giovedì 31 dicembre 2020

Antonio Caronia: Fantascienza come sistema




 Linus dicembre 1983

In un recente convegno (Teoria dei sistemi e razionalità sociale, Bologna, 21/22/23 ottobre 1983) si è parlato da molti punti di vista e con grande passione dello stato delle scienze sociali oggi, in relazione al nuovo paradigma della cosiddetta “teoria dei sistemi” introdotta in sociologia principalmente ad opera di Niklas Luhmann. Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ho ascoltato e letto, perché non sono né filosofo né sociologo, ma alcune cose mi sono sembrate interessanti. Il concetto di sistema, ha spiegato a un certo punto Luhmann nella sua introduzione è di tipo “autoreferenziale”, intanto perché la descrizione di un sistema è essa stessa un sistema, ma anche perché, in un senso più specifico, è il sistema stesso a produrre gli elementi di cui è costituito, in modo che la sua organizzazione in un dato momento è il risultato dei rapporti e delle relazioni fra i suoi elementi interni. E, come è naturale, lo stesso carattere di “aureferenzialità” è insito nella teoria dei sistemi: è proprio questo carattere, secondo Luhmann, che consente alla teoria di svilupparsi senza riferimenti a finalità esterne (e quindi senza infiltrazioni di un punto di vista “morale”). Il concetto di “sistema autopoietico” (cioè autoproducentesi, autocreantesi), Luhmann lo trae esplicitamente dalla biologia e dalla cibernetica: il sistema biologico, o, se volete, cibernetico, è quello che è capace di mantenersi stabile attraverso l’omeostasi, cioè un intercambio di materia, energia, informazione, fra interno ed esterno in grado di produrre nel sistema le modificazioni necessarie a garantire la sua sopravvivenza in relazione agli stimoli dell’ambiente. È stato a questo punto che mi è scattato un relai nella testa:: mi sono improvvisamente ricordato dove avevo letto per la prima volta quel curioso termine (omeostasi): era stato verso la metà degli anni Sessanta, in un racconto di Philip K. Dick. A quel punto ho smesso di ascoltare e mi sono messo a divagare. Potremmo dunque considerare la fantascienza di Dick come una antesignana delle più recenti teorie sociologiche: i suoi universi sono proprio dei “sistemi” nel senso di Luhmann, che si autoregolano, riproducono costantemente le condizioni della propria esistenza in modo del tutto immanente, dilatandosi fino a comprendere nel possibile (o nel pensabile) anche l’improbabile, come accade, per fare un esempio, in Ubik. Ma in realtà è tutta la fantascienza, nella sua qualità di elemento egemone, riassuntivo, dell’immaginario tecnologico contemporaneo, ad avere le caratteristiche del sistema cibernetico. La fantascienza “sociologica” degli anni Cinquanta si conferma in questo senso come il momento in cui questo genere letterario basso acquista una prima coscienza di sé, e comincia a diventare fenomeno culturale di massa, costituendo quel “polo fantastico” contrapposto a un “polo realistico” di cui ha parlato più volte Pagetti (rimando al suo intervento contenuto nel volume L’Einstein perduto, atti del convegno di Ferrara del 24/26 ottobre a cura di Alberto Poggi, Edizioni Coop, Charlie Chaplin, 1982, L. 6.000). La recente ristampa di un romanzo di Sheckley, anche se non dei migliori, permetterà di verificare questa tesi anche al lettore più distratto (Gli orrori di Omega, Classici FS, Mondadori, L. 3.000). Per citare sempre Luhmann, è nel momento in cui la teoria dei sistemi riconosce se stessa come soggetto e contemporaneamente come oggetto di indagine che nasce l’ironia: una strada che appunto la fantascienza sociologica – e il suo rappresentante più swiftiano, che è stato Sheckley – aveva già percorso nel rovesciamento della tradizione del romanzo utopistico. E non è forse un caso che uno degli autori di sf che, rimessosi a scrivere dopo anni di silenzio, riproponga la tematica della fantascienza come autoriferimento, come autocitazione, arrivi proprio dall’esperienza degli anni Cinquanta, e si chiami Frederik Pohl (v. il suo recente Alla fine dell’arcobaleno, Nord, L. 6.000).


mercoledì 30 dicembre 2020

Antonio Caronia: Esotiche letture

 


Linus luglio 1985

Amo l’India. Certamente un’India letteraria (quella reale non l’ho mai vista e non so se mai la vedrò), che ho incontrato da bambino nei romanzi prima di Salgari e poi di Kipling, e che deve essermi rimasta dentro a maturare. In anni più recenti mi continua a stupire, con un atteggiamento che so essere ingenuo ma da cui non mi libero, lo scarto fra la grandiosa mitologia induista (che mi hanno aiutato ad esplorare gli splendidi studi di Georges Dumézil) e la presente realtà, la miseria e la fame – che solo le condizioni ancora più tristi dell’Africa hanno cancellato dall’attenzione dei giornali – la tirannia del regime. Dopo aver letto i romanzi pazzi e vorticosi di Salman Rushdie, di cui ho parlato puntualmente su queste pagine, mi ero accostato con qualche diffidenza al voluminoso “Rj Quartet” (quartetto indiano) dell’inglese Paul Scott, di cui compare adesso, tradotto in italiano dall’instancabile Roberta Rambelli, il primo volume, La gemma della corona, The Jewel in the Crown, (Garzanti, pp. 568, L. 15.000), uscito nel 1966 in Inghilterra, dall’anno scorso è anche una miniserie televisiva (14 puntate) di buona fattura, premiatissima nell’isola e all’estero, che anche gli italiani potranno vedere prima o poi, quando una delle reti di Berlusconi deciderà di metterla in programma (visto che è già acquistata). In questo romanzo ponderoso e corale si parla degli avvenimenti dell’agosto 1942 (la sconfitta britannica in Birmania, i primi appelli di Gandhi alla disobbedienza civile) e di come essi furono vissuti nella città di Mayapore. Lo scollamento fra la comunità indiana e quella inglese viene visto rifratto nelle storie di alcuni personaggi, nella loro evoluzione e nei loro incontri obliqui e problematici, con la tecnica ben nota delle testimonianze e dei punti di vista diversi che si succedono man mano a illuminare (o complicare) il quadro. C’è la vecchia insegnante “libera” che si scontra con la realtà brutale dei disordini e della morte, la giovane infermiera bruttina che rimane vittima di una violenza nei giardini del Bibigha, il poliziotto inglese innamorato che ha già scelto come vittima il giovane indiano occidentalizzato che si rifiuta di parlare persino la sua lingua, la saggia e disincantata lady indiana testimone del cambiamenti. Certo Scott non è Rushdie, e neppure Durrell: però mostra di conoscere bene l’India, e per lenta sovrapposizione costruisce un quadro illuminante (anche se non sempre intrigante) dei rapporti fra due civiltà così diverse. Non senza qualche buona arguzia britannica, come questa definizione che degli inglesi dà la vecchia lady indiana: -Siete uno strano popolo. Quando camminate al sole, siete consapevoli della lunghezza o della brevità delle ombre che gettate sul suolo-. Il tema dello scontro fra due culture è anche al centro dei tre racconti di London che Sandro Roffeni ha raccolto e ci presenta col titolo di uno di essi, Il rosso, (Sugarco, pp. 142, L. 8.000). Sono tre storie ambientate nei mari del Sud, scritte da London nell’anno stesso della morte, il 1916. Quella che dà il titolo alla raccolta è il resoconto di una sfida e di una sconfitta: un bianco prostrato dalle malattie equatoriali tenta di penetrare il segreto della lontana divinità a cui gli indigeni di Guadalcanal (Isole Salomone) tributano efferati sacrifici. Mentre la tribù che lo ospita attende ansiosa il momento della sua morte, Bassett riesce a intuire l’origine extraterrestre dell’enorme uovo senziente, il Rosso, che gli indigeni considerano dio, ma non sopravviverà per portare la notizia in Patria. È la sconfitta della razionalità occidentale che non riesce a superare la prova di questa vera e propria discesa agli inferi costellata delle ossa dei sacrificati al Rosso. Di ossa parlano anche gli altri due racconti, ambientati invece nelle isole Hawaii, e indubbiamente più “solari”. Tuttavia anche nell’ultimo racconto, Tibie, che personalmente ho apprezzato di più, si narra di una discesa nella notte, nel passato rappresentato dal luogo segreto dove riposano le ossa degli antenati di un giovane principe hawaiano. La spedizione è descritta magistralmente, con un piede sul pedale dell’orrore e l’altro su quello dell’ironia, fornita dal contrasto fra il giovane principe ormai occidentalizzato e miscredente e il vecchio e tremebondo servo. Ormai alla fine della vita, London è in grado di trattare con inedita leggerezza uno dei suoi temi preferiti, lo scontro della civiltà con le forze della natura e della tradizione.


