestioni sulle origini dell'asteroide ‘Oumuamua!) provando a spostare l'orizzonte della crisi climatica del sistema-mondo. Si può guardare a questa opzione come una nuova forma di negazionismo della finitezza dell'equilibrio chimico e biologico del geoide?

G.S. - Direi assolutamente di sì. È l'anelito dell'infinito, sempre presente nell'uomo, che si ritorce contro se stesso spostando questo andare oltre, che ha più dimensioni e sensi possibili, in una direzione puramente spaziale: alla ricerca di una nuova frontiera, nuovi spazi da sfruttare dopo l'esaurirsi delle risorse del pianeta che ci ha ospitato finora. Quindi più che di negazionismo parlerei di una promessa di futuro espansivo e illimitato che deve abbandonare dietro di se gli inevitabili scarti del proprio procedere.

Ma per rimanere a terra, da terrestri quali siamo e rimarremo, io credo, per un bel pezzo ancora, tu hai scritto un racconto “Alba di ruggine”2 che nella sua trama ucronica potrebbe ascriversi, di fatto, alla fantascienza. Hai anche pubblicato un saggio nella forma di guida sui sentieri che attraversano i nostri confini, in cui i migranti vengono intrappolati entro una tela che una politica inefficace quanto crudele ha intessuto di micidiali fantasie tecnoscientifiche.3 Su quali basi potresti distinguere il carattere fantascientifico da quello realistico di queste tue opere?

A.D.M. - Diffido delle copertine. Intendiamoci l’oggetto libro, con le sue rilegature e sovracoperte piuttosto che nelle più economiche edizioni brossurate, continua a nutrire la nostra fantasia con una cura che tracima l’immaginario suggerito dall’immagine del suo involucro. Eppure il genere rappresenta, in parte, un recinto utile anzitutto a chi cataloga e a chi vende, piuttosto che a chi legge e scrive. Elementi di fantascienza convivono nell’ucronia rugginosa cui facevi riferimento e certamente permeano la compilazione degli elementi, questi sì presenti e assolutamente reali, dei dispositivi di cattura delle persone migranti. La condizione nomade, all’ombra della ferocia del suo carattere di migrazione forzata, è una metafora (da maneggiare con una certa delicatezza) assolutamente contemporanea anche per quanti hanno cittadinanza e documenti per l’espatrio, ma abitano lo stesso fragile presente che porta in nuce la minaccia di apolidia per via di mutamenti repentini, spaesamento o disaffezione.

G.S. - Scriveva Primo Moroni in un articolo dal titolo dickiano “La svastica sul sole” che il capitalismo è una grande invenzione, una “forza rivoluzionaria per eccellenza, si trasforma continuamente. Disintegra luoghi comuni, culture piccole e grandi, utopie negative e positive, speranze e illusioni.” Il nostro slogan distruttivo con cui abbiamo inaugurato UAU e che tu e il tuo gruppo di giovani compagni che avete digitalizzato l’intera serie della rivista avete ripreso con enfasi durante l’iniziativa a Mudima nel 20184, di fatto voleva, nel suo piccolo, riappropriarsi di questa forza rivoluzionaria del cambiare, dell’essere pronti, in quanto rivoluzionari, per dirla ancora con Primo , di essere “persona che cambia, si trasforma in continuazione.” Pensi che la fantascienza possa oggi riproporsi in continuità con ciò che è stata quando è nata un secolo fa o debba ripensarsi come ciò che rivive, dopo la propria morte, in modo affatto diverso?

A.D.M. - Risposte non ne ho, non sono nemmeno un lettore "forte" di fantascienza, o almeno di quella cintata dai quadri archetipici del genere. Non vorrei d’altronde ridurre la discussione alla facile critica delle suggestioni spoliticizzate e young adult della distopia formato Netflix di cui l’universo mondo si nutre. Il rischio di incappare in un nuovo e identico recinto ideologico, quello di una fantascienza utile a interpretare o preconizzare l’alba di domani, sarebbe troppo alto. Eppure la curiosità non manca: chi mi accompagna a visualizzare tecnologie conviviali, cooperazione sociale, scontri tra interessi incompatibili e irriducibili al crepuscolo di una modernità esaurita, produttrice bulimica di disagio psichico e ansie esistenziali? Chiedo io a te, sei sicuro di non voler veder risorgere la fenice? Sei certo di non desiderarlo oggi più profondamente?

G.S. - Touché. Ma in realtà la distruzione che intendevamo con quello slogan riguardava più il contenitore che il contenuto. Certo che c'è bisogno di qualcosa che accompagni e ci aiuti a vedere quel che oggi è sotto gli occhi di tutti ma che tutti, proprio per questa esposizione in piena luce, si fatica a vedere. La fantascienza è diventata la realtà soggiacente al nostro agire quotidiano sia nella prassi cosciente individuale e collettiva che negli automatismi e abitudini soggetti a continue sollecitazioni innovative. Tutto sta ad aver capito che la morte è sempre la condizione necessaria alla vita stessa. Al suo essere creazione del nuovo e non stagnazione del vecchio. Quindi non pensi anche tu che la fantascienza oggi più che rinascere dalle proprie ceneri debba trovare l'occasione di una propria risignificazione non nostalgica ma capace di ridisegnare nuovi giochi nel campo del possibile?

A.D.M. - E' un buon punto di partenza, per quanto una cornice promettente non produca necessariamente una buona letteratura. Anche da questo punto di vista il continuo riferimento all'esperienza dickiana tradisce una certa “ostalgie” in cui la fantascienza politica, o radicale, resta forse intrappolata come nel cubo di Vincenzo Natali.

G.S. - Antonio Caronia parlava di una fantascienza radicale piuttosto che di una fantascienza “matura” (che in quanto tale prelude alla sua imminente decomposizione) per rivendicarne la capacità di far dubitare la realtà di sé stessa. Pensi che le nuove generazioni oggi preferiscano immaginari più rassicuranti, o anche distopici ma certi, rispetto a una messa in mora dell'esistente così, appunto, radicale?

A.D.M. - Abbiamo percorso riga dopo riga un'infinità di universi presenti, futuri, passati e alternativi...alla ricerca. Non alla ricerca di, semplicemente in nome della narrazione e della sua potenza di rottura del piano di realtà. Questa tensione alla fuga convive necessariamente con una seconda tensione alla quiete che non è più o meno preferibile ma resta un punto d'ancoraggio ineludibile, un ritorno ad uno stato di equilibrio, una camera di compensazione che tutela il rientro all'atmosfera terrestre.

G.S. - Se oggi, come io credo, la parola fantascienza non caratterizza più l'appartenenza a un genere ma è un puro ingrediente che può essere dominante oppure un solo colore insieme ad altri di un prodotto ibrido, ciò significa che non esiste più la possibilità di normare il genere e, quindi, di farlo sussistere in quanto tale. Non si può più scrivere oggi l'equivalente delle Tre leggi della robotica di Asimov pretendendo che sia una norma da rispettare o da trasgredire, comunque implicitamente a cui riferirsi. Questo fa della fantascienza più una modalità di lettura che non un prodotto determinato dai suoi elementi. Concordi con me? E se sì non pensi che una lettura fantascientifica del reale voglia dire saperlo mettere in crisi andando a fare domande laddove le risposte vorrebbero imporsi come legittime per essere state poste “in nome” della scienza?

