lunedì 29 giugno 2020

Per una storia di Un'Ambigua Utopia


Per una storia di

"Un’Ambigua Utopia"


Nulla appare a noi che ci occupiamo del futuro più duttile del passato. E forse è proprio dal confronto tra le storie del futuro e le riscritture del passato che la narrativa contemporanea cerca difficoltosamente un senso. E il passato ci appare decisamente più ambiguo delle prospettive che si protendono verso il domani. A distanza di vent’anni, anche storie forse trascurabili come quella del Collettivo Un’Ambigua Utopia sembrano oscillare e confondersi. Alla versione proposta da Fiorili, tracciata secondo un codice soggettivista che rimanda la verità e l’esattezza all’umore e all’impressione, Antonio Caronia propone una sua visione legata all’immagine pubblica e ai fatti sociali di quegli anni che tende a sottolineare gli elementi di novità culturale e politica. Da questa esperienza, destinata a distruggere definitivamente l’ideale di una fantascienza sacra e a stabilire invece un paradigma tutt’ora valido che vede questo genere letterario, assieme ad altri, affiancarsi a ulteriori elementi culturali, tecnologici e politici per candidarsi a lente, deformante ma privilegiata, della realtà.
Io, tra queste due storie, non esito a scegliere e a riconoscermi nella seconda.
Domenico Gallo

Un’ambigua utopia
Antonio Caronia


(pubblicato sul n. 2, 1999, di MIR – Men in Red)

Forse qualche milanese ricorda ancora, a vent’anni di distanza, un curioso corteo che si svolse il 16 settembre del 1978 nelle strade attorno a Porta Ticinese. dietro a uno striscione che diceva "FUORI I MARZIANI DALLE GALERE" sfilavano alcune centinaia di persone, precedute da una band sciamannata di fiati e percussioni. Fra i partecipanti alcune decine di persone erano fantasiosamente truccate, o avvolte in lunghe palandrane, il volto coperto da maschere gigantesche e grottesche; alcune di queste distribuivano volantini ai passanti arringandoli in una lingua sconosciuta, fatta di vocalizzi gorgheggianti o suoni gutturali. Avevo aderito da pochi mesi al collettivo Un’ambigua utopia, che aveva promosso per il 15, 16 e 17 settembre la "1° invasione dei marziani", di cui quel corteo era il culmine. La festa si svolgeva al centro sociale La Fornace, una cascina occupata alla periferia sud ovest di Milano, ma erano coinvolti anche altri centri sociali, per esempio quello di Santa Marta, che aveva preparato maschere e cartelli. Le parole d’ordine suonavano forse ostiche ai militanti o ex militanti dell’estrema sinistra italiana; rilette oggi, tuttavia, appaiono abbastanza interne al dibattito di quegli anni: pratica dell’utopia, il fantastico nel quotidiano, libera il marziano che è in te. Il collettivo Un’ambigua utopia era nato nel 1977 e aveva fatto uscire in un anno tre numeri di una rivista autoprodotta dallo stesso titolo. Il gruppo si era formato attorno ad alcuni ex militanti (in genere di Avanguardia operaia, in gran parte di Sesto San Giovanni, Monza o della bassa Brianza), già lettori di fantascienza e anzi più o meno interni al fandom, al mondo degli appassionati. La rivista/fanzine era quindi concepita come uno strumento per sviluppare un’attività di polemica e di rinnovamento sia negli ambienti del mondo della fantascienza che, più in generale, in quelli del mondo politico e culturale. Sul peso relativo di queste attività e sui fini del collettivo e della rivista sospetto ci fossero tensioni inespresse o comunque accenti differenti già fin dal sorgere del gruppo. È certo però che queste differenze si approfondirono nella fase successiva alla festa del settembre 1978, credo anche in relazione al mio ingresso nel collettivo. La mia storia era simile, anche se non identica, a quella degli altri, ma avevo qualche anno di più, e soprattutto dentro di me avevo un vuoto forse più divorante e famelico di altri. Avevo da poco abbandonato la Quarta Internazionale, nelle cui file militavo dalla fine del ’69. Nei primi anni Sessanta avevo letto parecchia fantascienza, ma dopo l’adesione al gruppo trotzkista avevo cessato quasi completamente di leggere narrativa e in genere letteratura; nell’atmosfera un po’ calvinista e vagamente integralista che dominava molti gruppi dell’estrema sinistra di allora, frequentare la fiction era considerato, se non proprio riprovevole, quantomeno poco elegante: erano altre le "priorità". Uscito dall’incubo di otto anni di militanza assorbente ed esclusiva, mi gettai quindi avidamente su tutto quello che mi ero perso in quel periodo, dal realismo magico latinoamericano a Pynchon e Burroughs, e naturalmente anche alla fantascienza. Perciò, quando nel dicembre del 1977 mi imbattei, in una libreria di Milano, in quella decina di fogli ciclostilati e pinzati che recavano sul frontespizio il criptico titolo Un’ambigua utopia, la sfogliai incuriosito. Il tentativo di leggere la fantascienza "da sinistra"; l’esigenza di far rientrare in un discorso che restava comunque "politico" argomenti che ne erano stati sdegnosamente esclusi, come la letteratura cosiddetta "di evasione"; l’aspirazione a chiudere fratture tra pubblico e privato, tra piacere della lettura e impegno nella società; tutto questo mi attirava, naturalmente, anche se mi lasciava perplesso. Non mi sentivo pronto a entrare in un altro gruppo, sia pure così diverso da quello che avevo lasciato, come mi proponevano alcuni esponenti del collettivo che già conoscevo e che mi invitavano a unirmi a loro. Così mi limitavo, per il momento, a produrre per Radio popolare degli sceneggiati di fantascienza tratti da racconti, un lavoro certo interessante ma dalla discutibile riuscita. Ma era destino che non riuscissi a resistere alle lusinghe di una scelta che, in fondo, mi permetteva di continuare a fare in un contesto diverso quello che facevo da quando avevo vent’anni: il militante politico. Sull’onda della preparazione della "1° invasione dei marziani" entrai organicamente nel collettivo Un’ambigua utopia alla fine della primavera del 1978. E, ancora una volta, la mia vita cambiò.
* * *
Dopo la festa alla cascina La fornace ci fu una discussione interna al collettivo che si rifletté in parte sul n. 4 della rivista, datato novembre/dicembre 1978. La svolta venne annunciata ed esibita sul numero successivo, datato gennaio/febbraio 79. Il dato su cui riflettere era che in meno di un anno Un’ambigua utopia, con le sue iniziative evidentemente azzeccate, si era conquistata una relativa visibilità. La fanzine, senza affidarsi a strutture di distribuzione professionali, vendeva nelle poche decine di librerie in cui era presente quasi mille copie; diversi quotidiani e settimanali si erano occupati di noi con articoli e interviste, soprattutto dopo la festa; le lettere che ci arrivavano erano veramente tante, da ogni parte d’Italia, e infatti di lì a poco avremmo avuto l’adesione di collettivi locali a Napoli, Roma e Genova. Si scopriva l’esistenza di un filone di lettori di fantascienza con simpatie politiche (o addirittura militanti) all’estrema sinistra, persone galvanizzate dall’esistenza di una rivista come la nostra. Gli anni fra il ’75 e l’80 stavano vedendo un piccolo boom della fantascienza, che era da poco entrata nelle librerie. Nelle edicole, alla tradizionale leadership della mondadoriana Urania si era affiancata nel 1976 Robot, una vera e propria rivista di narrativa diretta da Vittorio Curtoni, che dava un certo spazio alla critica e per la prima volta smascherava la falsa apoliticità del mondo della fantascienza italiana (che nascondeva invece una forte presenza della cultura di destra, rappresentata dai curatori delle collane Fanucci, Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco). Robot ospitò interventi sia pure in senso molto lato "politici", e rappresentò un’apertura a temi più ampi, inedita per quegli anni, del piccolo e asfittico mondo del fandom. In quel contesto Un’ambigua utopia rappresentava un’apertura ancora più spinta, il tentativo di trasportare la fantascienza in una delle tante derive, se volete, delle ideologie e delle pratiche tradizionali dell’estrema sinistra messe in crisi dall’ondata del movimento del 77. Si discuteva molto in quel periodo di "teoria dei bisogni" (sulla scorta degli scritti di Agnes Heller fatti conoscere in Italia da Pier Aldo Rovatti e dalla sua rivista Aut Aut), di crisi della militanza, di società dello spettacolo, di "liberazione" vs "rivoluzione" e di soggetto sessuato, si riscopriva Nietzsche. La scelta che stava di fronte al collettivo fra il ’78 e il ’79 era questa: tutti d’accordo nel tenere presente queste tematiche come sfondo, ma si doveva continuare a considerare campo d’azione privilegiato il mondo della fantascienza, o tendere a incidere in un dibattito culturale e politico più generale? Bisognava continuare a mantenere prudentemente una struttura di collettivo e degli strumenti di stampa "leggeri", o tentare un salto di qualità verso strutture più solide, verso la conquista di un pubblico più ampio? La maggior parte dei membri del collettivo di provenienza AO e fandom (guidati da Giancarlo Bulgarelli) inclinavano verso la prudenza; tra i "membri fondatori" solo il fotografo Giuliano Spagnul, il disegnatore Michelangelo Miani, e il giovanissimo Marco Abate (poi destinato a diventare un brillante ricercatore matematico) erano sostenitori del salto di qualità, una tesi che, da parte mia, io sposavo senza riserve. Prevalemmo, ahimé, noi. La rivista cambiò formato e veste grafica, aumentò la tiratura a 5000 copie e affiancò alla distribuzione in libreria (affidata alla struttura Punti Rossi) una presenza in edicola, all’inizio nella sola Milano. Venne costituita una cooperativa, in cui, fra molti dubbi, entrarono Bulgarelli e il musicista Roberto del Piano ma non altri fondatori del collettivo. E l’editoriale del N.1 della nuova serie della rivista (il quinto numero nella serie complessiva), intitolato "Quando cambierà", poteva concludersi con questa prospettiva ambiziosa e un po’ ingenua:
A questa condizione, con questo progetto (…) vogliamo provare ad utilizzare anche gli spazi di mercato che sono aperti, vogliamo provare a gestire la piccola fetta di potere che la produzione di carta stampata assicura, per contribuire a diffondere (sul terreno della scrittura e possibilmente di una pratica ad essa collegata) alcuni frammenti di un linguaggio differente. Un’ambigua utopia vuole diventare sempre di più una tribuna delle diversità, dentro quel percorso sotterraneo di produzione di rivolte parziali, di ridefinizione di linguaggi e di comportamenti che è l’unica speranza per la rifondazione di un nuovo soggetto che, liberando se stesso, liberi tutta l’umanità.
Nei successivi quattro anni di vita l’esperienza di Un’ambigua utopia si andò sviluppando su questi presupposti, con il tentativo di occupare spazi nel mondo della cultura ufficiale senza tradire la nostra ispirazione politica né abbandonare il mondo dei centri sociali e dell’opposizione di classe. Nel novembre del 1979 uscì per Feltrinelli Nei labirinti della fantascienza, guida critica a cura del collettivo Un’ambigua utopia, pubblicata su ispirazione di Goffredo Fofi. Ultima fra le guide alla fantascienza uscite fra il ’78 e il ’79, fu quella che suscitò più controversie e polemiche. Ce le eravamo meritate tutte, naturalmente. Nella "Avvertenza" che apriva il volume affermavamo spavaldamente: "Ai lettori non offriamo un’enciclopedia, o una guida onnicomprensiva, ma una proposta di lettura della fantascienza, come tutte le proposte unilaterale, o, se si preferiscono parole più forti, settaria." E la chiusa del mio saggio introduttivo, "Incarnazioni dell’immaginario", chiariva il senso di quella unilateralità:
Sappiamo, certo, che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei libri. Ma, se rifiutiamo alla scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è dell’utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo alla comprensione di quello che siamo, all’elaborazione di altre forme di socialità, di altri codici di comunicazione, di qualche nuova, modesta teoria locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono accidentati e, inevitabilmente, ambigui.
Oreste del Buono recensì il libro su Linus molto favorevolmente, e ci offrì uno spazio fisso su quella testata. Continuavamo a essere convinti però che lo sforzo dovesse essere quello di coniugare la riflessione teorica (estetica, sociologica, politica) con la pratica e il tentativo di creare forme nuove di espressione e di comunicazione. Quasi sempre il risultato, nel solco delle esperienze del 77 e in sintonia con protagonisti della scena alternativa di quegli anni come Bifo e gli Skiantos, era il travestimento, la festa, lo sberleffo, la provocazione. Organizzavamo, certo, conferenze e dibattiti tradizionali, nel 1981 aprimmo anche una libreria a Milano, "La porta sull’immaginario". Ma privilegiavamo incursioni non ortodosse nelle iniziative che ci sembravano meritevoli di appoggio (a modo nostro) o di contestazione. Così partecipammo al convegno di Piacenza "La produzione mentale", organizzato nel 1978 dagli intellettuali del giro di Alfabeta, con una "animazione" (insieme a Bifo e a Freak Antoni, appunto), a cui contribuimmo con un memorabile intervento nella lingua di Vega 4 (non dimenticherò mai i volti attoniti, in platea, di Francesco Leonetti e Maria Corti). La nostra contestazione del 5° Convegno europeo degli appassionati di fantascienza (Eurocon), che si tenne a Stresa nel maggio 1980, raccolse intorno a noi parecchi scrittori e appassionati, e fu così variopinta e fantasiosa che ci meritò l’attenzione delle pagine culturali nazionali di Repubblica (oltre, naturalmente, all’odio di editori e organizzatori). Ma anche nelle iniziative proposte da noi cercavamo il più spesso possibile di spiazzare l’interlocutore, come facemmo nel marzo del 79 con il convegno "Marx/z/iana" da noi promosso al cinema Ciak di Milano, in cui tentavamo di innestare una pratica ludica e festaiola (travestimenti, maschere, performance) in una forma tradizionale e paludata come quella del convegno. Anche la nostra partecipazione alla campagna antinucleare di quegli anni ebbe questo intento: prendendo alla lettera un racconto-provocazione di Miglieruolo pubblicato sulla rivista, caldeggiavamo una intensificazione delle centrali per produrre una nuova razza di operai mutanti (Mario Capanna, in una trasmissione che facemmo a Radio popolare, cascò in pieno nella trappola, mettendosi a polemizzare con grande serietà sulla nostra "proposta").
* * *
L’iniziativa di maggiore respiro organizzata da Un’ambigua utopia fu anche quella che ne determinò la fine. Dopo più di un anno di preparazione, il 20/23 maggio 1982 organizzammo alla Società Umanitaria di Milano "Il gatto del Cheshire". Rassegna di teorie e pratiche della simulazione". Avevamo la collaborazione della cooperativa Intrapresa e il patrocinio del Comune di Milano, ma il progetto era interamente nostro. Era il tentativo di affrontare un tema che ci sembrava emergere dalla situazione di quegli anni: la crescente dimensione derealizzata, simulacrale, nella quale ci muovevamo, ci poneva già allora il problema di come rapportarci alle megastrutture dell’immaginario, di come continuare a praticare esperienze di opposizione e di alternativa quando le pratiche e gli strumenti tradizionali di lotta politica si rivelavano impotenti e inservibili. Era un tentativo di imparare ad abitare il mondo della virtualità: il termine non c’era ancora, il concetto e l’esigenza cominciavano già a chiarirsi. In 4 giorni densi e per noi indimenticabili passarono dai chiostri dell’Umanitaria Umberto Eco, Alberto Abruzzese, Omar Calabrese, Franco Bolelli, Maurizio Ferraris, Gilles Lipovetsky, Paolo Fabbri, Giuseppe Bartolucci, Daniele Brolli, Santagata e Morganti, Tommaso Kemeny, Carlo Formenti, Antonio Attisani, Il marchingegno (che poi sarebbe diventato Krypton), Alik Cavaliere, Emilio Tadini, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini e tanti altri, in un susseguirsi di interventi, installazioni, videotape, poesie, spettacoli teatrali, ologrammi, giochi di ruolo, videogame, musica. Il migliaio di persone che partecipò, come sempre in questi casi, non ebbe la percezione che gli incassi coprivano meno del 15% dei sessanta milioni che era costata l’operazione. Il contributo del Comune, che copriva circa metà del bilancio, arrivò dopo un anno. Il passivo, aggravato dai costi della libreria che dopo meno di due anni non era ancora pienamente avviata, ci affossò. Forse avevamo fatto il passo più lungo della gamba. L’ultimo numero della rivista (il nono della serie), che costituiva il catalogo della manifestazione, non venne neppure distribuito nelle librerie. Non sta a me, naturalmente, trarre un bilancio dell’esperienza di Un’ambigua utopia, se non per dimensioni strettamente personali. Sta a tutti noi, invece, valutare l’utilità che può avere avuto rievocare un’iniziativa di vent’anni fa e che forse ha più differenze che analogie con quella di MIR, ma che in qualche modo fa parte della stessa storia.
VITA D'AMBIGUO
Piero Fiorili