martedì 29 dicembre 2020

Antonio Caronia: Dopo l'uomo


 

Linus maggio 1983

“Era profondamente radicata in loro la percezione che nell’Universo niente esiste come Materia, ma che tutto è Energia. Che noi tutti siamo solo ombre della stessa Energia, che niente e nessuno possiede un’identità propria. Che non esistono cose; e che, in realtà, l’elemento caratterizzante l’Universo consiste nella sua inesistenza.” Troviamo questa sintetica esposizione divulgativa dell’ipotesi idealista, a mezza strada fra il vescovo Berkeley e le dottrine buddiste, in Tempo di mostri, fiume di dolore di James Kahn (Urania n. 934, pp. 264, L. 1800) che presenta l’ennesima versione del mondo “dopo la catastrofe”: ma con tale ricchezza di scenari, particolari e riferimenti, da farne un utile repertorio di temi e figure dell’immaginario fantascientifico di questi ultimi anni. Qui risiedono le ragioni dell’interesse del romanzo, più che nell’andamento narrativo, abbastanza tradizionale anche se fluido e a tratti serrato. Ecco lo scenario: nel 24° secolo l’avanzata dei ghiacci ha ristretto l’abitabilità della terra a ristrette fasce temperate, ma l’umanità arriva all’appuntamento falcidiata dalle precedenti guerre nucleari e biologiche. In una America frazionata in piccoli territori e comunità, i pochi umani convivono con una pletora di esseri da incubo, usciti dalla fantasia dell’uomo dei secoli precedenti: Vampiri, Centauri, animali pensanti e parlanti, fino agli esseri artificiali più sofisticati, i Neurumani, corpi sintetici costruiti attorno a un cervello umano, isolato e tenuto in vita con tutto il bulbo spinale. È evidente quanto uno scenario del genere debba a Ballard, a Delany, a Farmer: il confronto con l’ultimo romanzo di quest’ultimo, Il sole nero (di cui si è parlato su queste pagine qualche mese fa) (1) si impone anche per la somiglianza di due dei protagonisti, il centauro Beauty nel romanzo di Hahn, e l’essere vegetale Sloosh in quello di Farmer. Ma sono evidenti anche le differenze: mentre Farmer si limita a mettere in scena i suoi personaggi, i suoi esseri mitologici, lasciando nell’ombra la loro origine, e anzi insinuando nel finale il dubbio che quel mondo sia proprio il nostro mondo, Kahn si preoccupa di dipingere un quadro razionale, e di informarci che vampiri, centauri e altri esseri fantastici sono il prodotto di manipolazioni genetiche su larga scala. Quale che sia la loro origine, però, tutti questi abitatori della fantascienza più recente alludono, con le loro forme e lo spazio che si portano dietro, ad un mondo che, per essere fantastico, non è meno attuale: un mondo in cui il posto centrale non è più occupato dall’uomo e dai sistemi di relazioni, di psicologie, di motivazioni ad esso collegati, ma dagli esseri (o, a volte, solo dalle funzioni) artificiali di cui l’uomo stesso, negli ultimi decenni, ha già cominciato a circondarsi. È una società post-umana quella che la fantascienza più recente ci descrive: è quella che Ridley Scott, forzando forse il testo ma non l’insieme dell’opera di Dick, ha messo insieme così efficacemente in Blade Runner, una società in cui l’uomo non è scomparso, ma deve affrontare tutti i nuovi e sconvolgenti problemi che derivano dalla coabitazione con un insieme di forme di vita artificiali, prodotte da lui stesso eppure dotate di logica, sensibilità, comportamenti, aspettative, strategie a lui estranee. Nonostante la similarità degli argomenti e degli scenari, non è più della vecchia fantascienza catastrofista degli anni 50 e 60 che si tratta, ora, ma del riconoscimento (con tutta la paura e l’angoscia che questo ancora comporta) che l’uomo, anche prima del fatidico incontro con gli esseri provenienti da altri mondi, non è più solo, già oggi, su questa terra; che bisogna scoprire poco a poco, o inventarsi tutto d’un colpo, un nuovo modo di convivere con i prodotti della nostra creatività.