A.D.M. - Posso dire un’eresia? Alle tre leggi di Isaac rispondevano sì tutti i cervelli positronici, ma la rilevanza che diamo alla sua geniale intuizione tradisce un consapevole e imperituro appiattimento sui suoi grandi maestri. Questo è stato forse lecito per la capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo e nella stessa letteratura SF. Fuori dalla zona comfort della golden age, prima e dopo la stagione ruggente della narrativa hard, il multiverso fantascientifico è popolato da ginoidi, precog, xenomorfi, cyobrg, ai, mecha e automi che realizzano altre vie di fuga, non necessariamente pulp, dall’umanesimo e dalle sue leggi. La fantascienza come modalità di lettura è certamente un buon grimaldello per attraversare comunità, scienze e mondi lontanissimi.

1 Dal 23 agosto al 27 settembre con cadenza settimanale: Robert Wise, Ultimatum alla Terra; Eugene Lourié, Il risveglio del dinosauro; Val Guest, I vampiri dello spazio; Inoshiro Honda, I Misteriani; Howard Hawks, La cosa da un altro mondo; Paolo Heusch, La morte viene dallo spazio.

2 Un’ambigua utopia n. 10, reperibile su http://archivio-uau.online

3 Sentieri migranti - tracce che calpestano il confine, Ugo Mursia editore, 2021. Recensione in Bottega: https://www.labottegadelbarbieri.org/alberto-di-monte-sentieri-migranti-tracce-che/

4 https://moroniecaronia.noblogs.org/

(pubblicato nella Bottega del Barbieri QUI )

sabato 20 novembre 2021

Cosmoanticapitalismo

 


Cobol Pongide nel suo recentissimo libro Cosmoanticapitalismo (ed. Novalogos, ottobre 2021, 130 pag., 12 Euro) cita l’editoriale del primo numero di Un’Ambigua Utopia in cui si afferma che “qualunque proposta di un mondo, di una vita alternativa, è fantascientifica” (1) e a riprova di ciò aggiunge: “altrove, ho sostenuto che Il manifesto del partito comunista è (anche) un libro di fantascienza.”

In questo libretto pungente di “critica e conflitto nel tempo della conquista dello spazio”, come recita il sottotitolo, l’autore scienziato, musicista e ufociclista fa un uso della letteratura fantascientifica “in termini di artefatti cognitivi esemplificativi, per ciò che concerne le varie forme di pensiero anticapitalista  analizzate.” Usare la fantascienza e non esserne soggiogati è un buon punto di partenza per riuscire a vedere quello che, essendo sotto gli occhi di tutti, rischia di passare inosservato, e cioè che le magnifiche sorti e progressive legate alle altalenanti riuscite dell’impresa spaziale si sono rivelate per quello che sono sempre state: impresa, appunto. Una corsa imprenditoriale che guarda allo spazio e al futuro prossimo, ma che ha come obbiettivo immediato nel “qui ed ora sul nostro pianeta” la creazione “di un modello di vita e di lavoro transumanista e multiplanetario.”

Difficile non leggere in tutta la miscellanea di esperienze stralunate (ma di certo non più strampalate di tutte le altre esperienze che accettiamo nella nostra quotidianità come logiche e normali) descritte nei vari capitoletti del libro, la costante indicazione assertiva del “qui ed ora”. È di ciò che sta succedendo adesso e proprio qui, nel nostro travagliato mondo, in cui anche “le trasformazioni climatiche e ambientali (Antropocene) che annoveriamo come sciagure coincidono perfettamente con i piani dell’intelligenza collettiva capitalistica accelerazionista e transumanista”.

Da qui anche i piani per l’eventuale terraformazione di Marte ricadono nella terraformazione effettiva che ha luogo “qui sulla Terra attraverso mutamenti climatici, virtualizzazione dei rapporti sociali, confinamento della dimensione privata, sviluppo delle IA sociali, svuotamento dei centri urbani, implementazione generalizzata dell’unpleasant design” (2) e così via.

Se “la costruzione di un nuovo mondo somigli davvero all’impresa di insediarsi su un pianeta alieno” è la domanda necessaria da porsi di fronte alla capacità raggiunta di una reale espansione spaziale possibile. Ed è necessaria proprio perché questo “possibile” è compiutamente operante nel nostro arrangiarci a vivere in un mondo sottoposto a un’interazione tra essere umano e ambiente sempre più soggetto a un cambiamento che coinvolge l’uno e l’altro a un ritmo esponenziale sempre più difficile da governare, a livello individuale quanto sociale.

Da qui il continuo interrogarsi dell’autore sui più disparati tentativi che nell’arco dell’ultimo secolo, fino ad oggi, la storia ha bollato come perdenti, falliti o marginali, nel tentativo di cogliere quel qualcosa che riveli possibilità altre da quelle che fino ad oggi ci hanno guidato verso quel muro a cui tutti, anche senza volerlo ammettere apertamente, siamo convinti ormai di andare inevitabilmente a schiantarci.

Per dirla con Primo Moroni, che parlava dal bordo di un “finale d’epoca e di esperienze”, non abbiamo più “un ‘passato’ di cui fare risorsa e non ci sono più quindi i ‘luoghi’ della formazione, dell’esperienza che sono stati distrutti, o resi inservibili uno ad uno. C’è invece la tensione verso un altrove, verso nuovi spazi e luoghi che, questa volta, andranno costruiti, inventati senza far ricorso a quanto di già è stato consumato e distrutto.” E se conclude osservando quanto sia stato “un compito forse troppo grande per una breve stagione di ‘movimento’” (3) ora questo stesso compito dalla difficile quanto improbabile riuscita, deve doversi considerare possibile, perché impossibile è qualunque altra soluzione che accetti lo stato di cose presenti.

Fantascienza è, allora, leggere al contrario e da altra prospettiva, una storia che si vuole unidirezionale. Rimapparla e risignificarla in un nuovo percorso collettivo umano quanto non-umano come in quel romanzo di Philip K. Dick in cui il protagonista si trova a discutere, per un’impresa da farsi collettivamente, con varie specie aliene tra cui anche esseri dei quali si era cibato in qualche ristorante nel proprio pianeta Terra. (4)

Allora con tutti gli alieni possibili, alieni noi stessi, non possiamo  che tentare  questo grande viaggio che dal “cosmoanticapitalismo critico” ci porti al “cosmoanticapitalismo rivoluzionario” rendendoci cittadini dello spazio. In definitiva: terrestri consapevoli di un cosmo che non ci appartiene ma di cui dobbiamo cercare di essere ospiti graditi.

Nota 1: http://archivio-uau.online/archivio.html

Nota 2: “Detto anche design ostile, è una forma d’architettura, generalmente dispiegata in spazi pubblici, studiata per essere inospitale e scongiurare qualsiasi forma di stanzionamento sia umano che animale.”

Nota 3: Intervista a Primo Moroni di Tiziana Villani https://moroniecaronia.noblogs.org/territori-della-trasformazione-e-collasso-dellesperienza/

Nota 4: P. K. Dick, Guaritore galattico.

(Pubblicato nella Bottega del Barbieri https://www.labottegadelbarbieri.org/cosmoanticapitalismo/ )

martedì 25 maggio 2021

Antonio Caronia e Giuliano Spagnul, Storia di una cassetta degli attrezzi



È stata un’idea dell’editore, non nostra. Noi non siamo il tipo di persone che stanno a rimpiangere il proprio passato, a crogiolarsi nelle esperienze che hanno fatto e a piangere sulle tristezze e la decadenza del presente. Certo, i confronti sappiamo farli, e ne faremo anche in questa introduzione. Ma senza nessuna nostalgia. Le esperienze passate, se servono, servono a conservare un’ispirazione e un atteggiamento, non a coltivare rimpianti. E quindi, grazie a Pierre Dalla Vigna e alle edizioni Mimesis che hanno voluto la ristampa integrale di una rivista, di una storia di trent’anni fa: Un’ambigua utopia (UAU). Un episodio “forse trascurabile”, come avverte Domenico Gallo introducendo le memorie di tre ex componenti di quell’omonimo collettivo; ma un episodio che, in virtù di un punto di osservazione privilegiato, può illuminare squarci di storie collettive di più ampio respiro. Innanzitutto c’è la storia della rivista, quella apparentemente più facile da esaminare e da giudicare; con invidiabile pignoleria Piero Fiorili, nel suo intervento (che potete leggere, insieme ai nostri, in appendice al secondo volume), ce ne dà un preciso regesto, ma la sua descrizione accuratamente impietosa dei primi componenti del collettivo ha il merito di operare una sorta di scarto nella memoria di chi ha vissuto quell’esperienza, tra un quieto ricordo di quelle persone e una più attenta, meno pacificata, rammemorazione delle stesse.