L'epopea di Un'Ambigua Utopia viene collegata, giustamente, al connubio fantascienza & politica che nella seconda metà degli anni '70 si abbatté come un ciclone sul sonnacchioso fandom italiano. In realtà fu la rivista Robot, e più precisamente il suo direttore Vittorio Curtoni, a scatenare le passioni politiche anche nel placido mondo della sf. Inutile ricordare cosa sono stati gli anni '70 per la storia italiana, ma fino a quel momento la sf era un limbo apolitico, un rifugio di sognatori. UAU nacque come movimento di radicalizzazione della spinta iniziale di Robot, che essendo una rivista commerciale, non poteva oltrepassare certi limiti. Personalmente, appartenevo al limbo dei sognatori, ma rimasi folgorato dalle implicazioni socio-politiche che UAU sviscerava dalla fantascienza, tanto che, quando l'Ambigua si allontanò dai temi tipici della sf per affrontare più impegnativi nodi teorici e filosofici, sentii l'urgenza di proseguire il discorso iniziale attraverso un'altra rivista. Essendo nato nel 1945, avevo 23 anni nel 1968, l'età giusta per partecipare a quel confuso periodo di rivoluzione giovanile, se solo fossi stato studente universitario, o anche semplice operaio. Invece, lavoravo ed ero "in carriera", perciò vissi quel periodo affacciato alla finestra, con qualche curiosità e molto scetticismo. Quando realizzai in tutto il suo squallore la vacuità del rapporto di lavoro dipendente, invece di partecipare alle lotte collettive mi isolai dal mondo, e cioè acquistai una cartolibreria e mi rifugiai tra i miei amatissimi libri. Era il 1974, e per quattro anni mi immersi nelle letture più disparate, recuperando tra l'altro l'antica passione per la sf. Avevo iniziato a leggere fantascienza nel 1958, quando sulle bancarelle dell'usato si trovavano ancora TUTTI i numeri di Urania (e perfino di Urania-rivista!), poi avevo proseguito per tutto il periodo scolastico, scoprendo Galaxy e i primi tentativi di sf italiana (Futuro, Interplanet), ma dal 1965 in poi il servizio militare, la "carriera", il matrimonio, i figli, mi avevano completamente allontanato dalla sf. Credo che, se non avessi avuto la libreria, sarebbe rimasta allo stadio di passione giovanile. Invece la maturità mi fece apprezzare ancora di più il genere, ed ero ormai pronto per esternare le mie riflessioni su di esso. Mancava solo l'occasione, e il caso volle che il mio destino si incrociasse con quello dell'Ambigua Utopia.

IL NUMERO 1

Il nucleo originario di UAU si formò nel 1977 nell'hinterland milanese, sull'asse Sesto S.Giovanni - Monza - Vimercate, per iniziativa di Giancarlo Bulgarelli.
Bulgarelli era un sindacalista appassionato più che altro di cinema fantascientifico, e attorno a lui ruotavano le sue amicizie e conoscenze del tempo: Marco Abate (uno studente quindicenne), Michelangelo Miani (un giovane illustratore in cerca di uno sbocco professionale), Gerardo Frizzati (un ragioniere che si occupò quasi esclusivamente di tenere la cassa di UAU), Danilo Marzorati (una meteora, non ricordo cosa facesse, e neanche che faccia avesse, a dire il vero) e infine Giuliano Spagnul, un fotografo che campava vendendo servizi a varie riviste. Spagnul era l'unico che abitasse a Milano, dove viveva in una casa arredata con cassette della frutta, e non saprei dire come fosse venuto in contatto con Bulgarelli e con UAU. Probabilmente perché era un tipo curioso di tutto, e amava molto la fantascienza (ma comunque meno delle sue fotocamere).
Il primo numero, ciclostilato in formato UNI A4 a fogli singoli graffettati in costa, uscì con la data Dicembre 1977 e fu tirato in 600 copie, andate tutte vendute (il prezzo era di 600 lire, ma oggi è difficile quantificare il valore delle lire di quel periodo).
La distribuzione era, come si usava a quel tempo, di tipo "militante", i nostri facevano il giro delle librerie universitarie e ne lasciavano un po' in "deposito", dopo qualche mese ritornavano e ritiravano le copie invendute e/o i soldi di quelle vendute.
Di quel numero uno non sono oggi in grado di dire nient'altro, perché sono vent'anni che mi è stato sottratto da una persona che, con la scusa di farsi delle fotocopie, se l'è fatto prestare e poi ha avuto l'impudenza di dire che me l'aveva subito restituito, se lo ricordava bene...

IL NUMERO 2

Mentre il primo numero si diffondeva nell'area milanese, suscitando un certo interesse, lo stesso nucleo preparava il numero due, inaugurando il filone monotematico che avrebbe contraddistinto per qualche numero la rivista, con l'argomento I BAMBINI NELLA FANTASCIENZA.
Una visione nuova e tutt'altro che banale, ma che risentiva di una certa carenza di strumenti da parte dei critici improvvisati. Oddio, tutte le fanzine sono fatte da critici altrettanto improvvisati, ma per affrontare temi così profondamente correlati col sociale ci sarebbe stata bene un po' più di conoscenza di alcuni testi fondamentali di psicologia e pedagogia.
E' a questo punto che entro in scena io. Era da un po' che accarezzavo l'idea di specializzare in sf la mia cartolibreria, così un giorno mi decisi e issai una nuova insegna: IL FANTALIBRO - FANTASY & SCIENCE FICTION. Una simile specializzazione si rivelò pura illusione, come purtroppo vidi confermato da analoghe esperienze successive di altri cartolibrai milanesi. Tuttavia l'insegna attirò Giuliano Spagnul, che abitava a due isolati di distanza. Benché fosse nella zona Città degli Studi, pullulante di librerie universitarie che già distribuivano UAU, entrò e mi propose di tenere alcune copie del N.1, cosa che feci con entusiasmo, diventando una... "libreria democratica". Siccome proponevo sconti sulla sf, Spagnul cominciò a frequentare spesso la libreria e facemmo amicizia, così riuscivo a tenermi informato sulle iniziative di UAU.
Il numero Due uscì con la data Aprile 1978, sempre ciclostilato ma in veste grafica rinnovata: fogli doppi piegati per un totale di 32 pagine, come una vera rivista, ma di dimensioni extralarge, un po' scomoda da maneggiare. Prezzo aggiornato a 800 lire, e un primo tentativo di distribuzione nazionale attraverso i "Punti Rossi".
Questo numero ospitò un intervento di Vittorio Curtoni, ed entrò nel collettivo un'altra meteora, Marco Dubini, del quale mi ricordo poco in quanto entro la fine dell'anno si erano già perse le sue tracce.
In occasione dell'uscita del N.2 Spagnul mi chiese se volevo andare allo SFIR di Ferrara previsto per i primi di giugno, ma declinai l'invito, l'impegno del negozio non me lo permetteva. Così mi perdetti l'happening di Ferrara (volantinaggio, tentativo di autoriduzione, sit-in di protesta), che fece conoscere il collettivo a tutto il fandom italiano, e che creò subito la fama di rompiscatole che ancora oggi UAU si porta dietro.