(1)   Meglio morti che immortali, in Linus novembre 1982 QUI


lunedì 28 dicembre 2020

Antonio Caronia: Confessioni di un mangiatore di carta stampata


 Linus dicembre 1980

-Ah-, dice, -voi siete quelli che scrivono su Linus-, -Eh, sì-, rispondiamo noi, e poi ci vergogniamo un po’ e nervosamente cerchiamo di parlare d’altro, perché ci sembra che la domanda successiva debba essere: -Ma che ci scrivete a fare?- (come, un po’ di anni fa, davanti alle fabbriche, ci chiedevano: -Ma chi vi paga?-). Che sia una crisi di identità con tutti i crismi, o un semplice momento di astenia autunnale, ci stiamo chiedendo da un po’ (ed è per questo che temiamo che gli altri ce lo chiedano) che cosa voglia dire questa nostra rubrichetta di segnalazioni, polemiche e varia umanità: anche perché –va detto- ci pesa la maniera poco educata con cui l’abbiamo iniziata, alcuni mesi fa, così, subito nel merito senza neppure presentarci brevemente. E non opponeteci che nelle nostre angosce scribacchino-esistenziali a voi lettori manovratori-manovrati di-da quella macchina dal bizzarro funzionamento che è il mercato, poco importa. Perché è dalla risoluzione, o meno, di queste angosce che dipende il fatto che noi scriviamo cose frizzanti e intelligenti, oppure delle vaccate. E quindi, fedeli ad una concezione tardo-democratica del rapporto scrittura/fruizione, di queste angosce facciamo partecipi anche voi, che se in fondo siete tutti diventati dei “lectores in fabula” è anche colpa vostra. Non cercate neanche di prenderci in castagna ricordandoci, con aria di sufficienza, che nella società dei simulacri il senso implode, che la distanza tra reale e immaginario è abolita, e quindi che senso ha chiedersi che senso c’è. Eh: Baudrillard, Lyotard, Perniola e Vattimo li leggiamo anche noi: e tutte quelle cose lì le abbiamo anche già dette e scritte, quando il problema era di fare bella figura. Ma guardate che anche fare gli alfieri del non senso mica è facile: non basta dire: -Ah dimenticavamo: il senso è imploso, e tutto denota tutto e perciò non connota più niente-. Forse è un passo importante, però magari l’hanno già fatto i Wutki più di dieci anni fa su un giornalino che si chiamava come questo. Certo, si può fare come quelli di Frigidaire, che dicono: -Non chiedetevi che rapporto c’è fra tutto quello che trovate qui dentro, perché tanto anche la vita è incasinata, e questa rivista, che non è niente di meno, anche-. Sfido: quelli si chiamano Pazienza, Scozzari, e così via, e possono anche far finta di essere la vita. Ma qui è un’altra cosa. Ricapitoliamo. Quando l’O.d.B. ci ha chiesto di tenere questa rubrichetta per parlare della fantascienza, segnalare i libri, fare le nostre polemiche (con moderazione), noi, collettivo/cooperativa/redazione di rivista/adesso anche libreria, agenzia fotografica e tutto quello che siamo, abbiamo accettato con entusiasmo, perché eravamo convinti che questo discorso sulla fantascienza fosse sottovalutato, preso sottogamba un po’ da tutti. Ci siamo detti: -Bene, ecco un’altra occasione per cercare di capire meglio questo rapporto tra fantascienza e realtà, per capire quanto nella nostra vita è diventato fantascienza (o quanto la fantascienza è diventata la nostra vita)-. Perché a noi il problema sembrava questo, e ci esaltavamo ancora, trovavamo la forza di meravigliarci nel vedere quanta parte dell’immaginario, del repertorio di immagini tecnologiche/sociologiche/antropologiche/alienontologiche della fantascienza si stesse trasferendo nella nostra vita quotidiana. Ecco: poi, forse, dietro alle novità librarie, alle polemiche con quelli che della fantascienza hanno ancora un’immagine e una pratica che a noi pare vecchia, quel discorso non siamo riusciti a farlo. O non siamo riusciti a farlo molto chiaro: forse anche perché i primi a non averlo chiaro eravamo noi. Però l’intenzione era questa, e se non ve l’avessimo detto, forse non si sarebbe capito perché adesso vi parliamo di un piccolo convegno a cui siamo stati e che, un poco, ha contribuito a renderci meno confuse le idee.

https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2019/10/antonio-caronia-fra-codice-e-codice.html

domenica 27 dicembre 2020

Antonio Caronia: Euro Cannes

 


Linus giugno 1980

Come vi abbiamo accennato due volte fa, ai primi di maggio c’è stato il quinto convegno europeo di fantascienza (Eurocon, in gergo: le associazioni evocate da una lettura in francese di questa sigla non sono affatto, ovviamente, imputabili agli organizzatori) svoltosi nella cornice del deplorevole e deprimente palazzo dei congressi di Stresa. Cornice per altro abbastanza in sintonia con il programma e lo svolgimento ufficiale del convegno stesso, su cui spenderemo adesso qualche riga. I lettori considerino, per favore, che il nostro è un punto di vista di un collettivo abbastanza anomalo nel panorama della fantascienza italiana: abbiamo i nostri “autori preferiti”, ma non sbaviamo vedendoli di persiona (alcuni incontri, con Bester e Brunner, per esempio, ci hanno confermato nella convinzione che in genere è meglio evitare di far parlare gli autori di sé stessi); ci sforziamo di avere delle idee su come si potrebbe fare una buona politica editoriale nella fantascienza, ma non abbiamo interessi editoriali da difendere; e via di questo passo. Per questo, inevitabilmente, non ci piacciono quasi mai le stesse cose che piacciono agli altri appassionati, detti, con stucchevole barbarologismo, Fans (mentre l’insieme di cui essi fanno parte viene detto Fandom). Siamo perciò convinti che a molti di costoro l?Eurocon sia andato bene così com’era. A noi no, e cercherò di spiegare il perché. C’era innanzitutto la questione del premio: l’idea del premio non ci entusiasma in genere, in nessun campo e in nessun settore: ma questi premi, assegnati all’Eurocon passavano proprio la misura. Non si scopre l’America dicendo che dietro ai premi ci sono interessi editoriali precisi, anche se gli editori interessati all’Eurocon smentiscono inorriditi (ma allora il loro accanimento nel disputarseli andrebbe spiegato con improbabili sindromi demenziali, nelle quali non crediamo). Per il premio Italia, dal risultato e dalla distribuzione dei voti, pare di capire a noi, dall’esterno, che esso sia stato il risultato di un accordo tra l’Editrice Nord, di Gianfranco Viviani (il quale in qualità di coordinatore dell’Eurocon, ne ha avuto il principale onore e onere), e l’editore Fanucci, e in genere l’area di destra: alla Nord il premio per il miglior romanzo e la migliore collana, alla destra quelli per la migliore fanzine e il miglior saggio. Noi, che siamo in fondo un collettivo educato, non avremmo preteso però di dire proprio queste cose dalla tribuna del premio: ci saremmo limitati a leggere una dichiarazione molto più generica sull’imbecillità dei premi, se la presidenza, nella persona del suddetto Viviani e (spiace dirlo) di John Brunner, non avesse deciso per noi, togliendoci bruscamente la parola. Pazienza, sarà per un’altra volta: l’imbecillità è un tema che non tramonta mai… Poi c’è la questione dei soldi_ per accedere all’Eurocon occorrevano la bellezza di 25.000 lire (18.000 se si era prenotato in anticipo): e in cambio si aveva una mostra di libri stranieri (non in vendita), alcuni stand di librerie di editori (4 in tutto) e una rassegna di film su cui non diciamo nulla perché non ci piace infierire. L’attento osservatore avrebbe poi notato che il manifesto ufficiale dell’Eurocon non era altro che la copertina del catalogo dell’Editrice Nord. Non conosciamo il bilancio di questa società, ma abbiamo l’impressione che il capitolo “campagne promozionali” non riguardi tutte quelle effettivamente messe in atto. E veniamo al difetto più grosso: il 5° Eurocon, come in genere tutte le manifestazioni di questo tipo, è servito agli editori e ai professionisti (quelli che ci sono venuti) per farsi pubblicità, scambiarsi idee, prendere accordi; agli appassionati “organizzati” in rivistine, circoli, etc., per rivedersi, fare nuove conoscenze (e in questo senso, certo, è servito anche a noi), appagare il proprio feticismo. Non è servito ai lettori “normali”, e per fortuna ce n’erano pochi. Nella sala del congresso gli interventi si susseguivano, preparati da mesi, nella solita passerella, senza alcuna comunicazione gli uni con gli altri. Quei pochi spazi di discussione che ci sono stati li abbiamo organizzati noi, a lato e nell’indifferenza del convegno ufficiale. Da quelle riunioni è uscita l’idea, che ci siamo incaricati di rendere pubblica: quella di un incontro tra appassionati e lettori di fantascienza organizzato in modo diverso: poche relazioni preparate (due, tre), tanto spazio per la discussione, anche per chi ha da dire poche cose e non se le scrive in anticipo: il tutto in uno spazio, possibilmente, più adatto di Stresa alla moltiplicazione degli incontri e delle discussioni. Noi ci ritorneremo sulle pagine di Un’Ambigua Utopia: voi, comunque, fateci sapere che cosa ne pensate.