Un sindacalista appassionato più che altro di cinema fantascientifico, (…) uno studente quindicenne, (…) un giovane illustratore in cerca di uno sbocco professionale, (…) un ragioniere che si occupò quasi esclusivamente di tenere la cassa di UAU, (…) una meteora che non ricordo cosa facesse, e neanche che faccia avesse, (…) un fotografo che campava vendendo servizi a varie riviste e che viveva in una casa arredata con cassette di frutta. 

 Sarebbe materiale per un racconto fantastico tendente al grottesco. Ma non è per fare della facile ironia che abbiamo fatto un collage di queste descrizioni; è perché veramente esse danno, quasi loro malgrado, il senso di quello che è stato il collettivo di UAU, e ci avvertono dell’impossibilità di farne una storia separata da quella della rivista. Proviamo a fare il confronto con una storia simile situata ai giorni nostri: un gruppo di giovani apre un circolo culturale, magari fruendo anche di qualche contributo degli enti pubblici attinto ai fondi per le politiche giovanili. Sarebbe mai possibile fare una descrizione dei suoi componenti come quella che abbiamo letto adesso per UAU? Il collettivo fa un bilancio delle attività svolte, un bel resoconto con tanto di fascicolo a colori, statistiche e diagrammi. A chi verrebbe in mente di descriverne i membri in questo modo, con questa ombra di sinistra inquietudine (penso in particolare a quell’essere meteora, privo di faccia)? Oggi quel che conta in un gruppo che fa attività culturali è il numero di eventi che è in grado di produrre, la quantità e il tipo di pubblico che riesce a coinvolgere, e se poi riesce addirittura a progettare un festival di qualcosa di cui ancora non sia stato fatto un festival, allora siamo al top. E invece quel gruppo di trent’anni fa era il prototipo di tanti altri gruppi simili, formati da individui con caratteristiche peculiari che influenzavano irrimediabilmente, con le loro particolari deformità e mostruosità, il prodotto culturale che andavano costruendo, e di cui per fortuna non erano tenuti a produrre bilanci.  A dispetto di quello che tanti pennivendoli ne scrivono oggi, gli anni settanta in Italia furono un enorme cantiere sperimentale, una rassegna di innumerevoli modi di praticare nel concreto le varie utopie di cambiamento del mondo, insieme alla costruzione di un’impalcatura reale e duratura di quel contropotere necessario a sostenerlo. Ma questo non significa affatto indulgere alla stupida contrapposizione, tanto in voga oggi, tra ’68 e ’77; sappiamo bene che quest’ultimo, senza il primo, non avrebbe neanche potuto esistere, ma sosteniamo anche che quel tanto vituperato ’77, quel Franti nella classe delle date storiche, fu uno tra i più significativi sussulti rivoluzionari nella controstoria del nostro paese. Quello che più di tutti ha da un lato allargato a dismisura la partecipazione a tutte le classi, le categorie, i generi di persone, senza di fatto certificare l’egemonia di nessuna di esse sulle altre; e dall’altro ha messo in campo tutte le pratiche di cambiamento possibili – economiche, culturali, spirituali, sessuali e via dicendo – in una continua e incessante discussione che si concentrava in modo particolare sulle questioni del potere e della violenza. Senza dimenticare che tutto ciò, ritratto in questa sintesi un po’ sommaria ma fedele, poggiava su quella vera e propria faglia di Sant’Andrea che fu il femminismo. Se non teniamo presente questo quadro di riferimento, la storia di UAU, insieme a quella della stragrande maggioranza delle altre storie di allora, non solo è trascurabile, ma è del tutto incomprensibile. La fondatezza e la veridicità del quadro che abbiamo delineato si ricava, in negativo, proprio da quanto è accaduto dopo, dalle mosse astute e intelligenti di chi in quegli anni era sotto attacco e misurava tutta la propria difficoltà. Perché c’è stato chi, meglio di noi, ha saputo far tesoro di quanto di ricco e innovativo emergeva da quel bozzolo di crisalide che il movimento di quegli anni andava tessendo con poca pazienza e tanto furore. Il capitale, nel suo processo di trasformazione, ha saputo inglobare molte delle esperienze ad esso antagoniste – basti pensare alle pratiche relazionali femminili, o a quelle inerenti a un rapporto diverso col corpo proprio e altrui – tanto da far apparire il “pensiero unico” che andava costruendo e la nuova organizzazione socioeconomica pieni delle più strabilianti e diversificate attrattive. Per quanto riguarda noi invece, noi che ancora abbiamo voglia di definirci antagonisti (e non chiedeteci a chi o a che cosa, fosse anche solo a noi stessi sarebbe già abbastanza, in questo universo in cui l’unica cosa che ci riesce ancora di condividere con qualcuno è l’incubo in cui viviamo), be’, noi non abbiamo saputo capitalizzare (scusate il termine) granché. L’odierno movimento, il più documentato, autoradiografato e con una interconnessione in tempo reale tra tutti i suoi membri e componenti non è ancora in grado di sviluppare un dibattito sui propri meccanismi di potere e di violenza pari neanche alla centesima parte di quella che si sviluppò allora. Uno smisurato velo di oblio si è steso su quegli anni, ma i discorsi non possono ripartire da zero, soprattutto se chi quei discorsi li ha fatti è ancora vivo e vegeto e interagisce con la realtà odierna, indipendentemente dal ruolo con cui vi opera attualmente. Più che giustificato, quindi, rimestare le ceneri di quel passato, fosse anche solo per far rivivere un documento marginale di quel contesto quale fu UAU. Le responsabilità di aver distrutto la famiglia, aver praticato e teorizzato la violenza, aver voluto rompere il vaso di Pandora del sesso, e, saltando gli altri innumerevoli peccati, di esserci infine anche occupati di fantascienza, ce le dobbiamo assumere tutte. E lo facciamo volentieri. Nove numeri di una rivista partita con un ciclostile e approdata a una vera tipografia, un libro, una libreria, tentativi vari di sedi redazionali (in proprio o ospiti di altre realtà aggregative), manifestazioni, dibattiti, convegni, feste, trasmissioni radiofoniche, una vasta eco sulla stampa nazionale non di settore, e una proliferazione di altri gruppi e riviste associate in tutt’Italia. Se andassimo a vivisezionare questa mole di esperienze, con qualche abbellimento qua e là, ne potremmo ricavare un quadro estremamente gratificante. Ma sarebbe una falsificazione, così come lo sarebbe per altro una visione contrapposta tutta fallimentare. E se, com’è ovvio, le “giuste vie di mezzo” continuiamo a schifarle, ciò che si può dire ed è giusto dire di quell’esperienza è che tutti noi che ne facemmo parte, l’abbiamo vissuta, l’abbiamo agita. Tutti abbiamo potuto fare i conti con essa privi di qualsivoglia obbligo esterno al nostro sentire, padroni del nostro agire, e liberi dalla minaccia di quell’essere agiti dal dovere di un’istanza superiore , sia essa politica o squisitamente culturale, da cui tutto il movimento di quegli anni era o si stava definitivamente emancipando. In quel contesto di spaesante ebbrezza, prendersi delle responsabilità nello spingere verso una direzione piuttosto che un’altra era possibile solo al di fuori di qualunque garanzia di protezione, ideologica, normativa ecc. (quanto al proporsi come leader, era qualcosa che allora equivaleva a un suicidio). Un’ambigua utopia non è stata un’eccezione. La sua nascita e la sua morte non possono essere addebitate a responsabilità singole, individuali. E la sua fine, se da una parte si inscrive nella scia del concomitante esaurirsi della storia del movimento degli anni settanta, dall’altra va di pari passo con quella vera e propria devitalizzazione che il genere “fantascienza” andava man mano evidenziando proprio in quegli anni. Insomma, nonostante il tentativo di ampliare il proprio  orizzonte verso un immaginario più ampio di quello legato alla fantascienza, UAU non poté certo sopravvivere alla fine di quest’ultima. Ma perché scegliere proprio la fantascienza, con quella sua ombra di irriducibile fiducia nel progresso e nella razionalità tecnico-scientifica, già in crisi alla fine dell’Ottocento e di nuovo sotto attacco proprio in quegli anni da parte di una rinvigorita critica politica? Perché non piuttosto il fantasy, e i suoi legami con quel fantastico che attraverso i miti, le leggende e le fiabe, percorreva sia i tempi remoti che le diverse culture, geografiche e sociali (da quella popolare a quella colta)? Tra l’altro, in questo caso, avremmo avuto come avversari proprio quelli a noi più pertinenti, i fascisti dei Campi hobbit, per intenderci, e non quella strana melassa, assolutamente aliena alla nostra pur volenterosa comprensione, che erano e sono i fan della fantascienza. Estraneità, sia detto qui per inciso, che riguardava tutti i fan, di destra o di sinistra che fossero. La rabbia di un compagno come Vittorio Curtoni, nel congedarsi da Robot al momento della chiusura della rivista, contro i suoi stessi lettori, risultò a tutti noi semplicemente incomprensibile. Eppure, riflettendo a posteriori, era un gesto emblematico della differenza che c’era tra noi di UAU e un qualsiasi fan anche di sinistra: nessuno di noi metteva al primo posto la fantascienza, qualsiasi strategia e qualsiasi tattica ci potesse dividere, nessuno si era costruito, tramite la fantascienza, il proprio giocattolo solipsistico. Nessuno tendeva a evasioni da abate Faria. Con la fantascienza non pensavamo di evadere dalla prigione, ma di distruggere quella prigione, o per meglio dire, di avere uno strumento in più per farlo. Il fatto è che eravamo convinti che la fantascienza fosse la forma narrativa più adatta ad esprimere la sensibilità di una società industriale matura. Ballard l’aveva detto prima di noi, sin dai primi anni Sessanta, e restò fedele sino alla fine a questa convinzione, anche quando ormai non scriveva più fantascienza. Nella sua autobiografia, scritta l’anno prima di morire, nel 2008, diceva:

Io pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che da un certo punto di vista la fantascienza sia stata la vera letteratura del XX secolo, e che abbia avuto una grande influenza sul cinema, la televisione, la pubblicità e il design dei prodotti di largo consumo. Oggi la fantascienza è il solo luogo dove sopravvive il futuro, come la fiction televisiva in costume è il solo luogo in cui sopravvive il passato (I miracoli della vita, Feltrinelli, Milano 2009, p. 162).

La fantascienza era il tipo di letteratura che meglio esprimeva la mediazione fra natura e cultura messa in atto dalla società industriale, ma proprio per questo era anche quella che meglio ne esprimeva la crisi. Se nei primi decenni del Novecento il suo immaginario era un inno alla tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle sue capacità, con Ballard, con Dick, con il primo Vonnegut, più ancora forse con la visionarietà barocca di William Burroughs, cominciava ad emergere un’altra visione e un’altra pratica, con cui la fantascienza avrebbe accompagnato la trasformazione dell’economia e della società in senso postfordista, registrando e proiettando la crisi di quel modello titanico e prometeico, cantandone il tramonto e l’avvento di nuove preoccupazioni e di nuovi scenari dell’immaginario, quelli che poi si sarebbero espressi negli anni ottanta nel movimento cyberpunk (che della fantascienza fu in effetti il canto del cigno). Ma, paradossalmente, era proprio la sua nascita “sporca”, erano i pulp americani degli anni venti e trenta, era la sua impossibilità di aspirare a natali più nobili (una scorsa ai pretesi ascendenti storici, a partire da Luciano di Samosata, si commenta da sola), era tutto questo che ai nostri occhi rendeva la fantascienza suscettibile di un ventaglio di approcci estremamente variegato. In quella discarica di immondizia in cui ci si poteva imbattere in rifiuti tossici per lo spirito, per la razionalità o per la semplice igiene fisica e mentale, con i suoi superuomini, mutanti, alieni e invenzioni altamente improbabili, in quella sorta di fiera del cattivo gusto estesa a dimensioni galattiche, qualcosa tendeva però ad emergere in superficie urlando la propria indisponibilità alla salute del mondo. Un mondo malato che necessitava disperatamente di un pharmakon in grado di salvarlo. Una componente indispensabile di quel pharmakon si trovava proprio in quel monte di immondizia, tra quella nauseante puzza di rifiuti. I seguaci della fantascienza, i sacerdoti e i semplici devoti di quel monte, hanno saputo vedere la componente salvifica di quell’enorme simulazione della messa in crisi del mondo e di tutte le possibili forme di cura dello stesso. Assecondare la lacerazione del tessuto della realtà per evidenziarne i punti di rottura e porvi rimedio. La fantascienza, al contrario del fantasy, non costruisce altri mondi in cui trasmigrare, lasciando andare alla deriva quello che si abita realmente. È terribilmente gelosa della propria appartenenza terrestre. La datità è il grande Moloch a cui si sacrifica, e se la mette in discussione è solo per meglio rafforzarla. Ma è un gioco sul filo del rasoio, e alla lunga questo mettere in crisi per risolvere produce come scarto un’ansia che si accumula sempre più, fino a trasformarsi in vera e propria paura senza riscatto. Alcuni autori, o semplici appassionati come noi, hanno intravisto, poco importa quanto consciamente, come questo vero e proprio sintomo della crisi del mondo fosse sottovalutato e usato male, e da alleati della cura ci siamo fatti alleati della malattia. D’altra parte questo fu l’uso della fantascienza che non proponemmo, alla fine degli anni settanta, solo noi, ma tutto un nutrito settore della cultura underground, e anche alcuni filosofi visionari e radicali come Baudrillard. Se la fantascienza di Dick, di Ballard, di Burroughs, ebbe la capacità di distanziarsi dal suo tempo per vedere i germi di un futuro che si stava preparando e che presto non sarebbe più stato futuro, ma onnipresente presente, se seppe “ricevere in pieno viso il fascio di tenebra che proveniva dal suo tempo„ (per usare un’espressione di Giorgio Agamben) senza indulgere ad alcuna tentazione salvifica, fu perché essa sapeva vedere nel contingente il suo rovescio, fu perché sapeva rovesciarne il linguaggio. Perché sapeva mentire. Perché sapeva costruire degli obbrobriosi falsi, e in questi falsi sapeva illuminare di luce obliqua e radente la verità che pareva nascosta, e invece era lì, a disposizione di chiunque volesse vederla. Il valore della fantascienza, anche di quella più miserabile e rattoppata, consisteva in fondo in due punti fondamentali. In primo luogo, essa minava – a volte apertamente scardinava – la nozione più ristretta di “realtà„, metteva in dubbio che la realtà potesse identificarsi con l’esistente, reintroduceva a vele spiegate il possibile come irrinunciabile elemento costitutivo del reale (secondo un programma già espresso anche da Robert Musil negli anni trenta). In secondo luogo la fantascienza, traducendo in termini molto accessibili la crisi del soggetto narrante impersonale e onnisciente su cui si basava il romanzo realistico ottocentesco, introduceva nella narrazione il punto di vista del futuro (o del passato, o del presente alternativo): ma così facendo contribuiva a mettere in discussione la neutralità della narrazione, e mostrava più in generale che ogni discorso viene enunciato da un luogo preciso, da un tempo determinato, da un corpo concreto. E che quindi è illusorio – e quasi sempre mistificante, e prevaricante – assegnare a certi racconti, a certi saperi, a certe enunciazioni, un valore assoluto e universale, svincolato dalle condizioni storiche e contingenti delle narrazioni, dei saperi, delle enunciazioni. Che ogni sapere ha (per usare il termine di Foucalt) un’epistéme, che ogni discorso è prodotto da una “formazione discorsiva„. Che ogni conoscenza è “situata„. Le stesse cose che, più o meno negli stessi anni, andava scoprendo il pensiero femminista, per rivelare le mistificate radici maschili e fallocentriche del pensiero occidentale. E questo lega la fantascienza (nella sua accezione più radicale e davvero immaginativa) alla critica corrosiva del fake, alle identità immaginarie e collettive, alla guerriglia mediatica. Che è quella che praticò per breve tempo il movimento studentesco del 68 a Parigi come a Roma e a Berlino (prima di finire frantumato e immiserito nella diaspora dei presuntuosi e impotenti gruppetti della sinistra sedicente “rivoluzionaria„), quella che continuò a vivere con l’endemica rivolta dei giovani operai italiani ed europei per tutti gli anni settanta – nella quotidiana ricerca di invenzioni per realizzare il rifiuto del lavoro, quella che deflagrò come pratica condivisa e unica forma possibile di insurrezione in Italia tra la fine del 1976 e il marzo del 1977. UAU dal suo iniziale, risibile, ingenuo quanto si voglia, “vogliamo distruggere la fantascienza”, sino al gatto del Cheshire sornione e inquietante dell’ultimo numero della rivista (catalogo di una mostra convegno sulla simulazione, gli ologrammi e il falso, forse un po’ in anticipo sui tempi), non ha perseguito altro scopo che questo. Distruggere. Allearsi alla malattia lasciando operare il sintomo. Distruggere la fantascienza significa usarla e non servirla. Ma il nostro uso politico della stessa non aveva per noi solo lo scopo, dichiarato, di redimerla dall’apparente neutralità del prodotto di genere, rivelandone le ideologie soggiacenti: meno dichiarato ma – credo – ben più rilevante, era quello di far emergere dalle sue viscere la sua più intima vocazione di strumento, di cassetta degli attrezzi, o per dirla alla Gunther Anders, di “filosofia grossolana”, capace di affrontare la disperata situazione di un mondo, per la prima volta in grado di distruggersi nell’arco di un amen. C’era molto pressappochismo, almeno nella prima serie di UAU, ma nessun intento divulgativo, né spirito scolastico. E abbiamo fallito. Certo. Ma la nostra speranza è di continuare a farlo. E che altri, dopo di noi, lo possano fare ancora, e ancora, e ancora.