IL NUMERO 3

Al ritorno da Ferrara, il collettivo si ingrossò notevolmente, entrarono tra gli altri Roberto Del Piano (un bancario con forte vocazione goliardica), la sua compagna Michela Panigada (esponente di un movimento femminista, se ben ricordo), Luci Pittan (una pubblicista, che però non scrisse quasi mai una riga), Maurizio Giannoni (altro illustratore/vignettista col gusto del fumetto), e infine anch'io iniziai a frequentare le riunioni del collettivo.
Fino allora si erano tenute al Circolo La Comune, di fronte all'Università Statale, ma per motivi che non ricordo, nei mesi di giugno e luglio '78 si tennero a casa di Giuliano Spagnul, tra le cassette da frutta. Avanzai delle critiche sul modo in cui era stata gestita la faccenda "bambini e sf", e fui invitato a mettere per iscritto le mie osservazioni. Scrissi quindi un "pezzullo" di 2 cartelle, e lo firmai con le iniziali pf, come vedevo fare agli altri. Solo che in quel periodo c'erano talmente tante sigle nuove, che in fase di impaginazione si chiesero chi cavolo fosse questo pf. Il libraio, rispose qualcuno. Perciò fui ribattezzato "pf - il libraio" e mantenni per un po' questo appellativo.
Valanghe di lettere e di proposte di collaborazione misero addirittura in crisi la chiusura del terzo numero, che doveva essere dedicato al tema dei Robot, ma che finì per diventare uno zibaldone dove c'era di tutto. Pregevole comunque un articolo di Dante Casati (mi pare fosse un "tuttologo" del Politecnico, ma non ricordo chi di noi lo conoscesse) sullo stato dell'arte della robotica. Il Numero 3 uscì infine con la data Estate 1998 (per intuibili ragioni legali, quale supplemento della rivista "L'erba voglio") e fu distribuito da settembre, sempre col sistema misto Punti Rossi/distribuzione "militante". Il formato rimase quello del precedente (grazie a "L'erba voglio" con qualche miglioramento grafico e in fotocomposizione/offset anziché in ciclostile) e anche il prezzo rimase identico.
Il "fattaccio" dello SFIR attirò l'attenzione dell'area di sinistra, che cominciò a considerare la sf in modo diverso: alcune radio (Canale 96, e soprattutto Radio Popolare) ci offrirono spazio a volontà, le librerie e i centri culturali, milanesi e non, cominciarono a corteggiarci.
Come promesso fin da Ferrara, per il mese di settembre, dal 15 al 17, UAU organizzò una "festa popolare" in un'area dismessa chiamata LA FORNACE. L'invasione dei marziani, come fu battezzata la manifestazione, ebbe un enorme successo, grazie proprio al tam-tam delle radio e dei centri di cultura che esponevano i nostri volantini. Venne un sacco di gente anche da lontano, Claudio Asciuti, che già aveva adocchiato UAU allo SFIR, ebbe un immediato feeling che in seguito si sarebbe tradotto nella "colonna" genovese del collettivo. In quei 3 giorni si posero le basi per un salto di qualità di UAU, che ben presto avrebbe visto nascere per... partenogenesi un collettivo romano e uno napoletano.
Mi fu chiesto di portare i miei libri di fs per venderli a prezzo di costo, cosa che feci senza remora alcuna, ma che mi inchiodò al mio banchetto senza che potessi partecipare alle varie iniziative della festa. Avevo, come già detto, un background totalmente diverso, diciamo pure "borghese", e pur sentendomi attratto dalla vitalità della sinistra di quei tempi non mi sentivo all'altezza di intervenire sui progetti "politici". Mi comportavo ancora come un simpatizzante piuttosto che come un membro effettivo di UAU, e per farmi accettare, nonostante facessi qualche gaffe, mi prestavo a qualsiasi cosa mi chiedessero.
La rifondazione vera e propria di UAU avvenne subito dopo, quando tutti i nuovi contatti stabiliti alla Fornace vennero messi a frutto in una mega-riunione che si tenne in una chiesa sconsacrata (!), e alla quale parteciparono alcuni nomi ben conosciuti nell'ambiente della sf italiana come Giuseppe Lippi, ma che alla fine vide trionfare l'oratoria e le visioni ambiziose del poco noto Antonio Caronia.

IL NUMERO QUATTRO

Caronia, uomo di vasta cultura letteraria, era sorprendentemente un insegnante di matematica, e la sua razionalità aveva facilmente ragione dell'arruffato spontaneismo degli altri "ambigui". Per paradosso, su questo terreno mi trovavo più a mio agio, e fu col suo avvento in UAU che iniziai ad esprimere le mie idee senza imbarazzi. Infatti Bulgarelli aveva un eloquio infarcito di tutti i tic del sinistrese, e per confrontarsi con lui occorreva avere dimestichezza col vissuto delle lotte studentesche ed operaie post-sessantotto; Caronia invece corteggiava l'intellighenzia della sinistra, dove aveva alcune conoscenze che si rivelarono poi utilissime, e le sue radici culturali affondavano in letture che in buona parte avevo fatto anch'io. Perciò ci scontrammo un'infinità di volte sui programmi, ma con grande stima e rispetto reciproci.
Poiché la sua capacità oratoria surclassava quella di Bulgarelli, ben presto la leadership passò dall'uno all'altro e il progetto di UAU cambiò profondamente.
L'ultimo numero del 1978, datato novembre/dicembre, si presentò ancora simile nella veste e nel prezzo al precedente, ma con un sottotitolo che già annunciava la "rivoluzione" di Caronia: RIVISTA DI CRITICA MARX/Z/IANA.
Il previsto argomento monografico, sui Mutanti, venne rimandato al numero successivo, e tutto o quasi il Numero 4 fu dedicato alla festa alla Fornace e ai fermenti che ne erano scaturiti.
Fece il suo debutto anche la narrativa, con un racconto mandatoci da Maria Pia Franceschini, una debuttante che aveva un talento grezzo ma promettente. Si infittirono i contatti con Mauro Antonio Miglieruolo di Roma e Antonio Fabozzi di Napoli, per definire i termini di una "affiliazione" che si rivelò poi problematica, perché il cambio di direzione che di lì a poco avrebbe impresso Caronia, spiazzò non poco romani e napoletani (come anche, in minor misura, Asciuti), il cui entusiasmo era dovuto al progetto originale bulgarelliano.
Caronia portò con sé in UAU la sua compagna Patrizia Brambilla (acuta lettrice, ma più di Fantasy che di sf), poi Enrico Miotto (laureando in astrofisica, oggi stimato professore che tiene conferenze al Planetario di Milano), Renato Aquilani (un romano che lavorava a Milano, mi pare fosse un collega di Patrizia Brambilla), ma il colpo più significativo fu l'attrazione nell'orbita di UAU della francese Silvie Coyaud, free-lance editor, che ci introdusse alla Feltrinelli e ci presentò a Goffredo Fofi, il quale subito ci offrì l'occasione di pubblicare un libro.
Ormai tutto l'establishment (si fa per dire) dell'estrema sinistra faceva a gara per dimostrarsi aperto a questi nuovi geniali rompiscatole; vennero delle proposte di tenere rubriche fisse su Lotta Continua e sul Quotidiano dei Lavoratori, ed eravamo invitati come relatori alle più disparate conferenze.
Ad una di queste, tenuta alla Libreria Utopia di Milano, ci trovammo in compagnia di Gianfranco Viviani ed Inisero Cremaschi, vale a dire i rappresentanti di tutto ciò che combattevamo: il ghetto ammuffito della sf italiana. Mi fa sorridere ripensarci oggi, ma allora ci credevamo...
Ebbi un battibecco con Viviani quando questi, magnificando la propria opera di editore, dipinse i librai più o meno come delle sanguisughe, un tramite dispendioso che impediva agli editori di praticare prezzi più abbordabili. Nella sua ingenuità, credeva di ingraziarsi noi proletari...
Siccome avevo già realizzato che la specializzazione in sf era un suicidio per una libreria, e proprio per colpa del dissennato comportamento degli editori, replicai in modo tanto veemente che Leonardo Coen, un giornalista di Repubblica che era lì presente, descrisse il giorno dopo l'episodio come il fatto saliente della conferenza. Fui quindi invitato dal collettivo a scrivere un articolo sul lato commerciale della diffusione della sf, che intitolai "Libri e pomodori" e che sarebbe stato pubblicato sul numero successivo. Fu il primo di una serie di inchieste sull'editoria continuata poi da Remo Guerrini, già collaboratore di Robot e divenuto poi un "fiancheggiatore" di UAU, pur non facendone parte ufficialmente.

IL NUMERO 5 (o 1° NUOVA SERIE)

Concluso il primo ciclo "spontaneistico", nel dicembre '78 registrammo al Tribunale di Milano la testata "Un'Ambigua Utopia" e trovammo un compiacente direttore responsabile, tale Giuseppe Ursini. Dopo il numero interlocutorio sulla festa alla Fornace, Caronia prese a lavorare sulla sua nuova concezione della rivista. Come annunciato in uno scambio epistolare con Miglieruolo, pubblicato nel Numero 4, il nuovo leader di UAU non disdegnava affatto l'eleganza formale in una rivista, anzi, tutto ciò che avrebbe potuto distinguerla dalla povertà culturale delle fanzine di allora era da lui ritenuto indispensabile per raggiungere degli obbiettivi seri in materia di critica. Piacesse o no ai "francescani" del ciclostile spontaneo, disordinato, ma aperto a tutti i contributi, Caronia fece il vero e proprio "editor", modificò, scartò, ricucì gli articoli e infine rivoluzionò l'aspetto di UAU, appoggiandosi a uno studio grafico professionista (Studio Obliquo) e pubblicando A STAMPA su carta di un certo pregio. Il risultato fu una rivista tabloid di 64 pagine + copertina in cartoncino, distribuita anche in qualche edicola al prezzo di 1500 lire, piena di grafica e abbastanza piacevole a leggersi. Pecunia non olet, raccogliemmo perfino della pubblicità da Urania!
Quanto ai contenuti, quello fu l'ultimo numero dedicato a monografie su soggetti di sf. Forse Caronia avrebbe voluto già partire per nuovi orizzonti, ma alcuni contributi sul tema dei Mutanti erano già pronti da mesi, e poi la sua leadership non era ancora così salda da sfidare il malcontento dei "tradizionalisti". Non sapendo che Dante Casati, il "tuttologo", stava scrivendo un pezzo di taglio scientifico sui Mutanti, ne feci uno anch'io. Quando Caronia si trovò tra le mani i due pezzi, con tante parti identiche tra loro, seppe tagliare, estrapolare e collegare tra loro gli articoli con tale abilità, che non misi mai più in dubbio il suo diritto di editing sulla rivista.
Intanto, una nuova sfida veniva lanciata dalle pagine di UAU: l'annuncio di un convegno sulla critica di sf da organizzarsi nei prossimi mesi. Ciò rappresentava un impegno ben più pesante della festa alla Fornace, occorreva noleggiare un teatro e si favoleggiava di invitare alcuni personaggi di grosso calibro come Umberto Eco. In quel periodo si cominciava anche a parlare del libro da pubblicare con Feltrinelli, venne stilata una lista di titoli da recensire e subito ci fu una corsa ad accaparrarsi la recensione delle proprie opere preferite. Stranamente, l'idea di scrivere per un libro anziché per una fanzine intimidì non pochi, che temevano di non essere all'altezza. Io stesso mi sarei accontentato di scrivere una sola recensione, purché fosse City di Simak, ma Caronia mi disse di aver parlato con Toni Negri e questi si era candidato a scriverne qualcuna, tra cui City. Gli avvenimenti del 7 aprile 1979 (il vergognoso arresto di Negri, Piperno e Scalzone per reati d'opinione) mi riportarono poi in lizza per City. Nel frattempo mi vennero affidate senza problemi opere datate che non entusiasmavano gli altri, e in più mi si chiese di reclutare altri possibili recensori tra i clienti della mia libreria. Offrii a parecchi ragazzi questa ghiotta occasione, ma tutti si ritrassero intimiditi (tra questi ricordo Marcello Bonati, che avrebbe poi raggiunto una certa notorietà nel fandom, ma allora era poco più che un ragazzino), finché venne a trovarmi in libreria un altro giovane destinato alla notorietà: Silvano Barbesti, che avevo già incontrato alla Fornace e un po' in giro per convegni vari, e che si prestò a leggere e recensire le opere di cui né io né gli altri volevamo occuparci. Gli feci fare un paio di recensioni e le sottoposi al Collettivo: abile e arruolato.
Alla fine di gennaio, in concomitanza con l'uscita di questo numero, facemmo le prove generali del nostro convegno, partecipando come "clou" a quello organizzato dal Centro Puecher (in verità fu una cosa per pochi intimi, ma non ci scoraggiammo).