venerdì 4 dicembre 2020

Dal cyborg al postumano di Antonio Caronia. Recensione di Giuliano Spagnul

 


Molto acutamente Alberto Abruzzese, nella prefazione al libro “Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale” per le edizioni Meltemi, (1) nel declinare le tre fasi di “approfondimento e raffinamento della (…) particolare prospettiva politico-culturale” di Antonio Caronia, assieme all’insegnamento nella scuola e alle lezioni in contesti accademici, pone la sua laurea in matematica “che gli ha conferito una specifica competenza nel trattare testi e processi solitamente in mano a altre discipline.” È una doverosa sottolineatura, ancor più perché si tende facilmente a dimenticarsene. Certo, che ci fosse una competenza di stampo scientifico e un forte interesse a coniugare l’immaginario con la scienza era più che evidente in lui; anche se difettava di quel cipiglio un po’ arido e freddo che si vorrebbe caratteristica degli uomini di scienza e, in particolare, di quelli dediti alla matematica, scienza tra le più pure. Ma in realtà, forse, era proprio questa la matrice che gli permetteva di spingersi più oltre di tanti altri, nel cogliere il peso determinante che le astrazioni del fervido immaginario umano (quella capacità di costruire mondi virtuali in cui sperimentare i sogni più arditi) hanno sulla vita reale e concreta di tutti noi. E ancora Abruzzese nota, giustamente, nel desiderio di Caronia, celato nell’invito a dimenticare il Novecento (secolo delle rivoluzioni fallite), la speranza di una nuova via di liberazione dal potere “finalmente possibile a ragione della scomparsa del corpo umano dentro un corpo che non soffrisse più degli inganni della natura spietatamente antropocentrica e della violenza della forza sovrana che ne ha fatto irreversibile strumento di dominio.” È il tema del postumano, da sempre centrale per Caronia e che proprio lui tradisce negli ultimi mesi di vita preferendo dedicarsi a un seminario su “arte e follia” a Macao, invece che alla stesura di un articolo richiestogli per il numero di Aut Aut dedicato proprio al postumano. Di quell’articolo non sono rimaste tracce, nessuna nota o appunto, solo un’entusiasta mail agli amici per condividere la gioia di questa inaspettata richiesta. È vero quel desiderio, a cui accenna Abruzzese, desiderio più che umano di andare oltre l’umano ma è vero che proprio Caronia poteva vantare di averne lucida coscienza, accompagnata da un’altrettanta lucida autocritica . (2) Cos’altro avrebbe potuto dire, in quel momento, sul postumano che non avesse già ribadito con forza più volte, e cioè che non di un superamento del corpo (in una sorta di divenire angelico) si tratta, ma del finire delle condizioni di un determinato sapere (episteme) e di “una nuova nascente episteme”. È questo che sta a significare  per Antonio Caronia la parola postumano. Una nuova parola per una vecchia storia che sempre, a più riprese, si è presentata lungo l’arco della storia evolutiva della nostra specie: la trasformazione dei dispositivi di formazione di un nuovo sé, quei dispositivi che nell’epoca appena trascorsa hanno costruito quell’”Io” del soggetto moderno e che in questa nuova epoca, modificati, ne stanno costruendo uno affatto nuovo. Cos’altro avrebbe potuto aggiungere in un volume dedicato al postumano se non uno scontro/incontro con il proprio corpo, carnale, artificiale, immaginato che sia: e questo ha fatto optando per il silenzio delle parole scritte a favore di quelle orali, vis-à-vis, con altri umani, altri corpi, come il suo soggetti ad ammalarsi e a perire, non prima però di aver espresso tutta la loro voglia del vivere e di gioire. È giusto quindi che questa antologia di scritti inizi con un testo non scritto, una lezione all’Accademia di Brera nella tarda primavera del 2010. Per chi considera la biopolitica foucaultiana come un teorema superato dall’evoluzione odierna degli strumenti tecnologici e della loro capacità di operare, o meno, sulla viva carne degli individui, questa lezione sulla nascita della biopolitica, coestensiva a quella dell’uomo artificiale (robot, androide, cyborg che sia) chiarisce in modo esemplare l’essenza di questo concetto, così spesso frainteso nonché abusato. La biopolitica è il punto di snodo in cui la storia umana concepisce l’idea della “modificabilità della natura” da parte dell’uomo e questo nuovo sapere determina un potere che necessariamente deve servirsi di nuovi dispositivi capaci di modificare la natura dell’essere umano stesso. All’artificialità della natura corrisponderà, d’ora in poi, l’artificializzazione dell’umano: “non ci sono più uomini naturali una volta che è comparso l’artificio all’orizzonte della specie umana.” E al potere non basterà più esercitare la pura sovranità o un regime disciplinare (di addestramento all’obbedienza), occorrerà, per perpetuarsi, fare quel salto enorme di rendere governabile la vita in tutte le sue forme, da quella individuale, a quella sociale, a quella immaginale, a quella biologica fino ai suoi recessi più profondi e intimi: “la biopolitica vuol dire che è stato reso governabile l’ingovernabile.” Antonio Caronia ha capito che, in realtà, Foucault non ha fatto altro che parlarci di biopolitica  (nonostante che questo termine compaia solo alla fine del corso del ’76) (3) anche quando si è messo minuziosamente a raccontarci la storia della sessualità o i processi di soggettivazione della Grecia antica come del primo cristianesimo. Tutto il suo lavoro tende verso quell’”irruzione della naturalità della specie umana all’interno dell’ambiente artificiale” (4) che Caronia si spinge a completare modificandolo in una forma più consona all’oggi: “l’irruzione della naturalità della specie umana all’interno dell’ambiente artificiale determina l’artificialità della stessa natura umana, la trasformazione artificiale della stessa natura umana.” Schematizzando, credo che Antonio Caronia abbia voluto, tramite Foucault, dirci che la natura dell’uomo consiste nella sua progressiva artificializzazione e che per biopolitica si deve intendere quella possibilità di rendere questo processo governabile, nel suo divenire sempre più, di fatto, ingovernabile. La questione non è quindi la comparsa di qualcosa di nuovo che chiameremo biopolitica, come se non fosse mai esistita una politica che in un qualche modo abbia cercato di governare la nostra vita, ma piuttosto della sua inedita e inaudita potenza che oggi ha assunto grazie al nuovo sapere-potere che le ha conferito la fusione tra scienza e tecnica, con progressione esponenziale in questa fine e inizio di nuovo millennio. Questo libro, curato sapientemente da Loretta Borrelli e Fabio Malagnini, suddiviso in tre parti, sostanzialmente riguardanti il cyborg, la fantascienza e il postumano, in realtà ci accompagna in un percorso che oltre a volerci far “dimenticare il Novecento” vuole anche farci uscire dalle secche di quel linguaggio a lui ancora strettamente legato. Né il cyborg, né il postumano, né la fantascienza tutta (di basso o alto livello che sia) possono pensare di essere traghettati nel nuovo secolo/millennio senza essere depurati da quelle croste di residui utopici o prometeici peculiari di un tempo irrimediabilmente finito. “La fantascienza (non si può non essere d’accordo con Ballard) è stata l’immaginario portante del XX secolo (…) la fantascienza sarà ancora l’immaginario portante del nuovo secolo? La risposta è più probabilmente no che sì. La fantascienza cadrà vittima (forse è già caduta vittima) di quel processo che ha saputo così bene illustrare, e nei casi migliori interpretare, quello della caduta del cielo dell’immaginario sulla terra del reale.” (5) Quando la fantascienza si cala nella realtà fino ad annullare, di fatto, quella distanza indispensabile, “quel minimo scarto fra progettualità e realizzazione” si rende impossibile l’esistere di quella zona franca in cui poter immaginare i possibili potenziali, tutto rimane schiacciato entro i confini di quel contingente sempre più dato come unico possibile. La parola fantascienza deve quindi, per noi del nuovo millennio, dirci qualcosa di scandalosamente nuovo. Qualcosa che “non ha più niente a che vedere con il futuro della modernità, che era una proiezione del presente del soggetto, un luogo da costruire con pazienza, sagacia e tenacia, nei tempi lunghi del lavoro e della progettualità” ma, invece, con un futuro che assomiglia “piuttosto a uno spasmo del presente, a un’anticipazione frenetica di processi che non si distendono più dal passato al presente e oltre, ma vivono sin dall’inizio perennemente proiettati in avanti.” (6) E allora la fantascienza oggi deve essere una parola nuova che come quella che dice cyborg o postumano deve definire un concetto piuttosto che un’essenza. E questi concetti, questi modi nuovi di pensare e di pensarci, maturano in una fase storica di violenta accelerazione tecnologica in cui è, e sarà, sempre più necessario fare i conti non con ciò che è dato, certo, a cui si può fare affidamento, ma a ciò che è mutevole, incerto, non definito. Perché una realtà che non può più contare su un futuro da immaginare, programmare e realizzare rende obsoleti quei confini tra dato e immaginato che vivevano ancora entro  quella forzatura ossimorica che stava alla base della parola fantascienza. Alla fine questa ottima scelta antologica, io credo, ci ponga di fronte a quello che è il nodo centrale per riuscire a sopravvivere all’utopia capitalista (unica uscita vincente dal secolo appena trascorso), quello di considerare  il tempo in cui stiamo vivendo in sostanziale continuità o discontinuità con quello passato. Cioè se il futuro è realmente scomparso, se la cultura non può più essere considerata elemento estraneo alla natura, se lo spazio del virtuale non è più uno spazio immaginato ma è esperito e vissuto nella nostra quotidianità in quanto ne facciamo ormai completamente parte e i tanti altri se che Caronia pone ci costringono a una presa di posizione, che per quanto riguarda lui non può che essere che quella di assumersi la responsabilità di divenire postumani e quindi in sostanziale discontinuità con ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Una nuova difficile, ancorché inquietante e insieme esaltante, costruzione di un nuovo ibrido, ennesima variante di una (come Caronia amava descrivere la nostra storia di specie) tra le più sofisticate sperimentazioni della natura. Non è detto che debba andare per forza bene, e l’avveramento dei più arditi sogni del capitalismo non possono non prefigurare l’esito infausto di quest’avventura. Per farcela non avremo bisogno di nuove utopie ma di una storia fatta di parole nuove che ci permettano di costruire “tattiche di resistenza, nella forma di ‘slittamenti temporali’, quelle fughe nel futuro e nel passato di cui ci parlava Philip K. Dick. (…) Per non farci trovare mai lì dove si pensa che dovremmo essere per fare la nostra parte di agenti valorizzatori, di colonizzatori del tempo per conto terzi”. (7) E poi? E poi è una domanda che appartiene a una storia finita, chiusa. A noi serve una storia aperta dal finale non scontato, perché noi, nonostante i sogni del capitale che ci vorrebbe tutti morti, siamo ancora vivi.  