giovedì 6 maggio 2021

WOW? UAU!

 




Postafazione  

Un’ambigua utopia. (1) Un gruppo, “un noi che non rinuncia a una precisa affiliazione politica ma che rifiuta una qualsivoglia progettualità a cui dover aderire collettivamente” e al contempo un luogo in cui l’attenzione sia nei tempi e nei modi, molto vicina “al modo in cui sorgono le idee, al modo in cui sorgono i progetti, al modo in cui si pensa l’innovazione espressiva e contemporaneamente la si mette in opera”. (2) È il rifiuto della militanza per un progetto complessivo ed è il transito verso un orizzonte in cui l’ultima utopia è calata e nessun’altra potrà prenderne il posto. Quel difficile corpo a corpo con l’utopia che ha impegnato sul terreno laico le generazioni degli ultimi due secoli trova in quel sommovimento globale del decennio ’60-’70 del Novecento il suo compiersi definitivo.


Distruggere la fantascienza. Lo slogan dell’editoriale del primo numero della rivista Un’ambigua utopia individuava in quella letteratura sporca, dai bassi natali, (3) quella pratica che giocando direttamente con l’immaginario, esplora i campi del possibile. Ma è un possibile situato dentro un campo storicamente determinato, che non lascia più spazio ad alcun rifugio consolatorio. (4) Ogni utopia si rivela, e non solo in potenza, come distopia. L’immaginario si incarna in quel dispositivo fantascientifico che si innesta e percorre i modi di vita direttamente nella realtà. La fantascienza si fa mondo, materia del quotidiano. Detta modi di pensare, di agire, paure da contenere, nuove sensazioni ed emozioni da provare, precipitando ogni futuro possibile nel concreto dell’oggi. È l’emersione di un nuovo dispositivo che fa dell’immaginario una “forza direttamente produttiva, con il corollario del carattere linguistico, relazionale, affettivo del lavoro.” (5) Un’ambigua utopia, quello strano esperimento politico, vero e proprio scarto culturale sorto dalle ceneri del movimento del ’77, si è trovata ad operare in quel momento decisivo in cui sia la rappresentazione, la fantascienza, che il rappresentato, il futuro, cessavano ogni possibilità di potersi rispecchiare e riconoscere l’un l’altro. Era la fine di un processo lungo forse un secolo. Nell’esaurimento di quella letteratura che, per dirla un po’ con Ballard, era la letteratura che andava costituendo la nostra identità precaria di abitanti dell’era di transizione. Un mondo rivolto al futuro si ripiegava a indagare il presente. Il cosiddetto “eterno” presente in cui siamo, con sempre più estremo disagio, immersi. È questo il motivo per cui questa esperienza passata è riuscita a giungere sino a noi, si potrebbe dire quasi per una sorta di processo di percolazione; è filtrata, non si è imposta per una sua forza particolare. Altre riviste ed esperienze di quegli anni hanno avuto un impatto ben maggiore, eppure Un’ambigua utopia sembra sporgersi verso noi oltre i confini di quella memoria storica che, per quanto necessaria da conservare, andava completando il suo ciclo vitale. Pur occupandosi di fantascienza non ha prodotto alcun effetto nel mondo della fantascienza ufficiale, in quel mondo costituito dai fans e dai vari attori della filiera (scrittori, critici, editori..). La Fantascienza maiuscola si rivelò letteralmente refrattaria alla fiamma di UAU, se per refrattario intendiamo un materiale atto a sopportare 1000 °F, oltre il doppio dei 451 °F cari a Brandbury. È, invece, in quel mondo antagonista, composto da superstiti del vecchio militantismo e da nuovi attivisti, giovani in cerca di una rinnovata utopia (che si vorrebbe però, paradossalmente, concreta) che quell’esperimento ha lasciato un’impronta, una traccia che molte e molti sono tentati di leggere, seguire, ripercorrere. (6)


Tra i molti suoi pellegrinaggi tra le arti visive, l'insegnamento, la televisione, la performatività, lo studio, Antonio ha intrecciato negli ultimi anni della sua permanenza terrena le lotte universitarie che agitavano l'Accademia di Brera e le ondate di protagonismo collettivo che negli atenei germinavano negli anni ‘00. Lo spettro della formazione continua incardinata nel Bologna Process, la fenomenologia della crisi, il detournement delle estetiche più perniciose della città-evento non sono che alcni dei filoni più prolifici del suo contaminarsi con una, ennesima, generazione di giovani adulti. “La lezione di oggi proprio non l’ho preparata per niente, le altre anche meno”. *


Da quel processo di contaminazione dieci anni fa nasce l’Archivio di Un’Ambigua Utopia alla Cascina Autogestita Torchiera SenzAcqua di Milano. Qui il fondo di Antonio, tra alcuni incidenti di percorso, diviene il seme di un progetto di biblioteca controculturale oggi ospitato da due stanze recentemente istoriate dalla crew Mutoid all’insegna di un fantastico pullulante di sottobosco, leggere creature meccaniche e primati post-industriali.

