EGEMONIA
DEL CINEMATICO
Vorrei
presentare alcune mie considerazioni che sono state influenzate anche dal
confronto con le teorie di Antonio. Premetto che le riflessioni e le analisi
critiche di Antonio a me sono arrivate soprattutto per il tramite del discorso,
sia a livello di conversazione all’interno di situazioni private, sia come mio ascolto
di sue parole nell’ambito di situazioni pubbliche tipo conferenze, più che
dalla sua copiosa produzione scritta, di cui ho letto solo piccole schegge
soffermandomi sui temi a me più vicini.
Delle sue
parole, quello che più mi è rimasto sono le suggestioni che i suoi ragionamenti
hanno suscitato in me, frammenti che hanno continuato a lavorarmi dentro e che
poi mi hanno portato completamente da un’altra parte, rispetto agli argomenti
al centro dei suoi discorsi. Questo, per me, è il dono prezioso che talune
riflessioni teoriche riescono a regalare, quelle riflessioni così ricche e
feconde da poter offrire, oltre al discorso esplicito, moltissimi altri spunti
e suggerimenti lasciati nascosti in mezzo ai nessi intessuti tra i concetti,
oppure fatti cadere lungo lo sviluppo dell’analisi. Come scatole cinesi, le
parole di Antonio a me hanno sempre regalato sorprese “collaterali”, stimoli
inaspettati e impagabili.
Io non
saprei dire il pensiero di Antonio, o analizzare le sue teorie. So dire solo
cosa mi ha dato, perché era molto generoso. A me, questa capacità di portare da
un’altra parte, che rintraccio nelle sue argomentazioni, ha offerto diversi
spunti che in questo periodo contribuiscono a guidare le mie riflessioni e dei
quali vorrei qui presentare sinteticamente alcuni punti.
In primo
luogo, mi riferisco soprattutto alle affermazioni e agli scritti di Antonio sui
media, sulle tecnologie e sulle loro implicazioni sociali e culturali. Confesso
di essere molto strumentale nella ricezione dei testi che leggo o studio, sono
un po’ monotematica e cerco sempre di portare tutto nell’ambito dei miei
maggiori oggetti d’interesse, ovvero le tecnologie visive e le ricadute
estetiche, culturali e politiche del loro utilizzo. I testi di Antonio cui mi
sono accostata sono stati molto produttivi in questo senso, perché oltre ad aiutarmi
a mettere a fuoco alcune problematiche politiche nell’uso dei media, hanno
generato un insieme di riflessioni su un qualcosa che per ora chiamo con un
termine probabilmente improprio, nominandolo come “il cinematico”[i],
un concetto che vuol definire un ambito legato all’idea di cinema, ma non
limitato al campo cinematografico in senso stretto e che qui cercherò di
introdurre.
In
generale, Antonio ha spesso chiamato in causa il cinema, sia perché si è
occupato anche dell’analisi di determinati film (come Avatar), ma soprattutto perché ha indagato gli orizzonti culturali
creati e messi in opera nell’interazione con le tecnologie e coi media visivi.
Nei suoi testi, è costante il riferimento allo scenario tecnologico
contemporaneo. Per esempio, il cyborg è un corpo organico che ha inglobato la
tecnologia e le cui percezioni sono mediate dalla tecnologia -e a rigore noi
tutti oggi siamo cyborg. Proprio l’idea di cyborg è stata per me un primo
spunto per spostare il discorso dal corpo in generale alla nostra esperienza fisico-organica
dei media visivi, portandomi a cercare di capire fino a che punto i media
visivi -che veicolano immagini di varia natura, ma tutte di matrice
cinematografica- stimolino la sensibilità dei loro fruitori e in che misura
siano capaci di innescare processi percettivi prima che cognitivi, modificando all’origine le reazioni “naturali”
di tipo percettivo, quelle che consideriamo automatiche e inscritte nel DNA.