Nota 1: Antonio Caronia, Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale, a cura di Loretta borrelli e Fabio Malagnini, Culture Radicali, Meltemi editore, 2020.

Nota 2: Nel ricordo per Enrico Livraghi: “E capivo che lui mi etichettava spietatamente ma con una certa tolleranza tra gli ‘antropologhi ottimisti del cyberspazio’ (…) e riluttavo allora, mentre capii poi che nell’essenziale aveva ragione.” http://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2015/06/antonio-caronia-per-enrico-livraghi-da.html

Nota 3: Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli 1998

Nota 4: M. Foucault, Sicurezza Territorio popolazione, Feltrinelli 2005

Nota 5: A. Caronia,  L’insostenibile naturalità della tecnica, 1999

Nota 6: A. Caronia,  Digital Time,  2008

Nota 7: idem

Pubblicato su La Bottega del Barbieri Qui  (18 agosto 2020)

altre recensioni:

Luca Giudici in Quaderni D'Altri Tempi Qui  (30 ottobre 2020)

Francesco Monico in Che Fare Qui (4 novembre 2020)


domenica 1 novembre 2020

Antonio Caronia: Meglio morti che immortali?

 


Linus novembre 1982

Esce presso l’editore Guanda, che lo presenta in modo francamente eccessivo come “il più bel libro di fantascienza del XX secolo”, il racconto Cancroregina di Tommaso Landolfi (nella bella ma ahimè costosa collana di “Prosa contemporanea”). Landolfi pur essendo uno scrittore irriducibile a scuole e correnti precise, fa parte di quella non grande schiera di esponenti della nostra letteratura che ha attinto spesso a materiali e figure fantascientifiche per la sua produzione, e della quale il più noto (se non l’unico) al grande pubblico è Italo Calvino. Alla fantascienza Landolfi ha sempre chiesto scenari e situazioni (c’è chi dice “pretesti”, ma per quale scrittori i suoi materiali non lo sono?) Per un suo discorso amaro e radicale sul destino dell’uomo, un discorso sempre a mezza strada fra il racconto filosofico e la confessione personale: questo avviene in alcuni dei Racconti impossibili, e in molti dei “dialoghi cosmici” pubblicati dal Corriere della Sera fra il 1975 e il 1976, pochi anni prima della sua morte. Questo avviene anche in Cancroregina, pubblicato per la prima volta nel 1950: qui la solitudine dell’autore in un congegno spaziale (descritto sommariamente e imprecisamente) destinato per un misterioso guasto ad orbitare per sempre intorno alla terra e dotato di una voce e di una intenzionalità proprie – la “Cancroregina” del titolo – diventa l’occasione per una confessione, che a tratti si fa disperata, della propria impotenza a vivere e a comunicare, a districarsi dalla confusione e dal pasticcio tra letteratura e vita. “E pensare che tutto quanto occorre a menarmi in salvo è qui, qui dentro e a portata di mano; ma è come se non ci fosse, non so trarne profitto”. Il mondo chiuso e isolato della navicella spaziale diventa l’impossibilità dell’autore a uscire da se stesso: l’ dentro egli, condannato a una specie di immortalità, aspetta “il coraggio di morire. Queste riflessioni sulla morte e l’immortalità vengono a Landolfi dal romanticismo tedeco e da Poe, che è citato all’inizio di Cancroregina. Ma è curioso osservare che il tema dell’immortalità è ricorrente nella fantascienza americana, dagli anni “d’oro” (Van Vogt in testa) giù giù fino ai nostri giorni. Lo dimostrano anche alcuni titoli apparsi di recente nelle collane specializzate: non tanto il mediocre Gli immortali di James Gunn, titolo giustamente dimenticato degli anni ’60, quanto l’ultima produzione di Philip J. Farmer tradotta in italiano, Il sole nero, del 1979. Con i ritmi serrati del romanzo d’avventura che solo lui sa condire con una sintassi tanto più avvincente quanto più sembra approssimativa e scheletrica. Farmer passa da una prima parte in cui prevalgono gli scenari della fantascienza “antropologica” (una Terra per noi vecchissima, il sole estinto e le galassie incenerite che con i loro passaggi periodici scandiscono il tempo delle tribù isolate e chiuse nelle loro culture sciamaniche) ad una seconda parte in cui emerge prepotente il senso del tempo cosmico, la rovina planetaria e l’unico modo per sfuggirvi è e raggiungere così una “quasi mortalità”: il passaggio attraverso le porte che separano i diversi piani spazio-temporali, i personaggi umani qui, a differenza del ciclo dei Fabbricanti di universi, sono più scialbi delle stupende invenzioni teratologiche di Sloosh, l’enorme centauro vegetale, esponente di una linea evolutiva post-umana, che delle piante ha tutta la lentezza biologica unita ad una enorme massa di conoscenze organizzate in una logica rigorosissima, e della Shemibob, la gigantesca donna-serpente proveniente da un’altra galassia, padrona di una meravigliosa e sconosciuta tecnologia, che condurrà i protagonisti oltre la porta, in una Terra parallela, per sfuggire al destino di estinzione di questa Terra. Chiuso il libro, naturalmente, non sappiamo se la Terra che noi conosciamo è quella che i nostri eroi abbandonano, ormai al termine del suo ciclo, o quella a cui approdano, all’inizio di quella che potrebbe essere la nostra evoluzione umana. Ma questa non è che una variante della concezione ciclica del tempo di Farmer, condannato egli stesso a riscrivere lo stesso libro in decine di forme diverse, alla ricerca di un senso segreto della vita che egli per primo sa non esistere. Una lettura che comunque si raccomanda, quella di questo Il sole nero, in attesa di poter leggere o rileggere il capolavoro del “tempo ciclico” farmeriano, quel Mondo del fiume di cui l’editrice Nord annuncia la riedizione integrale, in cofanetto, per il prossimo anno.