Passa qualche anno e dallo stesso gruppo di giovani che avevano accompagnato la nascita dell'archivio germina il proposito della digitalizzazione dell’intera serie della vecchia rivista. UAU era già stata riedita nel 2009 in copia anastatica, su due volumi, da Mimesis edizioni. La liberazione dell'Archivio UAU, oggi disponibile e completamente consultabile all'indirizzo http://archivio-uau.online  viene, prima che presentata, performata nel giugno 2018 alla Fondazione Mudima. L’occasione la fornisce la mostra “Per primo Moroni e Antonio Caronia”, all'insegna di quell'Ambigua, questa volta, ucronia, che esprime l'impellenza di una chance più prossima di quanto il presente pare offrire. E questo nel tentativo di riappropriarsi di una memoria attiva, di quello spirito che accomuna compagni come Antonio e Primo al di fuori, il più possibile, da quelle logiche celebranti qualsivoglia tipo di agiografia rivoluzionaria. Compito difficile, non esente da rischi di fraintendimenti e controversie, ma non più rinviabile nell’urgenza di un oggi in cui l’abbondanza di icone e di slogan si interfaccia con uno scenario di pratiche stanche e rivolte a un passato esausto.

Il ciclo di appuntamenti che accompagna la mostra tracima in un nuovo un ciclo di incontri dal titolo La fine dell'uomo, ospitato dallo spazio sociale Piano Terra, attivo dal 2012 nel quartiere Isola di Milano. La fine dell’uomo, un uomo irriducibile alla sua condizione biologica di umano così come alla tentazione di una sbrigativa riduzione nelle posture di wasp e cisgender, è qui proposta senza punto interrogativo, si da per scontata. È chiaro che “mutando le ‘disposizioni fondamentali del sapere’, l’uomo (inteso in questo senso ‘epistemico’) potrebbe scomparire come è nato”. (7) Ed è scomparso. Quello di cui si è discusso è andato oltre qualunque problema teorico del postumano, come anche Antonio era già oltre (8). Come vivere, al di là di una asfittica ricerca di una nuova identità costituente che ci possa nuovamente rassicurare, in un mondo danneggiato nel concreto della sua materialità (la crisi innescata dai mutamenti climatici) e in quella sua altrettanto materiale comprensione che lo voleva condizionato in una necessaria separazione tra natura e cultura. Dentro questa alchimia di suggestioni, riletture ed ingredienti segreti fermenta un numero speciale dell'Ambigua Utopia (9) da cui questo stesso vortice era stato attivato.

È questo il lascito di Antonio, di Un’Ambigua Utopia e di tutti quanti l’hanno attraversata. Una fantascienza che rifiuta ogni pacificazione, che non si fa più ingabbiare e “mondeggia” (10) libera, irriverente e rischiosa. Non sta rinascendo la vecchia rivista, un nuovo collettivo non si sta proponendo in occasione di questo numero dieci del progetto nato nel 1977. È la fantascienza che rumina e riattualizza un vecchio strumento che al suo nascere era troppo nuovo per poter essere oggi impropriamente archiviato nel magazzino delle cose passate, quelle che solo per tramite di un effetto ipnotico si potrebbe pensare ancora vive. Un’Ambigua Utopia è un attrezzo multiuso a disposizione di chiunque voglia servirsene, privo di copyright, chiede solo di essere usato in quella dimensione del gioco che fa dell’essere umano non un dio, ma un bambino capace di condividere (ma anche di con-divenire, per restare con la Haraway) con tutti gli altri esseri umani, ma anche non, disposti a imparare a giocare con lui. Un sentito ingranaggio, non un omaggio.


Quello che conta non sono le letterature, le filosofie, ecc.; quello che conta sono le trasformazioni che attraverso queste esperienze noi facciamo su noi stessi (letterarie, artistiche, filosofiche…). La cosa più importante nella vita di un essere umano è l’essere umano, non quello che fa ma quello che lui è, quello che lui diventa.” ** Se la fantascienza, oggi, è diventata tanto importante per noi è perché questa nuova, o vecchia, o futura, pratica ci obbliga a pensare a quello che il nostra fare ci fa diventare. Siamo rivoluzionari, siamo cyborg, siamo compost, qualunque cosa pretendiamo di voler essere è quell’idea fantascientifica degli altri che ci invadono a renderci coscienti di quel che siamo. Nessuna pretesa essenza costituente potrà metterci al sicuro da questo divenire continuo che ci costituisce. Unica prerogativa per una specie tanto mutevole come la nostra per poter stare in un mondo che costantemente forziamo a trasformarsi.

Una piccola avventura in tal senso questo nuovo collettivo ambiguo ha provato a farla.


(1): Per una storia del collettivo e dell’omonima rivista si rimanda alla voce di Wikipedia

(2): Giuliano Spagnul, Distruggere l’utopia, in Mondi altri. Processi di soggettivazione nell’era postumana a partire dal pensiero di Antonio Caronia. Mimesis 2016. Consultabile qui: . http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2016/12/distruggere-lutopia-di-giuliano-spagnul.html

(3): La prima narrativa di genere propriamente fantascientifico viene ospitata tra le pagine delle riviste popolari americane degli anni ’20 (i pulp magazines) insieme al poliziesco e altri generi allora in voga tra le classi subalterne. La prima rivista di scientifiction (termine successivamente modificato in science-fiction) Amazing Stories fu fondata da Hugo Gernsback nel 1926.

(4): Antonio Caronia, Le incarnazioni dell’immaginario, nella prima introduzione alla guida del collettivo Nei labirinti della fantascienza, Feltrinelli 1979.(Ristampa: Mimesis 2012). Consultabile qui: http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2018/02/antonio-caronia-incarnazioni.html

(5): “Corpi e informazioni. Il Posthuman da Wiener a Gibson” in questo volume.

(6): Antonio Caronia tra tutti quelli, tanti, che hanno attraversato quell’antica esperienza, è stato l’unico a non lasciare cadere nel vuoto la richiesta che da più parti gli venivano sollecitate. È così che ha risposto all’appello di una rivista di ufologia radicale, MIR, raccontando la storia della rivista. E poi ancora rispondendo alle domande dei suoi studenti all’Accademia, quindi impegnandosi a ristampare la rivista financo, negli ultimi mesi di vita, rieditando Nei labirinti della fantascienza.


(7): “Transumano, troppo postumano” in questo volume.


(8): Il discorso di Antonio sul postumano non può non riagganciarsi ad un “ritorno” al corpo come problema imprescindibile da cui dover sempre ripartire. L’ultimo impegno di Antonio, un seminario su normalità e follia a Macao, testimonia la necessità di un doveroso ripensamento collettivo su facili entusiasmi per una liberazione che prescinda dalla materia che ci determina per ciò che siamo e che possiamo.


(9): Idealmente il n.10 dopo i 9 numeri usciti dal 1977 al 1982.