IL NUMERO 6 (o 2° NUOVA SERIE)

Tra le cose irrinunciabili per Caronia c'era il definitivo assetto legale del Collettivo: oltre alla già citata registrazione in tribunale della testata, occorreva costituirci ufficialmente in Cooperativa. Eccoci dunque dal notaio, in 4 o 5 scelti tra i più "rispettabili" (cioè non schedati dalla Digos), a fondare la Cooperativa Un'Ambigua Utopia s.r.l.: conservo ancora come una reliquia la tessera N. 3 di Socio Fondatore. La mia rispettabilità borghese venne utilizzata ancora per cercare una sede dove riunirci. Trattai quindi il subaffitto di un ufficio presso un'azienda alla periferia Est di Milano ed avemmo finalmente una sede. Infatti durante l'inverno 1978/79 c'eravamo riuniti a casa di Luci Pittan o di Patrizia Brambilla, poi per un certo periodo al centro sociale Centofiori. Fu proprio al Centofiori che si verificò la svolta decisiva per la sorte della rivista: Caronia propose ed ottenne, a maggioranza risicata, di abbandonare le tematiche proprie della sf e di lanciarci nel campo della cultura "alta". Il prossimo numero avrebbe affrontato il tema dell'Utopia in chiave filosofica e sociologica, a partire da una discussione "di gruppo" registrata e sbobinata, e proseguendo con un excursus sulle utopie del passato tratto da un saggio di Henry Desroche, tradotto e condensato dallo stesso Caronia. Il quale poi si riservò la "chiusa" Utopia e Fantascienza nel tentativo di non perdere completamente di vista il target iniziale. Mera illusione: quando uscì il Numero 2 della nuova serie, il malcontento iniziò a serpeggiare, e non solo tra chi aveva votato (io per primo) contro una scelta così improvvida, ma anche tra quelli che, a bocce ferme, si rendevano conto dell'elitarismo insito nella svolta verso una cultura "paludata", in stridente contraddizione con l'assunto iniziale di UAU.
Tuttavia, mentre era in preparazione il numero sull'utopia, le cose sembravano filare a gonfie vele: avevamo una rubrica fissa a Radio Popolare (dove le note di Radioactivity dei Kraftwerk introducevano a un'ora di intelligenti provocazioni culturali) e ne approfittammo per lanciare in grande stile il nostro convegno (battezzato Marx/z/iana), che intanto stavamo organizzando riunendoci nella nostra nuova sede. L'impresario Leo Wachter (un'istituzione milanese, recentemente scomparso) ci noleggiò il cinema/teatro Ciak per 3 giorni ad un prezzo molto ragionevole grazie al nostro crescente prestigio, ma i grossi nomi che speravamo di coinvolgere non si fecero vedere. C'erano invece tutti i soliti noti del ristretto mondo della sf italiana, ma di pubblico vero e proprio se ne vide pochino. Come al solito (anche approfittando del fatto che il Ciak era a 50 metri dalla mia libreria) organizzai il banchetto dei libri da vendere a prezzo "autoridotto", così vidi poco della manifestazione, che, dal punto di vista economico, si rivelò un tale fiasco da mettere in ginocchio le traballanti finanze della neonata cooperativa. Dal punto di vista del prestigio, forse non ne aggiunse a quello di cui già godevamo, ma sicuramente mantenne viva su di noi l'attenzione dei media, al di fuori del ristretto ambito del fandom.
Tra lo sparuto pubblico, c'era comunque un gruppetto facente capo a Flavio Ranisi, grande appassionato di sf e neo-proprietario della libreria Panta. Questi lasciò il suo recapito a qualcuno, dicendosi interessato a distribuire UAU ed eventualmente ad acquistare uno spazio pubblicitario. Manco a dirlo, fui incaricato io della trattativa. Quando mi recai alla libreria Panta trovai tutto il gruppetto che era stato al convegno e dovetti subire un "processo" in rappresentanza di UAU a causa della (per loro) eccessiva politicizzazione e del fumoso intellettualismo di Caronia. E non era ancora uscito il numero sull'utopia...
Poiché ero anch'io deluso per l'abbandono delle tematiche di sf, dovetti convenire che le critiche non erano del tutto infondate, spiegai l'evoluzione che avrebbe avuto Ambigua Utopia a partire dal numero di prossima uscita, e lì per lì nacque l'idea di una nuova fanzine che avrebbe dovuto riempire il vuoto lasciato da UAU. Mi dichiarai senz'altro disponibile, e quello fu l'atto di concepimento della fanzine "La Bottega del Fantastico", che avrebbe visto la luce quasi un anno dopo. Ma questa è un'altra storia. Comunque, per tutto il 1979 mi dedicai ancora con tutte le energie a UAU, lasciando poco spazio alla gestazione della Bottega.
Infine, il Numero 2(6) uscì e i miei timori si rivelarono tutt'altro che infondati. Il pubblico della fantascienza, che pure pareva disposto a digerire il taglio "politico" della rivista, rimase deluso nel non ritrovare le proprie tematiche. D'altra parte, per quel tipo di rivista era difficile trovare in tempi brevi un nuovo pubblico (che pure doveva esistere, di questo ne ero convinto quanto Caronia), per cui si vendettero pochissime copie e i considerevoli costi di stampa non poterono essere coperti, nonostante Mondadori ci avesse comprato ancora una pagina di pubblicità. E dato che anche il numero precedente era andato piuttosto male (un po' per colpa della distribuzione, la famigerata NDE che trascinò nel proprio disastro molte testate della sinistra), la situazione debitoria si era fatta ormai pesante.

I LABIRINTI

Vista la situazione economica, rinunciammo alla sede e trovammo ospitalità gratuita alla Fornace. Era però fuori mano per tutti, e ben presto ricominciammo a riunirci in casa dell'uno o dell'altro. Fatto il punto della situazione, e preso atto dell'impossibilità di continuare a pubblicare la rivista (che aveva cadenza trimestrale), nella seconda metà del 1979 ci dedicammo esclusivamente al completamento del libro. Rispetto alla lista originale, erano state aggiunti alcuni romanzi e antologie, ma ne mancavano ancora una dozzina che nessuno ricordava abbastanza bene per poterli recensire. Durante l'estate ricordo interminabili giornate passate nel mio negozio deserto a rileggere (o addirittura leggere per la prima volta) vecchi classici della sf, e serate torride passate con Spagnul a correggere le schede delle recensioni e a completarle, cataloghi alla mano, con i riferimenti bibliografici. Non era ancora uscito il Catalogo di Pilo, né tantomeno quello di Vegetti, per cui era un lavoro da certosino, pareva non dovesse finire mai. Finalmente le schede furono pronte: 137 in tutto, di cui 28 di Antonio Caronia, 25 del 17nne Marco Abate, 24 di Roberto Del Piano, 20 mie, 19 di Silvano Barbesti, 13 di Giuliano Spagnul e 8 di Patrizia Brambilla. Ma il lavoro non era finito qui: durante l'autunno ci dedicammo all'apparato critico, mentre Feltrinelli già ci faceva premura. Caronia si dedicò alla stesura dell'Introduzione, che tanto lustro avrebbe portato al libro, Barbesti si occupò della storia delle riviste di sf in Italia, Spagnul delle opere critiche pubblicate, e infine io delle collane librarie. Ben presto Barbesti si trovò in difficoltà e mi chiese di dargli una mano a completare la sua appendice, così cominciammo a scrivere a quattro mani scoprendo un insolito affiatamento. Riuscimmo a consegnare in tempo il pezzo sulle riviste di sf, e lo firmammo insieme. A questo punto Spagnul, arenatosi anch'egli verso la fine del suo pezzo, me lo rifilò e dovetti finirlo io, dato che mancavano appena due giorni alla scadenza.
I due mesi che precedettero l'uscita del libro furono tetri, come l'edificio abbandonato che trovammo nel quartiere Isola e che divenne la nostra nuova sede. Ci portai una volta i miei figli, che ribattezzarono subito il luogo come... un'ambigua topaia. Tra i vaghi progetti accarezzati in quei tempi c'era quello di pubblicare un numero speciale come inserto nella rivista di fumetti WOW: scrivemmo degli articoli per questa evenienza, ma poi non se ne fece niente. Chissà che fine ha fatto tutto il materiale che preparammo, non era niente male. Ricordo che all'Isola, in una gelida sera di dicembre (ovviamente non c'era riscaldamento!) la pubblica lettura di un pezzo umoristico su Gilda Musa, destinato all'inserto di WOW, fece ridere tutti fino alle lacrime, riscaldando almeno un po' i cuori...
Intanto approfittavo della forzata inattività di UAU per mandare avanti il progetto della nuova fanzine, ormai battezzata ufficialmente La Bottega del Fantastico, attorno alla quale si stava aggregando un folto gruppo di collaboratori, tra i quali l'illustratore Giuseppe Festino. Tutte le idee che non ero riuscito a realizzare in UAU finirono lì, ragione per cui la consideravo (e ancora oggi la considero) la MIA fanzine, senza per questo togliere nulla al contributo degli altri. Il gruppo aveva il suo punto di riferimento in Flavio Ranisi e la sua libreria (la quale sarebbe poi stata rinominata con lo stesso titolo della rivista), ma come Caronia faceva in pratica l'editor all'Ambigua, così facevo io alla Bottega, ovviamente col consenso di tutti.

IL NUMERO 7 (o 3° NUOVA SERIE)

L'uscita del libro "Nei labirinti della fantascienza", in pieno periodo natalizio, rivitalizzò UAU, che intanto aveva subito alcune defezioni e/o disaffezioni (Michela Panigada, Maurizio Giannoni e altri). Il Collettivo napoletano di UAU aveva deciso di prendere una strada autonoma fondando la fanzine "Pianeta Rosso", quello romano era praticamente abortito dopo una difficile gestazione, mentre quello genovese di Claudio Asciuti si era al contrario consolidato.
Va da sé che i nuovi eroi della situazione eravamo noi 7 estensori materiali del libro, citati continuamente nelle recensioni entusiastiche che avemmo da buona parte della stampa. Gli altri, tra cui Bulgarelli, si sentirono un po' emarginati ma continuarono a credere in un rilancio dell'intero Collettivo.
Fioccarono di nuovo le proposte di collaborazione, Oreste del Buono ci concesse una rubrica fissa su Linus, e a questo punto l'idea di riprendere la pubblicazione della rivista si riaffacciò. Soldi da Feltrinelli non ne avevamo ancora visti, ma Caronia non voleva perdere l'occasione di un ritorno alla grande e, benché la tipografia non fosse ancora stata pagata per i due numeri del 1979, sondammo il mercato e trovammo un'altra tipografia ben lieta di pubblicare una rivista di prestigio culturale come la nostra...
L'aspetto rimase identico, il "montaggio" lo fece Caronia con l'impostazione grafica dello Studio Obliquo (altro creditore insoddisfatto), solo il prezzo salì a 2000 lire.
Scottato dall'insuccesso del tema Utopia, Caronia ascoltò per una volta la voce di chi reclamava un urgente rientro nel mondo della sf vera propria, che tanto bene aveva accolto i "Labirinti", ma finimmo col fare un numero beceramente polemico col fandom e con le sue istituzioni ghettizzanti: infatti l'Eurocon di Stresa era alle porte, si sarebbe tenuto ai primi di maggio.
Ce la pigliammo anche col povero "Aliens", la creatura di Curtoni nata già morta proprio per aver cercato ingenuamente di orchestrare la cacofonia tipica del fandom. Se l'allontanamento dalle tematiche della sf ci aveva sottratto quel tipo di pubblico (senza peraltro trovarne uno sostitutivo), le nostre bordate ad alzo zero contro di esso finirono per alienarcelo definitivamente. Col senno di poi (e mi metto anch'io tra i "pentiti"), sarebbe stato meglio proseguire nella ricerca di un nuovo pubblico più raffinato, non necessariamente fan di sf, ma sensibile a un discorso culturale fondato sulle tematiche fantastiche, mentre le ironie e le derisioni sul ghetto avrebbero potuto essere "sparate" dalla tribuna di Linus, ad un pubblico ben più vasto e variegato.
La spedizione a Stresa fu preparata accuratamente, volevamo un effetto scenico memorabile, ben più "alieno" del volantinaggio di Ferrara di due anni prima: confezionammo costumi e maschere con più fantasia che mezzi, registrammo un "comunicato alieno" e partimmo per l'Eurocon dove ci ricongiungemmo con la "colonna" genovese di Asciuti. Nel frattempo era finalmente uscito il primo numero della Bottega del Fantastico, accolto con una certa freddezza da UAU. Caronia mi rimproverò di fare una battaglia "di retroguardia", sostenendo che nell'impostazione di fondo della Bottega la mia concezione della sf come "letteratura di idee" era inconciliabile col fatto di essere contemporaneamente coautore dei Labirinti, opera in cui veniva smentita e avversata tale concezione. In occasione della successiva riunione del Collettivo, fui "processato" e assolto perché... avevo tutto il diritto di sbagliare a titolo personale, senza che per questo ne dovesse rispondere UAU. Ciò mi mise in una imbarazzante situazione proprio a Stresa, in quanto anche il gruppo della Bottega vi partecipava, con l'intenzione di allacciare rapporti col fandom, mentre UAU questi rapporti non solo non li cercava, ma addirittura li aborriva. Insomma, non sapevo più per conto di chi mi trovavo lì, e andò a finire che non partecipai alla clamorosa iniziativa degli Ambigui per non compromettere la mia partecipazione alla Bottega. Di quanto fecero a Stresa i compagni di UAU conservo alcuni ritagli di giornale, e recentemente Asciuti ha ricostruito quegli avvenimenti con molta fedeltà, per cui non starò a descrivere dettagliatamente tutte le fasi della manifestazione. Voglio solo ricordare che il comportamento dell'organizzazione venne censurato anche da Sebastiano Fusco, che non era certo della nostra "parrocchia", anzi, era il "nemico" per eccellenza: ebbene, Fusco ci mise per iscritto un documento di solidarietà, col risultato di conquistare il nostro rispetto. Il suo ruolo di bieco avversario, al fianco dell'inossidabile DeTurris, fu quindi preso da Alex Voglino...
Il giornalista di Repubblica Leonardo Coen fece un resoconto divertito dell'accaduto, ma in privato contestò a Caronia e soci il comportamento elitario e intransigente che, a suo parere, ricacciava ancora di più nel ghetto la povera sf. Sventolò poi sotto al loro naso il numero 1 della Bottega sostenendo che QUELLO era il modo di avvicinare di più alla fantascienza i lettori occasionali. Al che, Patrizia Brambilla rivendicò la mia appartenenza a UAU, sostenne cioè una "relazione di parentela" tra le riviste attraverso la mia persona, e lo stesso Caronia in quell'occasione si espresse in modo meno critico nei riguardi della BdF. Quando mi fu riferito il fatto, ne fui molto sollevato, e ciò fugò una volta per tutte la mia sgradevole sensazione di essere un "eretico" ormai fuori dal gruppo.