domenica 11 ottobre 2020

Un'Ambigua Utopia n. 10 - SOMMARIO





 INDICE

Il culto di un'era (editoriale) 

 “…possiamo cimentarci in rotte oblique, ucronie necessarie, posture non assertive per esprimere la fine dell’uomo per come lo abbiamo conosciuto.”


Premessa  di Giuliano Spagnul

(a Giancarlo Bulgarelli)

"... questa vecchia esperienza ha raggruppato intorno a sé giovani compagne e compagni che hanno già prodotto un prezioso lavoro di digitalizzazione (pubblico) di tutti i numeri della rivista, oltre una serie di iniziative per Primo moroni e Antonio Caronia alla Fondazione Mudima e una programmazione di incontri sulla Fine dell'Uomo al centro sociale Piano Terra. Da vecchio superstite, non pentito ma neanche nostalgico di quei 'formidabili anni', insieme alla mia compagna Marisa Bello li guardiamo e li aiutiamo per quel che le nostre  piccole forze rimanenti ci permettono."


7 DOMANDE SULLA FINE DELL'UOMO 

 "...Ancora invischiati in una palude che, a tratti, ci appare come definitiva, rischiamo di non riuscire a liberare ciò che di fecondo è dentro ad ogni crisi: la capacità/necessità di mutare, di divenire altro da ciò che si è, da quel sempre uguale che è la mortifera pulsione al non cambiamento che impedisce alla vita di vivere."

Roberto Paura
"...Tra le nuove utopie emerse negli ultimi anni penso per esempio all'accelerazionismo, alla panarchia, allo stesso transumanesimo. Alcune di queste idee influenzeranno (se non lo stanno già facendo) l'azione sociale e politica."


Domenico Gallo
"Come si fa a fermare il tempo del lavoro? I nostri nonni e bisnonni distruggevano gli impianti, usavano il sabotaggio, chiavi inglesi negli ingranaggi e corto circuiti, ma la geografia dei luoghi produttivi era diversa, oggi si è globalizzata spezzando i confini nazionali e gli impianti e gli attrezzi, come nel medioevo, sono spesso di proprietà dei lavoratori (cellulari, scooter, applicazioni web). Dunque deve avviarsi una ricerca collettiva di nuove forme di sabotaggio globale, rispondendo al postfordismo della produzione de localizzata e temporanea con un postfordismo delle lotte. Lotte per la riappropriazione del tempo."


Salvo Torre
"...Bisognerebbe dunque sottolineare più spesso che la natura non esiste, è una categoria astratta costruita per facilitare la nostra appropriazione del mondo. Non esiste quel luogo mitico esterno alla città, fuori dalle leggi, in cui un ambiente selvaggio e ostile va riordinato secondo i principi della razionalità occidentale; soprattutto le regole di funzionamento dei sistemi viventi non sono quelle descritte dalla tradizione europea, basate sulla violenza, sopraffazione e forza fisica individuale, ma seguono un principio di cooperazione che privilegia le comunità non gli individui." 


Emanuele Leonardi
“…l’avvento dell’Antropocene – l’epoca cioè in cui l’apparente trionfo dell’eccezionalismo umano (“siamo forza geologica!”) convive con la massima fragilità dal punto di vista della sopravvivenza della specie homo sapiens sapiens…” 

Maura Benegiamo
"...Le tecno-scienze forniscono la grammatica stessa del progetto di governance neoliberista ed aprono al capitalismo la strada verso uno sfruttamento allargato delle forme di vita e dei processi biologici. Ciò però avviene al netto di un mutamento delle forme di rappresentazione dell’umano che implica il superamento progressivo della distinzione tra natura e cultura, naturale e artificiale, materiale ed immateriale (o linguistico)."



Alice Dal Gobbo
"...L’utopia come tensione all’altro è veicolo di immaginazione, di creatività, di produttività: ricerca di un nuovo più desiderabile, più giusto, più felice. L’utopia è anche però spesso una normatività astratta, separata da questo esistente e in quanto tale rischia di imporre ai processi di trasformazione una forma codificata e fissa che può essere annichilente rispetto al dispiegarsi della vita, dei suoi processi socio-ecologici ed affettivi."


Giorgio Griziotti

“Ricevendola dalle mani di Prometeo, un loro vecchio alleato, gli umani non immaginavano neanche lontanamente che la technè avrebbe cambiato per sempre la loro vita sulla terra. Non sarebbero più stati obbligati a cercare affannosamente i luoghi magici dove sgorga l’acqua limpida se la si può trasportare e conservare. Nella stagione fredda avrebbero potuto sopperire alla mancanza di luce e calore con “atr” (fuoco) che il titano aveva dato loro, disobbedendo a Zeus. Sarebbero stati dunque meno dipendenti dal caso. La technè li avrebbe fatti entrare pian piano nella spirale di un benessere incomparabile, sostituendosi al precedente mondo, magico e meraviglioso ma al tempo stesso crudele e mortifero. Ma non si resero conto che la technè avrebbe anche ostacolato l’empatia con la natura e rotto l’incantesimo della simbiosi col mondo circostante.”



5+5 

5+5 dei più belli e dei più politici tra i romanzi di fantascienza. Una classifica dal sapore vintage in una nuovissima Ambigua Utopia. “…C'è da chiedersi se il ruolo di quelli che chiamiamo classici della fantascienza -genere letterario/pop dai margini incerti- in fondo non sia altro che questo, essere testi al contempo stimolanti e dissonanti, capaci di superare gli isolamenti temporali, aprire squarci in controfase, bypassare le invisibili barriere che ci reprimono l'immaginario, che lo confinano allo stampo d'un epoca. E allora forse alcuni di questi titoli sono stati più efficaci in questa operazione culturale, e diventano così frammenti d'un alfabeto, possono essere ritenuti mattoni fondanti. E se così fosse... Quali di questi testi hanno poi questo valore?” (Giancarlo Ghigi) Rispondono Gennaro Fucile, Daniele Barbieri e Domenico Gallo.