(10): Donna Haraway, costante punto di riferimento di Antonio, nel suo ultimo libro Chthulucene (Nero edizioni, 2019) volutamente “complicato e positivamente ambiguo” ma non “oscuro e inaccessibile” (come avverte la traduttrice) inventa la parola “mondeggiare” che si presta appieno a una pratica della fantascienza che si presta a “modellare possibili tempi e possibili mondi – mondi materiali e semiotici che sono al contempo scomparsi, presenti, e di là da venire.”


*Lezioni del corso di Sociologia dei Processi culturali, Accademia di Brera, Scuola di Nuove Tecnologie per l'Arte, A.A. 2008/2009, Prof. Antonio Caronia


**Seminario di Antonio Caronia a Macao su “Arte e follia” 2012



sabato 27 marzo 2021

Antonio Caronia: Progetto per una nuova serie di Un'Ambigua Utopia

 


 Milano, ottobre 1980

CONSIDERAZIONI GENERALI

Fantascienza come testo, come textus e come codice

C’è una pluralità di accezioni per il termine “fantascienza” di cui è necessario tener conto. “Fantascienza” è ogni singolo testo che compare in commercio etichettato come tale. Di tutti questi testi è possibile un’analisi a vari livelli, uno letterario, uno ideologico, oppure sociologico, di costume e via dicendo. Essi sono comunque collegati tra loro da una serie di rimandi, citazioni, imitazioni, luoghi comuni variamente trasformati dalla sensibilità del singolo autore, ma comunque riconoscibili. Ogni testo è parte di un textus, di un tessuto più ampio che è riconoscibile come il genere letterario “fantascienza”, con sue convenzioni, con un suo codice. È legittimo, perciò, guardare alla fantascienza come a un fenomeno letterario autonomi, che intrattiene rapporti con altri generi letterari contemporanei, a volte con tradizioni letterarie preesistenti, che sollecita e rende possibile un approccio “critico” (non solo in senso estetico, ma anche a livello di rapporti e fenomeni editoriali, di fenomeni sociologici e politici, etc.).

Ma la fantascienza non è soltanto questo: è ormai un insieme di figurazioni, di immagini, di suoni, che dalle pagine dei libri si sono trasferite sullo schermo, grande e piccolo, alle pagine dei fumetti, ai solchi dei dischi e alle tracce delle cassette, ai costumi, alle movenze e ai trucchi dei complessi musicali. Questo è avvenuto anche tramite un allargamento da tematiche tradizionalmente definibili “fantascientifiche” a tematiche definibili più generalmente “fantastiche”: il codice che questo insieme di fenomeni configura è infatti qualcosa che si potrebbe chiamare “codice fantastico”, anche se in esso l’elemento tecnologico – sia pure elaborato con modulazioni di tipo magico – continua ad essere largamente presente. La presenza di questo “codice fantastico” nei mass media ha inoltre contribuito a cambiare anche il tipo di fruizione dei testi scritti di fs, che rappresentano ormai un settore non trascurabile dell’editoria dedicata alla letteratura di consumo; e anche, significativamente, a influenzare (basti pensare a Nabokov, Gore Vidal, Doris lessing, per dirne solo alcuni).

Il pubblico

È evidente che il pubblico toccato dal codice fantastico nel senso sopra accennato è calcolabile, in Italia, a parecchie centinaia di migliaia almeno. Tuttavia è più opportuno limitarsi a considerare quella parte di pubblico, che ha delle caratteristiche, per così dire, di maggiore costanza, che viene toccata da libro di fs. Dall’esame delle tirature di Urania e dei libri degli editori specializzati (Nord, Libra, Fanucci, che con Urania e il settore  libri di fs di Mondadori coprono la grande maggioranza di questo settore di mercato) si può stimare attorno ai cinquantamila il numero di lettori che leggono abbastanza abitualmente fantascienza.

Questo pubblico è ovviamente stratificato. I due strati estremi sono rappresentati dal lettore occasionale e frettoloso, interessato solo all’aspetto “distensivo” ed “evasivo” del prodotto (che dovrebbe essere però meno frequente nella fantascienza che nel giallo e nello spionaggio) e dal “fan”, l’appassionato/collezionista dalla cultura specifica enciclopedica, che segue tutte le novità librarie, è informato sui principali (almeno) avvenimenti interni al mondo della fs, ed è in genere organizzato in club, o scrive e pubblica rivistine (fanzine) di narrativa, critica (ovviamente quasi sempre infantile e pietosa), agiografia, etc. Tra fanzinisti, collezionisti, appassionati in senso stretto dovrebbero esserci qualcosa come mille o duemila persone in Italia (il dato è ricavabile dalla tiratura – poche centinaia di copie – e dalla vita delle fanzine, oltre che da una certa conoscenza dell’ambiente).

Un numero maggiore di persone potrebbe invece essere interessato ad un discorso “critico” sulla fantascienza non puramente accademico, ma su tutto l’arco dei temi e dei fenomeni riconducibili alla fantascienza nel senso delineato dal paragrafo precedente. Questa cifra potrebbe arrivare a 10.000 lettori potenziali per una rivista che si confermasse a quel modello: lo suggerirebbe la composizione dei lettori di UN’AMBIGUA UTOPIA, per quanto la conosciamo (la nostra rivista soffre ovviamente dei guai di una distribuzione inesistente e della mancanza di pubblicità), i dati delle vendite del nostro libro NEI LABIRINTI DELLA FANTASCIENZA (5000 copie senza quasi nessuna pubblicità), l’apparire di rubriche di recensioni “specializzate” in alcuni giornali. Ma una rivista fatta intelligentemente, che tratti più in generale dei problemi che abbiamo chiamato del “codice fantastico” potrebbe pescare anche in un pubblico più vasto, non direttamente legato alla lettura del libro di fantascienza.

L’esperienza di UN’AMBIGUA UTOPIA

Il nostro collettivo (poi trasformato in cooperativa) è nato alla fine del 1977 su due tematiche convergenti ma non identiche: da un lato quella del rapporto tra fantascienza e realtà, dall’altro quella delle potenzialità “liberatorie” della fantascienza e della attività fantastica. Il discorso iniziale del collettivo ha subito precisazioni e aggiustamenti soprattutto fra il 1979 e il 1980, e ancora oggi risulta aperto ad un processo di riflessione non concluso. Sono per esempio venute a cadere (o si sono ridimensionate) le illusioni ancora legate all’eco del movimento del 77 sulla immediata  trasferibilità in termini “politici” (seppur largamente mutati) della “guerriglia” culturale e comportamentale che costituiva già il dato saliente di quel periodo. Gli strumenti critici (in senso lato) si sono affinati, è stato ridimensionato l’entusiasmo forse eccessivo per opere che affrontavano direttamente i temi politici (come I reietti dell’altro pianeta) e si sono meglio valorizzate opere che riflettono, all’interno delle convenzioni del genere, tematiche culturali più vaste, come la crisi del linguaggio e l’emergere sempre più netto di componenti “mitologiche” (e non solo nel genere fantasy). Si è andato precisando un interesse per la documentazione e le discussioni sull’andamento del mercato e la politica editoriale seguita dalle varie case editrici.