IL NUMERO 8 (o 4° NUOVA SERIE)

Durante il 1980 mi sottoposi a un vero tour de force, poiché uscirono 3 numeri della Bdf e 2 di UAU, c'era inoltre la rubrica di Linus da mandare avanti e collaboravo alle trasmissioni di Radio Popolare di UAU; ottenni poi uno spazio, sempre a Radio Popolare, per la Bottega del Fantastico e vi partecipai quasi sempre. Da questa full immersion usciva male il mio lavoro: pur preso com'ero da questo hobby mi accorgevo che gli affari intanto languivano. Figuriamoci come accolsi la nuova trovata di Caronia, e cioè quella di aprire una libreria specializzata in fantascienza. Ce la misi tutta per fargli cambiare idea, ma non ci fu nulla da fare. Patrizia Brambilla si dimise dal suo impiego alla Honeywell e con la liquidazione acquistò una cartolibreria in via MacMahon, in una zona non tanto periferica, ma tutt'altro che ideale per un esercizio commerciale. Nel frattempo, si preparava quello che sarebbe stato l'ottavo e ultimo numero di UAU. Ancora una volta venne scelto un tema non ortodosso, cioè IL SOGNO. A questo punto, non avendo nulla da dire sull'argomento, mi limitai a scrivere una recensione libraria, dedicando sempre più tempo alla BdF. Solo quando venne fuori l'idea di fare un inserto con un "falso" di Repubblica (sullo stile del famigerato IL MALE), ci presi gusto a scrivere un pezzo che faceva il verso a Giorgio Bocca. Avevamo inoltre agganciato, tramite Linus, Diego Gabutti, autore di FANTASCIENZA E COMUNISMO, che sarebbe diventato un collaboratore fisso se solo la rivista fosse vissuta più a lungo. Alcuni Ambigui della prima ora diradarono la loro presenza, Barbesti uscì dal Collettivo per divergenze insanabili con Caronia, in compenso la presenza femminile aumentò con l'ingresso di Marisa Bello, compagna di Spagnul, e di Flavia De Giovanni, amica della Brambilla, più che disposte a mettere in piazza i loro sogni.
Ci mettemmo quindi alla ricerca di una nuova tipografia, perché, manco a dirlo, dal numero precedente non avemmo che pochi spiccioli, insufficienti a pagare il tipografo.
Il frescone di turno abboccò al nome prestigioso di UAU e ci stampò duemila copie, che portai personalmente al più grande distributore di giornali, le Messaggerie Italiane. Stavolta Caronia era sicuro che con una distribuzione "mirata" in 1000 punti vendita selezionati dal potente distributore, avremmo recuperato il deficit. Il numero 4(8) non presentava novità nell'aspetto, e anche il prezzo era rimasto lo stesso, non si vedeva perché i nostri ripetuti successi mediatici non dovessero trasformarsi in un successo di vendita. A tanti anni di distanza ho capito che UAU era come "Il Capitale" di Marx: tutti lo citano, ma nessuno l'ha letto...
E difatti, dopo l'estate, quando tornai alle Messaggerie, mi resero 1980 copie su 2000. Contestai il fatto che i pacchi erano ancora legati col cordoncino messo dalla legatoria, segno evidente che la rivista non era mai stata consegnata alle edicole, ma mi venne sbrigativamente risposto che i giornalai rifiutavano le pubblicazioni marginali e poco conosciute. Caronia non se la prese più di tanto per questo, che era in pratica l'atto di morte della rivista, in quanto era già tutto preso dal sogno della libreria.

LA PORTA SULL'IMMAGINARIO

Durante il mese di settembre fervevano i lavori nel negozio di via MacMahon: i mobili ce li facemmo noi comprando il legno e montando gli scaffali, mentre Michelangelo Miani dipingeva sul muro a "trompe l'oeil" una porta socchiusa nel cui spiraglio si intravvedevano figure e paesaggi fantastici. Infatti la libreria venne battezzata LA PORTA SULL'IMMAGINARIO, e da quel momento la strategia di Caronia mirò a trasferire tutto il prestigio dell'Ambigua Utopia sulla sua nuova creatura. Fui pregato di usare tutte le mie conoscenze nel mercato librario per ottenere credito e trattamenti di favore per la neonata libreria, ma in verità non ce ne fu bisogno, anzi, tutta l'editoria di sinistra mi accolse a braccia aperte appena sentito il nome di UAU, proponendo condizioni che non avrei mai ottenuto (né sperato di ottenere) a titolo personale.
Appena inaugurata la libreria, con un "ricevimento" al quale parteciparono tutti i nomi più in vista della sf dell'area milanese, Caronia si mise in contatto con Novella Sansoni, assessore alla cultura della Provincia, per organizzare una mostra-mercato itinerante del libro di fantascienza. Per questa manifestazione io, Caronia, Aquilani e la Brambilla compilammo una "proposta di lettura" intitolata I LIBRI DEL POSSIBILE, riassumendo le schede dei "Labirinti" e aggiungendone alcune nuove. Più che per le schede dei libri, effettivamente troppo sintetiche, trovo particolarmente valide le panoramiche dei vari temi della fs, divise per decenni, recuperando così il periodo pioneristico degli anni 20 e 30, forse ingiustamente ignorato nei Labirinti. Per la prima volta, la cura fu accreditata alla libreria La Porta sull'Immaginario anziché al Collettivo Un'Ambigua Utopia. Stampato a spese della Provincia (una volta tanto non dovemmo fare i conti coi costi di stampa!) questo Catalogo ragionato della fs ebbe una diffusione limitata, a quanto ne so, mentre meriterebbe di essere conosciuto almeno quanto i Labirinti. Un'altra iniziativa meritoria fu il coinvolgimento della Biblioteca Comunale del quartiere Sempione nell'organizzazione di una conferenza, promossa dalla Libreria, del critico e studioso di sf Darko Suvin, di passaggio a Milano. Iniziativa di grande prestigio culturale, ma alla quale parteciparono pochi intimi.
Non ho mai saputo bene quali fossero i rapporti tra la libreria e la Cooperativa, nel senso che mi pare che la proprietà risultasse intestata a Patrizia Brambilla (in fondo, i soldi erano quasi tutti i suoi!) in quanto la Cooperativa, oberata di debiti, aveva già smesso di funzionare. Fatto sta che la sede di UAU divenne ora la libreria, che aveva un "retro" spazioso, ma sempre più la vita del Collettivo si andava riducendo alle iniziative della coppia Brambilla-Caronia. Bulgarelli si faceva vedere ormai di rado, e anche Miani, Del Piano, Abate e infine Spagnul si defilarono a poco a poco. Così, quando in ottobre un gruppo di Ferrara (credo il "Charlie Chaplin") organizzò una conferenza alla quale eravamo invitati come ospiti d'onore, ci andammo solo io, Spagnul, Caronia e Brambilla.
In novembre ricevemmo la visita del nostro ex-collettivo napoletano, ora "Pianeta Rosso": Antonio Fabozzi sentiva il bisogno di chiarire le rispettive posizioni e venne a Milano con altri compagni per "aprire un dibattito". Dopo una giornata di chiacchiere estenuanti sulle teorie del "movimento", non si era ancora raggiunta la minima intesa, e la discussione venne aggiornata al giorno seguente. Senonché nella notte ci fu il terremoto nell'Irpinia, così la mattina dopo i napoletani, giustamente angosciati, sospesero i "lavori" e tornarono precipitosamente a casa. Non li vedemmo mai più, e ognuno proseguì per la propria strada.
In quel periodo usciva il terzo numero della BdF, era uno sforzo non indifferente mantenere la promessa trimestralità, ma in quel periodo avevo una fibra di ferro e riuscivo a tenere il piede in due scarpe senza tanti problemi. Vi furono anche delle manifestazioni in cui mi trovai a "lavorare" per la BdF mentre Caronia vi partecipava per UAU: ricordo ad esempio un vernissage della Libra di Ugo Malaguti alla Terrazza Martini, e un festival del Cinema di Fantascienza al Cinema Argentina. Non ci fu mai, per fortuna, alcun problema di incompatibilità tra i due gruppi ai quali appartenevo, tant'è vero che diversi mesi dopo, nel giugno 1981, Caronia mi invitò a partecipare come relatore, stavolta non per UAU ma in rappresentanza della BdF, al convegno COUNTDOWN che aveva organizzato insieme alla Clup (la libreria del Politecnico). Fu un convegno importante per il prestigio di alcuni partecipanti (Gillo Dorfles, Silvio Ceccato, Oreste del Buono) e che intendeva fare il punto sui rapporti tra scienza e fantascienza a "soli" 19 anni dal fatidico 2000. Partecipò anche Asciuti, in qualità di relatore sul cinema di sf, e quella fu l'ultima volta che lo vidi.
Per il resto, il 1981 fu un anno nero per le attività di UAU e BdF. A causa dello scandalo della loggia P2, Del Buono si dimise da tutte le attività in Rizzoli, compresa la direzione di Linus, e così perdemmo anche la nostra rubrica. A Radio Popolare non andava ormai più nessuno e il nostro spazio fu soppresso. Il convegno della Clup, unico evento di rilievo dell'anno, fu organizzato da UAU per i buoni uffici di Carlo Capsoni, docente del Politecnico, che Caronia cercava di coinvolgere sempre più nell'Ambigua. Nelle ultime riunioni alle quali partecipai, Capsoni era sempre presente, ma mancavano ormai tutti gli altri. Nel retro della libreria ci trovavamo ormai in 4 o 5 gatti, progetti tanti, realizzazioni zero. Iniziai anch'io a disertare le riunioni. Sull'altro fronte, i 3 numeri del 1980 avevano dissanguato la BdF, così riuscimmo solo in settembre a far uscire il quarto numero, unico del 1981 (e ultimo in assoluto).
Alla fine dell'anno, in gravi difficoltà economiche personali, vendetti la mia cartolibreria e mi misi a fare il promotore per Fabbri Editore. Ebbi modo così di conoscere altre librerie gestite da appassionati di sf, tutti con l'illusione di potersi specializzare nel genere tanto amato. Era del tutto inutile cercare di dissuaderli, la passione li accecava completamente, chiunque credeva di poter riuscire dov'erano falliti gli altri.
Nel 1982 il nuovo lavoro mi impedì di dedicare ancora tutto quel tempo alla sf, inoltre già dall'anno precedente avevo cominciato a frequentare i circoli scacchistici ed ero sempre più preso dai vari tornei. Trovai comunque la forza di occuparmi del quinto numero della BdF, andai ad intervistare l'editore Armenia e scrissi un paio di pezzi. Ma pure Ranisi era in difficoltà finanziarie e della rivista gli interessava ormai poco, mentre gli altri, privi di guida, non parevano in grado di produrre alcunché. Quando Ranisi confessò di aver perso la cassetta con l'intervista di Armenia, gettai la spugna e rinunciai definitivamente a far uscire il numero 5.
Nel frattempo, Caronia aveva organizzato per UAU una prestigiosa e faraonica mostra di ologrammi all'Umanitaria e andai a vederla come semplice spettatore pagante: bella e interessante, ma gli ologrammi erano stati creati da una cooperativa bolognese che aveva chiesto e ottenuto una cifra spropositata per portare tutta l'attrezzatura a Milano. Qualche giorno dopo passai in libreria per complimentarmi, ma vi trovai la Brambilla in lacrime. La mostra aveva accumulato un deficit di una dozzina di milioni, le vendite andavano malissimo, e non restava altro che chiudere. Patrizia si rendeva conto solo allora di aver bruciato la propria liquidazione in un sogno impossibile. Me ne andai profondamente turbato, avevo molto affetto per Patrizia, così non ebbi più il coraggio di assistere all'agonia della libreria, e con essa della Cooperativa. Da allora non vidi né sentii più nessuno di UAU, ebbi solo qualche notizia di seconda mano.
Pochi mesi dopo, anche Ranisi vendette la sua libreria a certi tipi che ne fecero un noto centro esoterico. Credo che oggi La Bottega del Fantastico richiami alla mente ormai solo oscure storie di esoterismo, e che nessuno ricordi più il suo passato di libreria di fantascienza con tanto di fanzine omonima. Anche del gruppo della Bottega perdetti subito le tracce, solo Festino si fece sentire ancora qualche volta, poi più nulla.
Un po' perché ormai avevo detto tutto quello che avevo da dire sulla sf, e avrei potuto solo ripetermi, un po' perché la fine ingloriosa delle due riviste mi aveva depresso, da allora rifiutai sistematicamente non solo di scrivere, ma anche di leggere fantascienza. L'unica persona con la quale mi tengo ancora in contatto è Silvano Barbesti, grazie ad una amicizia di coppia che sopravvive da oltre vent'anni a patto... di non parlare di sf. Proprio lui, nel 1986, riuscì a coinvolgermi ancora una volta in un articolo a quattro mani sugli sviluppi della robotica, che fu pubblicato in appendice a un Urania. Si trattava di rapporti tra scienza e fantascienza, ed io, che nel frattempo ero diventato un softwarista, mi occupai della parte scientifica, lasciando a lui la parte "fanta". L'articolo in questione è citato da Vegetti nel suo Catalogo, e questa è l'unica traccia che ho lasciato dei miei cinque anni di lavoro culturale nella sf...
Piero Fiorili