Le ricette di Gaia

N.B. Le ricette sono state testate su un nutrito pubblico di partecipanti agli incontri della rassegna La fine dell’Uomo tenutasi l’inverno scorso al Piano Terra a Milano e organizzata dall’archivio UAU. Nessun animale è stato maltrattato durante la produzione di questa esperienza. 



Fotoromanzo

Un perturbante fotoromanzo sul n. 10 di Un'Ambigua Utopia "L’idea era quella di far vedere cosa sarebbe successo nel far incontrare due algoritmi provenienti da contesti differenti (un po’ come quando un incontro tra persone diverse può generare uno scambio, uno scontro o una nuova entità) e di verificare quindi se dell’umanità possa sussistere ancora in queste immagini che qui in questo esperimento visivo sono state prodotte esclusivamente da algoritmi. Il risultato è stato ‘ovviamente’ un fallimento e quindi l’esperimento può dirsi riuscito”



Bibliotork Interzona Caronia

Nel n. 10 di Un'Ambigua Utopia Tobia D'Onofrio invita tutti a Bibliotork Interzona Caronia, un archivio dell'immaginario alla Cascina Torchiera, uno spazio liberato e resistente



Racconti d'archivio

Selezione di racconti ambigui provenienti dall'archivio UAU: CHI E' IL COLPEVOLE di Tiziano Salari "...Presto lo avrebbero arrestato, e neppure la sua innocenza lo avrebbe salvato dall'ergastolo. Come provare infatti che non fosse lui, il padre e la madre sarebbero stati i primi ad accusarlo - già erano pagati per questo!" - LA RASATURA di Beppe Chiappino "...Il volto insaponato e il solito sguardo dal finestrotto sul corso: tre interi isolati davanti a me rasi al suolo da una bomba allo ioduro segmentato, che distrugge fino a lì,e non un millimetro più in là." - PICCOLO UNIVERSO di Andrea G. Necchi "...Doveva assolutamente uscire, distruggere quella parete senza capo ne coda, tutto se stesso lo esigeva, pena la follia."



Alba di ruggine
Mi piace immaginare che la sera del 13 gennaio, appena prima di andare a dormire, tutti abbiamo dato uno sguardo al cielo, almeno per un attimo. La luce arancione della notte di Milano salutava l’inizio del 1985 con grandi fiocchi bianchi di neve che tutto era, tranne che immacolata.” È l’incipit del racconto “Alba di ruggine” di Alberto Di Monte (concepito inizialmente per la performance “Un’ambigua ucronia” realizzata dal collettivo Off Topic alla Fondazione Mudima). Un diverso percorso temporale che inizia a Milano dalla grande nevicata dell’inverno 1984. 



Una "nuova" fantascienza

Nel n. 10 di Un'Ambigua Utopia un articolo di Patrizia Brambilla e Antonio Caronia sulla fantascienza femminile "...Ritroviamo nella fantascienza femminile molte delle tematiche che le donne e il loro movimento hanno sollevato in questi anni. Corpo e parola, fisicità e linguaggio, rapporto con le altre donne, conflittualità/amore per la madre, sessualità, ambiguità, separazione e separatismo, ricerca di identità al di fuori degli schemi e delle costrizioni, enfasi sul “quotidiano”. .."



Il salto del cyborg
di
Loretta Borreli
"Donna Haraway propone delle figure fatte di filo che ampliano l’esperienza del cyborg, la ingarbugliano in una ramificazione tentacolare e la situano in un humus politico fertile di relazioni."


Dare fuoco all'utopia
di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi
"Come per la giungla di Aguirre o il Rio delle Amazzoni di Fitzcarraldo, i paesaggi dei film di Herzog sono quasi sempre riflessi di panorami interiori, indagine psicologica, intima, tracciato dell'animo umano che emerge nella natura che abitiamo." 


Bruna Miorelli in ricordo di Primo Moroni
Con le parole di Primo Moroni per imparare a non aver “paura di morire un’altra volta di sé, della provvisoria identità precedente, eppure conquistata con grande fatica, per rinascere non tanto più forti quanto più complessi, quanto più disponibili e dotati di tante vite e non di una sola appartenenza.” 


La grafica

Giorgio Uboldi per l’ideazione dell’immagine di copertina ci racconta come si siano usati dei pattern di Turing (pattern di reazione e diffusione) che sono gli stessi che stanno alla base della morfogenesi, cioè di come le nostre cellule si strutturano in forme e, nel risultato ottenuto dall’effetto quasi psichedelico, scaturisca una sensazione un po’ da fine dell’uomo che si disintegra e torna ad essere un tutt’uno con il resto.



Quanto costa e dove si trova

Un'Ambigua Utopia n. 10 si trova a Milano: Cascina Torchiera P.le Cim. Maggiore 18 - Isola Libri, via Pollaiuolo 5 - Il covo della ladra, via Scutari 5 - Libraria Anarres, via Pietro Crespi 11 - Libreria Noi, via delle Leghe 18 - Libreria Popolare, via Tadino 18 - Librosteria , via C. Cesariano 7 - Libreria Scaldasole, via Scaldasole 1 e si può ordinare fuori Milano online qui: https://ladradilibri.com/prodotto/unambigua-utopia-n10/


La redazione

Abo, Gaia, Giorgio, Angeles, Giuliano, Ufo.


e se non basta ci sono anche gli ambiguipodcast QUI 






giovedì 24 settembre 2020

Quando cambierà

 


 Editoriale n. 1 nuova serie Un'Ambigua Utopia 1979

di Antonio Caronia 

La mutazione è in corso. Ognuno di noi c’è immerso fino al collo o invischiato fino ai neuroni, se preferite, perché è dello spazio interno che, anche, si parla. Non abbiamo ancora modo, così, in mezzo al guado, di voltarci indietro, valutare la strada percorsa, e neppure di apprezzare quanto disti l’altra riva. Anzi, se vogliamo dirlo da dentro le nostre angosce, non sappiamo neppure se altra riva vi sia. Forse siamo destinati a tramutarci, per un po’ di tempo, in animali acquatici. Che importa? Le apprensioni per il futuro (chi ne ha), e comunque le insicurezze di un cammino troppo poco noto e – ne siamo sicuri – troppo pieno di insidie, si mischiano in noi con una specie di euforia e di esaltazione, che è la veste che assume la consapevolezza della fine di un’esperienza, della rottura che – ci siamo accorti – ci accompagna ormai da più di qualche mese.