La rivista UN’AMBIGUA UTOPIA, come si può vedere scorrendo gli otto numeri finora pubblicati (1 nel 1977, 3 nel 1978, 2 nel 1979, 2 nel 1980), ha riflesso questa evoluzione. . Il maggiore rigore del discorso non ha però significato l’approdo ad una concezione “accademica” della rivista. Avendo sempre di mira l’insieme del pubblico a cui ci siamo già riferiti (il fatto di non essere riusciti a raggiungerne che una piccola parte, non più di 2000 persone, dipende in larga misura dai problemi finanziari, produttivi e distributivi a cui abbiamo fatto cenno, anche se non vogliamo escludere che ci siano stati a volte problemi di calibratura dei singoli numeri della rivista), abbiamo mantenuto un interesse per forme di demistificazione culturale che erano poi corrispondenti alla nostra azione come collettivo, al di fuori del lavoro della rivista (vedi il nostro convegno MARX/Z/IABA a Milano, aprile 1979 e l’intervento al convegno specializzato di Stresa nel 1980). La rivista, pur cominciando a pubblicare contributi critici di interessante livello, non ha quindi mai abbandonato del tutto una duplicità (forse) di impostazione, che a noi però è parsa fondamentale: rivista di critica ma anche, in certo modo, di “intrattenimento”. Quanto siamo riusciti in questo intento, non sta a noi dirlo. Ci sembra però che la nostra attività, in questi tre anni, abbia costituito uno dei pochi tentativi di costruire per la fantascienza e sulla fantascienza un discorso meno banale dei soliti. È questa attività che ci ha consentito di trovare interessanti contatti con altre realtà culturali e cooperative (gruppi teatrali milanesi, coop. Charlie Chaplin di Ferrara) e con esponenti della critica, anche accademica, di fantascienza, in Italia e all’estero (Carlo Pagetti, Teresa De Lauretis).

STRUTTURA E FUNZIONAMENTO DELLA RIVISTA

La discussione che stiamo conducendo in questi mesi ci ha portato ad una precisazione ulteriore sulla fattura della rivista, che verrà adesso esposta, e a una ipotesi di collaborazione fra il collettivo di Milano e altri collettivi (principalmente Un’Ambigua Utopia e Crash di Genova, e Pianeta Rosso di Napoli), con cui abbiamo già collaborato in passato e con cui stiamo registrando l’esistenza di un orizzonte di problemi comuni, pur nella varietà degli strumenti critici di approccio e, a volte, degli esiti.

Il progetto qui esposto della rivista non prevede, dunque, un rovesciamento di ottica, ma al contrario l’affinamento e il potenziamento di quel modello di “rivista di critica e intrattenimento” secondo le linee che abbiamo esposto sopra. Questo progetto prevede una stabilizzazione della periodicità (che proponiamo, almeno per il prossimo anno, trimestrale, senza ovviamente pregiudizio per una intensificazione della frequenza se le cose dovessero marciare), l’individuazione dei canali distributivi, nel senso di privilegiare le edicole, e conseguentemente l’aumento della tiratura in misura compatibile con quest’ultima ipotesi (indicativamente 10.000 copie). Non discutiamo qui eventuali mutamenti grafici (formato, gabbia, caratteri, colore, carta) che andranno discussi direttamente in sede editoriale.

UN’AMBIGUA UTOPIA 1981 continuerà ad occuparsi, quindi, della fantascienza come genere letterario, oltre che cinematografico, televisivo, grafico, etc., e della fantascienza come codice culturale più in generale. Questo implicherà un’attenzione più precisa non solo alle trasformazioni nella fruizione dei media, alla loro “fantascientizzazione” , ma anche a certi processi di trasformazione della vita quotidiana, delle strutture della produzione, della distribuzione, del tempo libero, a quella che si potrebbe chiamare (ed è stata già chiamata) la mutazione antropologica in corso, o perlomeno a quella sua parte (e non è piccola) che appare fin d’ora dominata dal “codice fantastico”.

In concreto la rivista (che ipotizziamo a 128 pagine e formato o invariato o equivalente, come contenuto tipografico, a quello attuale) dovrebbe continuare ad essere divisa in sezioni. Le sezioni verranno elencate adesso, di seguito, e per ognuna segnaleremo un possibile numero di pagine sulle 128 totali, l’eventuale nuova istituzione delle stesse, le caratteristiche e le modifiche.

MONOGRAFICA (30) – Dovrebbe mantenere l’attuale impostazione, trattare cioè sia argomenti e luoghi “classici” della fantascienza, sia argomenti rilevanti sul piano culturale o del costume visti attraverso le modulazioni del codice fantastico. Non è necessariamente una sezione tutta di articoli: possono intervenire (vedi già l’impostazione della sezione SOGNO sul n. 8) disegni, fumetti, etc. Argomenti possibili: Sesso, Mito, Fantascienza e politica, Il calcolatore, Trasformazioni del potere.

LIBRI ED EDITORIA (15) – Recensioni di novità librarie, di fantascienza, fantasy, letteratura non realistica, saggistica varia collaterale all’impostazione della rivista in generale( antropologia, politica, sociologia, futuribile, etc. Informazioni sulle novità librarie estere (di fs), andamento del mercato e dell’editoria di fs in Italia e nel mondo.

CRITICA (15) – L’impostazione dovrebbe restare invariata, e la sezione potrebbe forse alleggerire una parte almeno dei “soggetti” tematici sulla fs che finora comparivano nella sezione monografica.  Saggi di autori italiani (area UAU enon) e stranieri (critica anglosassone, francesi) sulla fs. Si potrebbe pensare di ampliare a saggi su autori italiani e stranieri di letteratura “normale” più interessanti per noi (Calvino, Buzzati, etc.).

FUMETTI (20) – Sezione nuova: Dovrebbe pubblicare recensioni, saggi, informazioni, etc. , sui fumetti fantastici, ma anche produzione fumettistica: sia di autori italiani esordienti, sia (compatibilmente con le disponibilità finanziarie) di autori professionisti italiani e stranieri. In quest’ultimo caso, dopo un primo rodaggio, la sezione potrebbe essere aumentata come pagine se ci fosse materiale particolarmente interessante.

CINEMA (16) – Rubrica da ristrutturare, e da discutere più ampiamente con coloro che se ne occuperanno. Potrebbe comunque ospitare recensioni, informazioni sulle produzioni estere, saggi di respiro più vasto sulla produzione “fantastica” o sulla lettura fantastica di certe pellicole.

MUSICA (6) – Sezione nuova, quindi anch’essa da discutere, come la seguente. L’oggetto dovrebbe comunque aggirarsi sull’intersezione tra fs e musica (nelle tendenze rock new wave, per esempio, o fenomeni del genere).

MAGIA (6) – Si può scegliere fra due “tagli”, uno più antropologico-storico, l’altro più “tecnico” (dall’interno: simbolismo dei tarocchi, astrologia, etc.). Da discutere.

NARRATIVA (20) – Proseguire sulla linea degli ultimi numeri (cioè operare un minimo di selezione fra gli esordienti o i non professionisti per non abbassare drasticamente il livello della sezione) e tentare (sempre compatibilmente con le risorse finanziarie) di pubblicare anche autori professionisti stranieri.

Il lavoro di progettazione e redazione della rivista potrebbe essere organizzato così: tre/quattro riunioni all’anno generali (tendenzialmente una per ogni numero) in cui, sulla base della relazione di un coordinatore e di un comitato di coordinamento vengono discusse in varie proposte generali. In queste riunioni, come esemplificazione, si potrebbe discutere della scelta dell’argomento monografico, dell’impostazione generale delle singole sezioni, dei contributi di maggior rilievo. Queste riunioni dovrebbero tenersi, a rotazione, nelle varie città interessate per favorire la partecipazione di tutti. La sede principale di redazione resterebbe Milano, che lavorerebbe in stretto contatto con Verona nel caso che si realizzi l’ipotesi di collaborazione prospettata. Ogni sezione dovrebbe poi avere un gruppo di lavoro, con compagni di varie città, e un coordinatore (non tutte le sezioni dovrebbero avere necessariamente il coordinatore a Milano), responsabile delle scelte e del lavoro della sezione. È chiaro che l’operato di ogni sezione e di ogni coordinatore dovrebbe poter essere ampiamente e liberamente discusso in ogni riunione (di norma, nella prima riunione successiva all’uscita del numero).