PostRiflessione

ALTRI ALBERI, MA ANCORA NESSUNA FORESTA

Mi sono accorto, con piacere e sorpresa, che Domenico Gallo ha raccolto i memoriali (mio e di Antonio Caronia) sotto il titolo "Per una storia di Un'Ambigua Utopia", probabilmente allo scopo di stimolare altri contributi diretti di ex militanti del collettivo. Sarei sommamente felice (oltre che naturalmente curioso) di verificare come e quanto quell'esperienza abbia lasciato dei segni nella vita di coloro che sono stati per un breve periodo i miei compagni di cammino.
Mi sono però stupito nel vedere come Gallo tratti i due contributi finora pubblicati quasi raccontassero due storie diverse, ed egli cercasse una "verità" ancora non detta (ma in quel frattempo, esprime la sua preferenza per la "storia" di Caronia).
La guerra mondiale descritta nelle memorie del Maresciallo Pétain è pur sempre la stessa guerra combattuta dal buon soldato Svejk. Una delle due storie è forse più o meno "vera" dell'altra? Dipende dalle finalità del narratore e dalle esigenze del lettore, ovviamente.
Il mio scritto voleva essere proprio ciò che appare, cioè un memoriale "tracciato secondo un codice soggettivista" (per usare le parole dello stesso Gallo) e altro non avrebbe potuto essere, in quanto concepito inizialmente per mio utilizzo personale. L'ho buttato giù di getto in una torrida giornata dell'estate scorsa, dopo aver riesumato riviste e documenti sepolti da vent'anni in un cassetto. Avevo appena letto alcune rievocazioni che Claudio Asciuti aveva fatto dell'epopea di UAU, e benché avessi poco da eccepire sulla sua mitizzazione di quei fatti, mi proponevo di fissare definitivamente su carta il modo in cui li avevo vissuti personalmente, prima di perderne progressivamente memoria.
Ne avevo poi accennato in un fugace scambio epistolare con Marco Mocchi, e quando questi me ne ha proposto la pubblicazione, non ho resistito alla tentazione di ritoccare il memoriale per dargli l'aspetto di una "narrazione": mi pareva di rendere così più interessante (almeno sotto il profilo della pura lettura) una sequenza di nomi e di fatti che ai più giovani, pensavo, ben poco avevano da dire...
Però devo ammettere che baratterei volentieri la mia acribia mnemonica (come Antonio Caronia ha voluto generosamente definirla) con la lucidità di pensiero che questi tuttora sfoggia, a dispetto di un'età non verdissima. Il suo richiamo a una delle mie letture preferite, Bouvard et Pécuchet, non è casuale. Vuole sottintendere che proprio come uno dei "bonhommes" flaubertiani ho potuto solo descrivere minuziosamente una realtà attraversata ma non "vissuta" perché non compresa... Oppure, per usare un'altra metafora, la famosa foresta che non ho visto, ma della quale posso descrivere i singoli alberi. 
Ma di questo ero pienamente cosciente, e nulla ho fatto per nasconderlo. Non ci piove sul fatto che allora (come adesso, del resto) non capissi i fermenti della sinistra post '77, e quindi mai e poi mai avrei potuto scrivere una "Storia di UAU", ma appunto solo raccontare una "vita d'ambiguo", autorizzando tra l'altro a priori ogni interpretazione maliziosa del termine.
Se avessi saputo che Antonio già un anno prima aveva rievocato, con ben altro taglio, la saga di UAU, avrei tenuto per me le mie memorie, questo è certo. Ma non sapendolo, mi era sembrata una buona idea pubblicarle, in primis per il loro intrinseco valore di testimonianza diretta, ma anche perché non scrivevo da quasi vent'anni e volevo riassaporare il piacere di narrare.
Non me ne pento, ma mi dolgo tuttavia di alcune cose: per esempio, di avere inciampato proprio sul traguardo, pur con tutto il mio atletismo mnemonico, riferendo in modo vergognosamente riduttivo sul convegno "Il gatto del Chesire". Purtroppo in quei mesi attraversavo un periodo di depressione (ne riferisco nel memoriale) e come sempre accade, di quei periodi restano solo pochi e confusi ricordi. Del numero 9 di UAU non ho forse mai saputo l'esistenza, non sono in grado di ricordarlo. Fortunatamente ci ha pensato Caronia a riferire con la dovuta attenzione su quell'importantissimo e "faraonico" convegno, del quale conservo un vivido ricordo solo dei primi stupefacenti ologrammi che potei ammirare.
Ma sono piuttosto le mie "tesi ad hoc" quelle che Antonio ha impietosamente raccolto e inchiodato alla croce. Touché. Impossibile sapere i reali moventi di chicchessia meglio dell'interessato. In questa mia presunzione sono stato evidentemente influenzato da alcuni storici disinvolti, che però hanno almeno avuto il buon gusto di aspettare il trapasso degli interessati, prima di spiegarci cosa in realtà essi pensavano... 
Mi pare poi di capire che Antonio non abbia gradito alcune mie definizioni, da lui riportate fra virgolette: sono dolente per l'equivoco, ma quando ho scritto "fumoso intellettualismo" riferivo semplicemente le opinioni espresse dai partecipanti a una discussione avvenuta nella libreria di Flavio Ranisi. Del resto, che tale definizione non si accordasse con le altre da me espresse nei suoi confronti, era talmente chiaro da indurlo a inserire una nota in proposito. Avrei dovuto a mia volta virgolettare, ma mi sembrava già abbastanza comprensibile dal contesto: pazienza, pago la ruggine accumulatasi nella mia penna durante tutti questi anni...
Quanto alle altre definizioni, spero mi venga concesso il ricorso a innocenti forme retoriche, come "visioni ambiziose" o "abilità oratoria" che a mio modo di vedere non rappresentano alcunché di negativo, tutt'altro. "Poco noto" si riferiva alla notorietà di Caronia nel campo specifico della fantascienza, all'epoca del suo ingresso in UAU, e la "sorpresa" nello scoprirlo insegnante di matematica derivava dalla "vasta cultura umanistica", che faceva pensare piuttosto a studi di Letteratura o di Filosofia. Nessuno vorrà negare che la padronanza di discipline per certi versi antitetiche è un fatto insolito e sorprendente...
Ero convinto di essermi espresso nei suoi confronti col massimo rispetto, però non escludo che la mia ignoranza dell'etica movimentista possa farmi commettere qualche gaffe: magari quelli che per me sono lusinghieri apprezzamenti, vengono invece considerati atti d'accusa, proprio non saprei.
Ribadisco allora chiaramente e definitivamente la stima che nutrivo e nutro tuttora per Antonio Caronia, una delle persone più colte e intelligenti che abbia conosciuto nella mia vita. Il fatto che le nostre rispettive esperienze, e di conseguenza le nostre idee, non avrebbero potuto essere più diverse (come egli sottolinea), ha rappresentato per me una specie di incontro fra culture aliene, un'esperienza che mi ha segnato profondamente. Sicuramente la nostra frequentazione non sarà apparsa altrettanto interessante ai suoi occhi, ma gli sono grato per la pazienza pedagogica che in diverse occasioni ha avuto nei miei confronti. Senza molto profitto da parte mia, ne concluderà, se dalle mie memorie egli ricava l'impressione che lo consideri colpevole di vari misfatti e nefandezze. 
Mi preme puntualizzare che non gli rimprovero affatto di essere la causa della rovina economica di Patrizia Brambilla, la quale era maggiorenne, consenziente e addirittura entusiasta di gestire una libreria. L'unica "colpa" di Caronia è quella di aver creduto che fosse cosa buona e giusta impegnare la cooperativa in quell'avventura. Senza il suo placet si sarebbe evitato almeno questo disastro economico. Ma non era tenuto a conoscere le miserie del commercio, naturalmente. Io le conoscevo fin troppo bene, e il mio rimpianto è di non essere riuscito a dissuadere nessuno degli entusiasti, Caronia in primis... 
E' solo questo che si può leggere tra le righe del mio memoriale, a ben guardare.
Quanto agli altri "misfatti", non ho mai pensato che Caronia avesse trascinato Un'Ambigua Utopia a un fallimento dopo l'altro (se non per la sola parte economica, circa la quale anch'egli riconosce di aver fatto "il passo più lungo della gamba"). Al contrario, con lui UAU ha vissuto una breve ma intensa stagione. Le manifestazioni organizzate da un certo punto in avanti sono state sicuramente un fenomeno d'élite, prive della partecipazione popolare, allegra e spontanea, dell'Invasione dei Marziani, però hanno avuto una maggior attenzione da parte dei media, e sono queste che, in fondo, hanno reso "mitica" l'Ambigua Utopia. 
Non posso onestamente sostenere che sotto la guida del nucleo originario la stagione di UAU sarebbe stata più lunga e feconda, a prescindere dalle tensioni che aveva percepito Antonio, e che ai miei ingenui occhi apparivano un normale confronto dialettico. Ho espresso, questo sì, la mia frustrazione per l'impossibilità di continuare a perseguire gli obiettivi iniziali, frustrazione che mi ha indotto poi a cercare altrove una tribuna per i miei esercizi intellettuali. Inutile fare paragoni, come giustamente osserva Caronia ora saremmo qui a rivangare le vicende della BdF anziché quelle di UAU...
In definitiva, se da quanto ho scritto la figura di Antonio Caronia dovesse apparire sotto una luce poco lusinghiera, sarà perché mi sono lasciato prendere la mano dal mio gusto per l'affabulazione (che egli ben conosce, e che a suo tempo trovava anche divertente), finendo forse per creare inconsciamente un "vilain", il don Rodrigo della situazione. 
La realtà (sempre che ne esista una) è che la leadership di Antonio era accettata da tutti perché non v'era dubbio alcuno che fosse il più colto, il più intelligente e il più lucido di tutto il gruppo, ma per queste stesse ragioni ognuno di noi si sentiva in qualche modo le ali tarpate. Chi più chi meno, avevamo tutti delle idee creative, ma poi finivamo per realizzare diligentemente le SUE, che sapeva rendere molto più articolate e definite. I motivi per cui si abbandona un gruppo saranno tanti e variegati, ma questo in particolare era piuttosto frequente nel nostro collettivo... 
Via, non voglio certo rappresentare Antonio Caronia come un despota: su questo punto era tutt'altro che insensibile, entro certi limiti cercava di lasciare agli altri degli spazi da gestire autonomamente, ma il problema era che prima o poi i limiti andavano stretti a qualcuno.
La figura che più gli si attagliava era piuttosto quella di un Fitzcarraldo: un uomo capace di pensare in grande, venutosi a trovare per accidente in un contesto inadatto (non proprio in mezzo agli indios, ma la metafora regge abbastanza) e tuttavia disposto a spianare le montagne pur di realizzare le proprie idee.
Bene, pur conscio che i miei limiti focali mi renderanno sempre impossibile fotografare la foresta nel suo insieme, mi auguro di aver raddrizzato qua e là qualche albero venuto storto :-)
Gli alberi di Fiorili
Antonio Caronia