È certamente solo un caso che la trasformazione di questa nostra rivista, a cui state assistendo, coincida approssimativamente con l’inizio di una coscienza più larga, in molti di coloro che sono stati impegnati nei movimenti degli ultimi anni, della mutazione. Ma è un caso a cui ci piace abbandonarci, per un po’: e non rinunciamo alla tentazione di inscrivere il mutamento di UN’AMBIGUA UTOPIA sotto il segno di questa mutazione. La mutazione è tale (talmente radicale e profonda, si vuol dire) che dobbiamo correre il rischio di scrivere ormai le frasi senza soggetto, a tal punto l’emergente si è rituffato sotto terra, il visibile si è sottratto alla vista, lo slogan risuonante si è affievolito (e, quando suona ancora, suona osceno e ripugnante, se non è stravolto dal ghigno dell’irrisione). Ma tant’è: qualche incongruenza sintattica non è certo un prezzo più pesante da pagare per capire un po’ meglio che cosa siamo diventati. E, se il “noi” che useremo avrà il vizio di essere indeterminato, ognuno lo potrà riempire col referente che vorrà: potrà anche tirarsene fuori, da questo “noi”: riesumatori di cadaveri (che, come si sa, sono amici/nemici dei becchini) ce n’è sempre, e forse di più ce n’è nei periodi di restaurazione.

Fine di un’esperienza, rottura, dicevamo. La generazione del ’68 sta consumando, irreversibilmente, l’esperienza della Politica.

Tattiche, strategie, rapporto con le istituzioni, teorie dell’avanguardia e pratiche di partito si sono lentamente svelate per quello che erano. L’ideologia era più di un velo, era cortina spessa e pesante, ma la borghesia nazionale/internazionale/multinazionale ha fatto il suo lavoro, rivoluzionario (oggi come nel 1848): ha rimosso la cortina, lenta, paziente: ritrovando il suo equilibrio (dinamico, certamente, mai statico: si rassicurino i talmudisti del marxismo) ci ha fatto vedere, nella “strategia rivoluzionaria”, gli stessi meccanismi, speculari e quasi sempre ridotti a dimensioni risibili, della sua strategia. Il rimosso di due, tre, dieci anni di militanza ritorna a galla, provoca crisi salutari e crisi distruttive, disimpegni lieti ed esaltanti e disimpegni cupi e frustranti, nuovi tuffi nella militanza e riscoperte letterarie, reclutamenti per le chiese buddiste e per i gruppi armati. Per rapire Moro e per fare uscire un nuovo quotidiano di opposizione ci vogliono i soldi, certamente, ma anche un discreto numero di sostenitori: bastano pochi, è vero, ma non tanto pochi da impedire di illudersi che siano una “base sociale”. L’indifferenza sociale, l’accettazione del dominio quotidiano travestito da rappresentazione oggettiva, l’adesione al copione dello Spettacolo in cui ormai tutti (borghesi e proletari, conservatori e rivoluzionari, poliziotti e terroristi, Andreotti e Mimmo Pinto, per non parlare della Castellina) hanno un ruolo: su tutto questo (che forse è germanizzazione, e forse non lo è) si fonda la stabilità nuova del regime nascente democratico pluralistico e partecipato della borghesia italiana. E anche lo stato atomico, quando verrà, non vestirà più forse i panni dell’arbitrio odioso ma necessario, agli occhi dei più, ma quelli dell’impersonale oggettività.

Ma allora siamo sconfitti? Se l’unico terreno che conoscevamo, anzi no, di cui abbiamo tanto faticato per impadronirci, quello della Politica, si è mutato sotto i nostri occhi in una palude impraticabile, che faremo? Che faremo se il terreno che per qualche mese abbiamo intravisto dentro/dietro la pratica dei compagni di Bologna e di Roma si è anch’esso richiuso (così sembra)? Non fatela tanto lunga – ci dicono insieme coloro che vogliono ripercorrere, liberato dalle immondizie più visibili, il sentiero delle esperienze di partito, e i “nuovi manager” delle imprese di servizi addette a gestire i bisogni dei nuovi soggetti – perché volete caricare la vostra rivista (bella/brutta, interessante/noiosa) e il vostro progetto in genere (realizzabile/irrealizzabile, nuovo/vecchio) di tanti significati? Parlate di fantascienza, parlatene come volete; ma non rischiate anche voi di riesumare cadaveri, volendo a tutti i costi rifilarci i ridicoli parti delle riflessioni sulle vostre esperienze?

Be’, non ingombriamo di troppi cadaveri una via che è già abbastanza stretta. Dire che la “politica rivoluzionaria” è morta non significa che è morta ogni possibilità di liberazione nelle società di capitalismo decadente.

Se accettassimo puramente e semplicemente di occupare un pezzo di mercato, non si capisce perché non dovremmo accettare di definire anche il valore della nostra vita in questi termini. Forse non c’è una mutazione in corso, ce n’è più d’una; nel senso che una parte della nostra generazione (delle nostre generazioni) ha accettato, sta accettando, la sua parte nello Spettacolo. Ma noi siamo mutanti in altro modo: la nostra estraneità a questa società non è in discussione, è forse più forte e profonda di quanto fosse prima: la nostra alterità non è in vendita. Stiamo con chi non si identifica né con lo Stato né con la Società Civile, e se oggi l’esistenza di costoro, di questi strati, è sotterranea e clandestina, si svolge in un luogo che non ha niente a che spartire con la rappresentazione che imperversa (e quindi neppure con la lotta truccata tra Stato e Terrorismo), allora noi viviamo in questo luogo.

In un luogo come questo il “noi” che abbiamo usato finora può, deve perdere la sua asessualità: nel nostro progetto ci dovrà essere posto anche, se non soprattutto, per un “noi” sessuale, tragicamente e felicemente, un “noi” femminile/maschile, bisessuale. Perché il nostro è un progetto più, non meno, ambizioso di prima: è quello della liberazione, da tutte le oppressioni, da quelle esterne non meno che da quelle interne, introiettate, che ci portano per esempio a difendere istintivamente il “femminile” o il “maschile” predominante in ciascuno di noi. Se per molte compagne rifiuto della politica ha significato anche rifiuto di una militanza femminista acritica, sloganistica e contrattuale, questo non significa certo né che esse rinneghino la propria storia, né che credano oggi in un’”integrazione” che non sarebbe altro che normalizzazione. La differenza esiste, esiste un modo diverso di “sentire” la vita.

Forse per questo è così importante lo sforzo di tante compagne di comunicare il loro femminile, di accettare il loro maschile, per battersi perché nessuna diversità resti, all’interno di ognuno di noi, assorbita, appiattita, esorcizzata, ma al contrario che venga accettata, compresa, amata. “L’unico pensiero rivoluzionario è quello che sa invertire all’infinito, e non in un solo senso, l’alto e il basso del corpo individuale come del corpo sociale… L’unico pensiero rivoluzionario è quello amoroso, cioè capace di viaggiare attraverso tutto ciò che il dualismo occidentale ci ha sempre rappresentato come inconciliabile, fra l’altro l’idea di maschile e femminile” (A. Le Brun, Mollate tutto. Facciamola finita con il femminismo, Edizioni del sole nero, 1978).

A questa condizione, con questo progetto (e con tutta la modestia delle nostre forze e del nostro punto di vista, che ci mette al riparo da qualsiasi tentazione di “egemonia” di alcunché) vogliamo provare ad utilizzare anche gli spazi di mercato che sono aperti, vogliamo provare a gestire la piccola fetta di potere che la produzione di carta stampata assicura, per contribuire a diffondere (sul terreno della scrittura e possibilmente di una pratica ad essa collegata) alcuni frammenti di linguaggio differente. UN’AMBIGUA UTOPIA vuole diventare sempre di più una tribuna delle diversità, dentro quel percorso sotterraneo di produzione di rivolte parziali, di ridefinizione di linguaggi e di comportamenti che è l’unica speranza per la rifondazione di un nuovo soggetto che, liberando se stesso, liberi tutta l’umanità.