Noto con piacere che la storia di Un’ambigua utopia suscita ancora, a più di vent’anni di distanza, qualche curiosità. Ho letto su Intercom l’ampia rievocazione che ne ha fatto Piero Fiorili: l’ho fatto con divertimento, e anche con un po’ di nostalgia, e mi sono ricordato delle varie occasioni (non tantissime, ma ricorrenti) in cui qualcuno mi ha chiesto – a volte anche quasi proposto – di scrivere qualcosa sull’argomento. L’unica volta che l’idea si è concretizzata è stato però nel 1999, quando la rivistaMIR – Men in Red (organo romano non ufficiale dei gruppi di "ufologi radicali") dopo aver citato UAU tra i suoi "progenitori", mi ha chiesto di scrivere qualche considerazione su quell’esperienza. Propongo adesso questo articolo anche ai lettori diIntercom perché credo che sia interessante avere anche un altro punto di vista, non necessariamente contrapposto a quello di Fiorili, né tanto meno teso a correggere le sue (peraltro pochissime) imprecisioni. È una rievocazione, la mia, che non regge il confronto, come vi renderete conto leggendola, con l’acribia mnemonica del suo pezzo, che a questo punto si pone come una pietra miliare della memorialistica relativa a un’esperienza che è stata citata (non da me, ma da Pablo Echaurren e Claudia Salaris) come un’esperienza significativa della deriva dell’estrema sinistra negli anni dopo il 77. Fiorili dimostra infatti di possedere una memoria molto più tenace e minuziosa della mia, che fa il pari con la sua curiosità analitica (mi sembra di ricordare che fra le sue letture preferite ci fosse Bouvard e Pécuchet di Flaubert). Ricorda addirittura meglio di me episodi ai quali non ha assistito ma che, come lui stesso afferma, gli hanno riferito, come un incontro di UAU con Leonardo Coen alla convention europea di Stresa nel 1980, che dalla mia memoria sono invece scomparsi: ma dal momento che il mio comportamento in quell’occasione, a suo dire, fu per lui motivo di conforto, non posso che rallegrarmene. Naturalmente Fiorili non cita episodi ai quali non ha partecipato, come il convegno di Piacenza del 1978 "La produzione mentale" (rievocato nel mio articolo), o ne dà una versione "ridotta", come quando degrada la mostra-convegno "Il gatto del Cheshire" del 1982 a "mostra di ologrammi", per quanto "prestigiosa e faraonica". Così a proposito di quest’ultimo evento dimentica di citare il nono (e autentico ultimo) numero della rivista, che fu appunto il catalogo di quella manifestazione: dimenticanza scusabile perché nel maggio dell’82, come lui stesso ricorda, egli era ormai del tutto fuori dalle nostre attività, e quel numero non venne praticamente distribuito se non nei giorni della mostra (se lo ricordo è solo per la gioia dei collezionisti, alcuni dei quali, nel corso degli anni, mi hanno chiesto informazioni sull’esatta numerazione della rivista). E non perdemmo affatto la rubrica su Linus perché Oreste Del Buono si dimise, anzi non la perdemmo affatto: solo che l’unico che scriveva, a un certo punto, era io, così smisi di firmarmi UAU e misi il mio nome. Ma queste, lo ripeto, sono inezie che non inficiano il valore memorialistico del suo scritto. L’unica imprecisione che mi appare più grave è quando riduce la "colonna genovese" al solo Claudio Asciuti, quando tutti sanno – e i lettori diIntercom forse meglio di altri – che il gruppo genovese di UAU si formò sulla convergenza del collettivo "Delle ombre" di Claudio Asciuti e dalla fanzine Crash di Domenico Gallo.
Tuttavia la ragione di fondo che mi spinge a intervenire è che, se Piero Fiorili ha tutto il diritto di farci conoscere la "sua" Ambigua utopia, il lettore ha un altrettanto legittimo diritto di avere un’interpretazione, o una ricostruzione razionale, insomma un "senso" delle cose: senza il quale non c’è storia, come Fiorili, uomo di vaste letture, ben sa, ma appunto solo memorialistica. È la questione degli alberi e della foresta, o la battaglia di Waterloo descritta da Fabrizio del Dongo. E l’unico "senso" che emerge dalla ricostruzione di Fiorili è la storia di un allegro collettivo che faceva attività forse modeste ma spontanee, divertenti, solidali e ben radicate nel mondo della fantascienza, sino all’arrivo di tale Caronia, personaggio "poco noto" ma "di vasta cultura", caratterizzato da un’irruente oratoria, da "visioni ambiziose" e da "fumoso intellettualismo" (che però, "sorprendentemente", insegnava matematica) e intendeva "abbandonare le tematiche proprie della sf e lanciarsi nel campo della cultura ‘alta’". La sua "razionalità [ma non era un fumoso intellettualista? N.d.A.C.] ebbe facilmente ragione dell’arruffato spontaneismo degli altri ‘ambigui’", e UAU andò incontro a un fallimento dopo l’altro (soprattutto economico). Fiorili non capì allora e quindi, per mantenersi fedele a se stesso, non capisce adesso. Non capì il merito (la sostanza della "svolta" del collettivo alla fine del 1978) e non capì il metodo (la mia funzione in quegli avvenimenti). Sul primo punto: non ci fu nessun "abbandono delle tematiche proprie della sf", tanto è vero che lo stesso Fiorili è costretto a correggere continuamente la sua errata interpretazione dei fatti con una serie di aggiustamenti ("ipotesi ad hoc", le chiamano gli epistemologi): "Caronia si riservò la ‘chiusa’ Utopia e Fantascienza nel tentativo di non perdere completamente di vista il target iniziale" [curioso, uno che vuole abbandonare i temi propri della fs e poi scrive un testo così!]; "Caronia ascoltò per una volta la voce di chi reclamava un urgente rientro nel mondo della sf vera propria", e così via. Il vero problema era quello di collegare mondi, non di abbandonarne uno. Certo che ce la prendevamo con l’idiozia, la ristrettezza mentale, e l’autocompiacersi del ghetto propri del fandom, ci sarebbe mancato altro. Come ce la prendevamo (e io in particolare, certo) con l’arrivismo e l’opportunismo di chi intendeva usare il collettivo per fare carriera nelle case editrici (questa è la sostanza delle mie "divergenze" con Silvano Barbesti, ché altre divergenze con lui era difficile averne). La svolta consisteva solo nel trattare la fantascienza con strumenti culturali, e non con infantili visioni "mi piace/non mi piace", e nel mantenerci collegati al dibattito politico della sinistra radicale (cosa che nella prima fase, nonostante l’origine "politica" del collettivo, non succedeva). Liberissimo Fiorili, come Bulgarelli o altri, di avere altri obiettivi, non di falsificare i nostri. Sulla seconda questione. Non ho alcuna intenzione di minimizzare, con falsa (e cretina) modestia, il mio ruolo: me lo impedirebbe, fra l’altro, la storia di questi successivi vent’anni. Però assicuro tutti che né la "vasta cultura", né l’"oratoria" né le "visioni ambiziose" avrebbero, da sole, prodotto quel piccolo terremoto interno. Le tensioni nel collettivo c’erano da prima che io entrassi, e io mi limitai a far leva su di esse per cercare di far evolvere la situazione nella direzione che sapesse sviluppare meglio le potenzialità del gruppo: cosa che, mi pare, accadde, se no staremmo qui a scrivere la storia dellaBottega del fantastico e non quella di UAU. Tra Giancarlo Bulgarelli e Giuliano Spagnul c’erano le scintille ben prima che arrivassi io. Forse Fiorili (che entrò in UAU prima di me) quelle tensioni non le vide, forse le interpretò diversamente. Ma questo rientra solo nelle naturali diversità dei caratteri, delle esperienze, degli strumenti di interpretazione del mondo, anche tra Fiorili e me (che siamo praticamente coetanei ma, come ognuno vede, non avremmo potuto avere storie più diverse: nel 1978 come oggi). Concentrare il fuoco su di me va benissimo, figuriamoci: ero quello che forniva la maggior parte delle idee e dei collegamenti fra i diversi campi di discorso, ma ero anche, per questioni caratteriali e di "esperienza", il front-man, quello più visibile all’esterno. Però Fiorili sottovaluta stranamente il ruolo di una persona che pure conosceva forse meglio di altre (non fosse che per ragioni topografiche), e cioè Spagnul, che fu un sostenitore della "svolta" anche più accanito di me: come Marco Abate, come Patrizia Brambilla, e Michelangelo Miani. E mi attribuisce un ruolo "immeritato" in altre scelte, a cui altri tenevano più di me: capisco che all’esterno potesse apparire diversamente, ma siccome qui Fiorili sfiora anche vicende della mia vita privata, devo precisare che per la scelta della cooperativa e della libreria fu Patrizia a spingere più di me, mentre fra le righe del suo scritto traspare la tesi che io l’abbia indotta a scelte poi rovinose per la sua vita personale (tra parentesi, la proprietà della libreria era delle cooperativa, e non personale della Brambilla). Per il resto, Fiorili conosce meglio di me le difficoltà economiche di fare cultura indipendente e autoprodotta in Italia. E sa bene che le persone abbandonano i collettivi per i motivi più diversi.
Ecco, naturalmente questo non è ancora storia (e forse non c’è alcuna esigenza di farla per un’esperienza così piccola come quella di UAU). Era solo un modo per segnalare che gli alberi visti da Fiorili non sono tutta la foresta.
Un’ambigua utopia
Giuliano Spagnul


Nella raccolta di saggi di Valerio Evangelisti "Alla periferia di Alphaville" (l’ancora del mediterraneo, 2000) per ben due volte viene menzionata la rivista di critica fantascientifica "Un'ambigua utopia", nata nel 1977 e cessata nel 1980 con soli 8 numeri all’attivo. Nella prima citazione si riconosce il debito della rivista diretta da Evangelisti "Carmilla" verso "quattro grandi, grandissime riviste: 'Gamma' di Valentino De Carlo, 'Robot' di Vittorio Curtoni, 'Un'ambigua utopia' del collettivo omonimo, 'Isaac Asimov SF Magazine’ di Daniele Brolli." (pag.29). Nella seconda, parlando di Robot, si cita la "rivista gemella 'Un'ambigua utopia' (ancora più radicale sotto il profilo politico)" (pag.126). Sono articoli rispettivamente usciti nel 1998 e 1999; cosi come l'articolo di Antonio Caronia sulla storia dell'ambigua utopia nel secondo numero della rivista MIR è dell'inverno 1998; mentre la "Vita d'ambiguo" di Piero Fiorili, rintracciabile nel sito www. intercom.publinet.it/2001/uau.htm è del 200I. Vent'anni dopo la sua breve esistenza, uno scrittore affermato come Evangelisti non solo se ne ricorda ma la riconosce addirittura come una delle quattro grandissime riviste di SF italiane, e ben due protagonisti della sua storia sentono la necessità di farne un bilancio. Non c'è due senza tre, si potrebbe dire, ma non mi sobbarcherei l'impresa di una terza versione della storia di U.A.U. se si trattasse solamente di correggere errori ed omissioni, ma quel che mi preme qui è piuttosto evidenziare un punto di vista "altro" che tenga particolarmente conto del contesto in cui l'ambigua utopia è nata.
Se l'articolo di Caronia, tendente ad equilibrare la cronistoria della rivista con una valutazione culturale che essa ha avuto in quegli anni, lo trovo sostanzialmente corretto ma inevitabilmente soggetto a lacune, l'epopea di un'ambigua utopia raccontata da Fiorili mi sembra al contrario estremamente puntigliosa ma proveniente da un mondo e un tempo affatto parallelo e alternativo al nostro.
La storia dell'ambigua utopia appartiene a un passato (la fine degli anni ‘70 con il cruciale 77 e il "suo" relativo movimento) che sembra assai più remoto del 168, in quanto privo delle celebrazioni rituali a cui questo fatidico anno è sottoposto. La riduzione a "anni di piombo" lo marginalizzano e lo schiacciano entro un periodo buio, astorico,
Tra l’inverno 1976 e il luglio 77 esplode un fenomeno senza precedenti: la nascita di 69 nuove testate con una tiratura complessiva di 300 mila copie di 288mila vendute, stampate in nove regioni diverse d'Italia, nelle metropoli ma anche in situazioni incredibili come Pero, Sesto San Giovanni, Brugherio, in provincia di Catanzaro, Ascoli Piceno, Ferrara, Rimini, Savona, Imperia. Sono "Zut", "A/traverso","Wow", "Bilot", giornale della Brianza, "Nel morbido blu", catanzarese, in una sorprendente omogeneità di linguaggio, a dimostrazione di rivoli e percorsi culturali comuni, a esprimere i contenuti delmovimento 77
(Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro. UE Feltrinelli 1997 pag. 590).
Sempre Primo Moroni insieme con Bruna Miorelli, in un altro libro più focalizzato sull'analisi della editoria alternativa (I fiori di Gutenberg, Arcana editrice 1979) ricorda che "Grande fortuna ha pure la science-fiction, che viene esaltata nei suoi aspetti politici, di rilancio, in un mondo pragmatico e di tante disillusioni, dell'utopia possibile allo stesso tempo temibile: l'Ambigua utopia si chiama proprio per questo, una rivista di critica marx/z/iana che sull'onda del successo è giunta a promuovere un convegno di tre giorni sulla fantascienza" (pag.52).
Un’ambigua utopia nata nel 1977 è parte integrante della storia politica/culturale di quegli anni. Quando agli inizi di quell'anno conobbi, per motivi di lavoro, Vittorio Curtoni (vendevo fotografie per conto di un'agenzia) ebbi l'idea di confidargli il mio sogno di fare una rivista militante, politicamente schierata, sulla fantascienza. Robot con le sue (inevitabilmente) prudenti aperture al discorso politico fu l'ispiratrice, Curtoni con il suo incoraggiamento e la segnalazione di un gruppetto di compagni di Sesto S. Giovanni, che facevano una trasmissione di fantascienza in una delle numerose radio libere di quegli anni (Radiomontevecchia) fu l'innesco che rese attuatile la realizzazione del sogno. Dalle prime riunioni con Giancarlo BulgarelliDanilo Marzorati, Gerardo FrizzatiMarco Abate e Michelangelo Miani, nacque il primo numero della rivista; 16 pagine ciclostilate in proprio nella sede di Avanguardia operaia di via Vetere.
U.A.U. non nasce per "avvicinare di più alla fantascienza i lettori occasionali" (l'obiettivo mancato di cui Fiorili sembra attribuire la colpa al dispoticointellettuale Caronia), ma come si legge, provocatoriamente nel primo editoriale "non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza, VOGLIAMO DISTRUGGERLA." U.A.U. è dentro il movimento di quegli anni e del movimento condivide, progetto, linguaggio e ovviamente destino.
Entrano nuovi compagni, Roberto Del Piano, Michela Panigada, Marco Dubini, Luci Pittan, Maurizio Giannoni, Piero Fiorili, e altri collaboratori più o meno occasionali. Si fanno iniziative, trasmissioni a radio alternative (soprattutto a Canale 96), l'intervento di contestazione al convegno di fantascienza italiana (SFIR) a Ferrara, un'assemblea aperta a tutti alla Fabbrica di comunicazione (la chiesa sconsacrata di S.Carpoforo a Brera). "Il fattaccio dello SFIR" non "attirò l’attenzione dell’area di sinistra" su di noi, come dice Fiorili, e non "cominciarono a corteggiarci": non era necessario perché noi eravamo dentro l’area di sinistra! Anche noi eravamo la sinistra ed era naturale che la libreria Centofiori o la Comune di via Festa del Perdono ci dessero le chiavi per le riunioni serali, che le radio ci facessero fare trasmissioni e passassero i nostri comunicati, che Primo Moroni (della libreria Calusca) ci pagasse le decine di copie della rivista pronto cassa e che i compagni del collettivo e altri esterni come, un esempio fra i tanti, Silvie Coyaud (che conobbi alcuni anni prima alle contestazioni dei convegni di psicanalisi di Armando Verdiglione) tirassero fuori di tasca loro mensilmente un'autotassazione per finanziare la rivista (tipografia, affitto per un periodo di un ufficio, un contributo per il lavoro del sottoscritto, ecc.). Dello SFIR a sinistra non si conosceva neanche l'esistenza e gli articoli che ci dedicarono giornali borghesi come Panorama e l’Espresso erano dovuti all’interesse/curiosità che era normalmente diretto a tutti i fenomeni del movimento eterogeneo e colorato del 77. La foto che corredava l'articolo di Panorama ritraeva il collettivo con alle spalle i poster del Che e di Lenin.
La preparazione nell'estate del ‘78 dei tre giorni di festa (invasione dei marziani con tanto di corteo mascherato e musicale) che si tiene al Centro Sociale La Fornace vede l'entrata nel collettivo di Antonio Caronia, Patrizia Brambilla, Enrico Miotto, Renato Aquilani. Caronia conduceva con Miotto una trasmissione di fantascienza (racconti sceneggiati radiofonici) a Radio Popolare. Come Silvie Coyaud e Marco Dubini (conosciuto in Avanguardia Operaia) anche Caronia (ex militante trotzkista) l'avevo conosciuto in precedenza. Così come avevo conosciuto Goffredo Fofi, anni prima, per la redazione di un libro Feltrinelli su Forze armate e democrazia. Insomma il crogiuolo di rapporti che l'Ambigua riusciva a tessere intorno a sé, dipendeva dalla fitta rete di relazioni, inscindibilmente umane e politiche, che costituivano la pratica quotidiana di ognuno di noi in quegli anni.
Non si reclutava nel mondo degli appassionati (il cosiddetto fandom); una particolare conoscenza fantascientifica non era determinante, la discriminante era politica. Ora proprio questo è uno dei punti cardine della storia di U.A.U. Quasi tutti quelli che entrarono nel collettivo, lo fecero per sfuggire all'"incubo di otto anni di militanza assorbente ed esclusiva" come racconta Caronia "per la sua esperienza personale, o per fare un’esperienza dalle chiare connotazioni politiche ma che non implicasse l'assoggettamento a quell'"atmosfera un po’ calvinista e vagamente integralista che dominava molti gruppi dell'estrema sinistra di allora" (sempre Caronia). Detto questo è incredibile come le analisi di Caronia e Fiorili si trovino sostanzialmente concordi nel rimarcare l'esistenza di due correnti interne al collettivo, una che privilegiava il mondo della fantascienza e l'altra che tendeva ad allargare verso un dibattito culturale e politico più generale. Divario che portò allo scontro e alla vittoria della seconda tesi. A seguito di questo, come racconta Fiorili, "il malcontento iniziò a serpeggiare, e non solo fra chi aveva votato (io per primo) contro una scelta così improvvida, ma anche fra quelli che, a bocce ferme, si rendevano conto dell’elitarismo insito nella svolta verso una cultura paludata, in stridente contraddizione con l'assunto iniziale di U.A.U.". Ora se si ha la pazienza di leggere tutte le otto fitte pagine della "Vita d'ambiguo" di Fiorili, risulta chiaro che, avendo vissuto (come lui stesso racconta) gli anni intorno al ‘68 "affacciato alla finestra con qualche curiosità e molto scetticismo" anche gli anni successivi sembrano essere visti da una finestra, ma che invece di dare verso l'esterno è rivolta verso un cortile angusto e ristretto. Non si spiegherebbe altrimenti come un centro sociale diventi "un'area dismessa chiamata La Fornace" o la libreria Centofiori un centro sociale, oppure ancora peggio descrivere il Centro Sociale Isola come un "edificio abbandonato che trovammo nel quartiere Isola e che divenne la nostra nuova sede. Ci portai una volta i miei figli, che ribattezzarono subito il luogo come ... un'ambigua topaia."
In quegli anni a Milano erano attivi qualcosa come 40 centri sociali e svolgevano un'attività politica e/o culturale vlvissima. Il Centro Sociale Isola con la sua fiorente attività, invisibile agli occhi di Fiorili, era la sede di produzione di tre gruppi teatrali, di sei gruppi di animazione, aveva rapporti col teatro internazionale (dall'Odin Theatre di Eugenio Barba agli spagnoli Els Commedians e tanti altri); si relazionava al territorio (il quartiere Isola) con parate, feste e lavoro politico sulle esigenze degli abitanti (ad esempio l'asilo autogestito) oltre ad avere naturalmente rapporti con gli altri centri sociali, le radio e le riviste più importanti di quel momento (come ad esempio "Scena"). Questo era il centro sociale che accettò di ospitarci fino al proprio "funerale", documentato proprio sulle pagine del n. 7 della rivista. Ora in una visione, o meglio in una cecità, politica cosi forte come quella di Fiorili è ovvio che l'esperienza, tutta, di Un'Ambigua Utopia venga banalizzata a una lotta tra due correnti contrapposte, che ridotta all'essenziale divide tra chi è per la fantascienza e chi no.
Ma come dicevo sopra, la cosa che mi ha lasciato più stupito è che anche l'analisi di Caronia possa dar adito a fraintendimento dello stesso genere. "Il collettivo un'Ambigua Utopia era nato nel 1977 (…) il gruppo si era formato attorno ad alcuni ex militanti (in genere di Avanguardia Operaia, in gran parte di Sesto S. Giovanni, Monza o della stessa Brianza), già lettori di fantascienza e anzi più o meno interni al fandom, al mondo degli appassionati. La rivista/fanzine era quindi concepita come uno strumento per sviluppare un'attività polemica e di rinnovamento sia negli ambienti del mondo della fantascienza che, più in generale, in quelli del mondo politico e culturale. Sul peso relativo di queste attività e sui fini del collettivo e della rivista sospetto ci fossero tensioni inespresse o comunque accenti differenti già fin dal sorgere del gruppo. Ecerto però che queste differenze si approfondirono nella fase successiva alla festa del settembre 1978, credo anche in relazione al mio ingresso nel collettivo." In realtà non c'erano membri "più o meno interni al fandom" e le lotte interne al collettivo, per tutto l’arco della sua esistenza sono state innumerevoli ma assai poco di un'ala fandom (a favore di un lavoro all’interno del mondo fantascientifico) e un'ala più "politica" tendente a "trasportare la fantascienza in una delle tante derive, se volete delle ideologie e delle pratiche tradizionali dell'estrema sinistra messe in crisi dall'ondata del movimento del ‘77" (Caronia). I dissidi e le lotte interne erano in U.A.U., come del resto in tutte le situazioni del movimento, dovute a nient'altro che a lotte di potere. Il capo chi lo fa? Il rifiuto del modello archetipico della struttura-partito, che aveva portato alla "crisi della militanza" non poteva certo di per sé risolvere il problema della leadership che si ripresentava rinnovato, se pur costantemente negato, in qualunque nuovo contesto aggregativo.
Bulgarelli (Democrazia Proletaria, sindacalista) più che "inclinare per la prudenza" era un mediatore ed esplicava il suo bisogno leaderistico tenendo in mano i rapporti esterni al gruppo, con altri compagni a livello nazionale e con il cosiddetto "mondo della fantascienza" (una sorta di stato estero con il quale ci piaceva sentirci in guerra permanente, un nemico facile facile, finalmente!).
Marco Dubini molto probabilmente pensava di trovare in U.A.U. una nicchia politica in cui poter dar sfogo al proprio bisogno di protagonismo (bisogno represso nei gruppi politici, se non canalizzato in una sorta di carrierismo di stampo militaresco). Lo scontro tra identici bisogni di protagonismo non poteva essere evitato e Marco Dubini (non una particolare linea) perse e lasciò il collettivo. Certo non era solo una lotta di potere tout court, dietro ogni conflitto c'era una visione diversa, ma non esisteva una contrapposizione dualistica.
Sandro Vaienti (un compagno bolognese) gravitò e si allontanò dalla sfera dell'Ambigua, prendendo le distanze dalla nostra "incapacità (sospetta) di scegliere definitivamente fra la sovversione autonoma e l'immagine rassicurante dell'intellettuale radicale ed arrabbiato all'ombra delle istituzioni (e delle maggioranze silenziose col fucile puntato – attenti! -)".
Si potrebbe continuare a lungo, disegnando una mappa circostanziata di tutti i partecipanti di quella storia con le loro relative dinamiche conflittuali. Quello che conta per me, invece è ribadire che quella storia, nel bene e nel male, rientra appieno nella cronaca degli avvenimenti di quegli anni e che non ha nulla a che spartire col "piccolo e asfittico mondo del fandom" (Caronia). Cosi come la fine di quella esperienza sta tutta inscritta nella storia di quel movimento nato nel 1960 con i "giovani dalle magliette a strisce" protagonisti degli scontri antifascisti di Genova e morto vent'anni dopo (se vogliamo, simbolicamente con il corteo dei quarantamila alla Fiat di Torino). La nostra microstoria non muore banalmente per una particolare dinamica di gruppo che sceglie il leader sbagliato o per aver preso una strada piuttosto che un’altra. Ultima fase evolutiva del collettivo fu la fondazione di una cooperativa con l'apertura di una libreria specializzata in fantascienza "La porta sull'immaginario". L'ultimo numero dell'Ambigua Utopia è del 1980 e l'espressione simbolica della sua morte sta per me tutta nell'immagine dell'invito che inaugurava la libreria, un'immagine di una porta implacabilmente nera. Anche la speranza di poter ancora solo immaginare, si fissa in un mostruoso compatto rettangolo nero dietro al quale già si intravedeva il lungo decennio degli "anni di merda" a seguire.
Alla fine non ho fatto una mia versione della storia di U.A.U. (e poco mi interessa farla) ma spero di aver contribuito, in questa mia memoria, a ricollocare questa piccola biografia collettiva in un suo più giusto ambito generale che ci ha riguardato tutti e che sarebbe fondamentale rivedere e rianalizzare ad uso delle nuove storie, che in questo volgere di millennio, vediamo nuovamente prendere piede un po’ ovunque dentro e fuori il nostro paese. Certo in forme molto.diverse ma alla fine frutto degli stessi bisogni.