Queste
domande sull’influenza delle tecnologie visive nel processo evolutivo umano,
nate da analoghe considerazioni di Antonio sulle modificazioni culturali e
sensoriali innescate dai media, sono state il punto di partenza che mi ha
portato a ragionare sul cinematico sia come forma attraverso cui oggi
comprendiamo la realtà, sia come forma attraverso cui si manifesta tout court
la realtà per noi, che abbiamo introiettato il cinematico –appunto!– come guida
visiva nella nostra esperienza del mondo. Cerco di spiegarmi meglio: ciò che
individuo con il concetto di cinematico non riguarda solo il film e la nostra
esperienza del film, ma ha a che fare con tutti gli schermi con cui noi
interagiamo abitualmente nel corso della giornata, dal computer al bancomat, al
telefonino. Il cinematico regola dall’interno le più diverse occupazioni che
strutturano la società (lavoro, formazione, intrattenimento) poiché è già
inglobato negli strumenti di cui abbiamo bisogno per dedicarci a nostro agio e
piacimento a tali occupazioni, offrendoci procedure già pronte cui ci sembra
naturale adeguarci. Il cinematico è fatto d’immagini in movimento, ma sono
immagini assolutamente eterogenee che si muovono secondo traiettorie non
lineari; sono immagini “fotografiche” oppure, più semplicemente, sono immagini
grafiche, o segni e icone; raccontano storie complesse, oppure guidano le
nostre azioni suggerendoci i percorsi. Il cinematico è il nuovo linguaggio
visivo con cui oggi ci confrontiamo comunque, anche se non lo desideriamo, un
linguaggio fatto d’immagini in movimento di qualsiasi natura, che utilizziamo
quotidianamente in modo più, o meno, consapevole. Qui mi piace riprendere una
frase detta da Mauro Folci ieri, che riprendeva a sua volta Wittgenstein e che
diceva, all’incirca: “creare un nuovo linguaggio significa creare una nuova
forma di vita”. Il cinematico è appunto il nuovo linguaggio visivo che media la nostra percezione della realtà
e struttura di conseguenza la nostra esperienza (cioè crea la nostra attuale
forma di vita).
Per dare un
esempio concreto, il video presentato qui ieri da Giacomo Verde è un’opera
decisamente cinematica, poiché mostra immagini grafiche di vario genere,
mescolate a fotografie e testi e rimontate secondo un ritmo da videoclip, creata
per “dare figura” a discorsi scritti, estratti dal libro sul cyborg di Antonio.
In pratica, abbiamo visto un video per leggere alcuni brani di un libro: i
brani in questione ora non li ricordiamo più (perché non li abbiamo letti, ma
solo guardati), però ricordiamo molto meglio il loro senso -o meglio, il senso
attribuito loro da Giacomo nella sua opera di miscelazione d’immagini
eterogenee. Questo è esattamente il modo in cui opera il cinematico, poiché il
cinematico è un linguaggio la cui caratteristica è proprio quella di
permetterci di guardare le cose introiettandole senza averne coscienza, in quanto
esse diventano elementi dell’ambiente visivo complessivo in cui siamo immersi.
Inoltre, il cinematico riesce a dare visualizzazione sia a oggetti concreti,
sia a processi astratti, un tempo “privi di figura”, e questa è la sua peculiarità
e la sua forza.
Oppure, un
altro esempio più evocativo per illustrare la mia idea potrebbe essere il
famoso incipit di William Gibson: “Il cielo sopra il porto aveva
il colore della televisione sintonizzata su un canale morto” (Neuromante, 1984), una frase che dà un’immagine
perfetta del modo in cui oggi la tecnologia, attraverso alcuni suoi effetti
visivi, è introiettata a livello percettivo.
Soprattutto, mostra in
che misura gli scenari tecnologici possano contribuire alla comprensione dei
fenomeni, ma anche quanto essi possano determinare il senso della realtà stessa.
Lo confesso, non sono una lettrice di fantascienza e questa citazione proviene da
uno dei pochissimi libri di fantascienza da me comprati e mai letto
completamente (e questo mi sembra una specie di “reato”, in un convegno su
Antonio!). Però, devo dire che anche se non ho letto tutto il libro, questa
frase mi si è stampata in testa e ha contribuito a farmi problematizzare la
nostra percezione del mondo attuale, un mondo completamente a misura tecnologica.
La porto qui come esempio della mia idea di cinematico, anche in relazione a
ciò che cercavo di dire a proposito della generosità teorica di Antonio, perché
mi sembra che riesca anche a dare un’immagine visiva al genere di salti
quantici del pensiero contenuti nei discorsi di Antonio, capaci di aprire
squarci di senso in direzioni inaspettate proprio come fa questa frase di
Gibson.
Tuttavia, complessivamente
l’aspetto per me più importante della produzione teorica di Antonio è il suo costante
richiamo agli effetti politici di abitudini e strategie culturali, in
particolare nell’uso delle tecnologie. Le trasformazioni/evoluzioni di funzioni
organiche che diventano modificazioni cognitive accompagnano la vita della
specie umana fin dagli esordi e potremmo, anzi, dire che costituiscono la
specificità della specie umana rispetto agli altri animali (e anche qui il
riferimento a Le Roy Gourhan, lasciato cadere come per caso da Antonio nel suo
discorso sul virtuale, mi ha innescato pensieri e domande assolutamente
stimolanti). Oggi sappiamo che è necessario ragionare sulle conseguenze sociali
e politiche di queste modificazioni cognitive indotte dall’utilizzo e
dall’interazione con il computer e con tutte le tecnologie basate su
possibilità di accesso/controllo remoto, perché le tecnologie non sono mai
neutre, ma funzionano in base ad assunti culturali e a finalità prevalentemente
economiche che determinano preliminarmente gli utilizzi e gli adattamenti a
livello sociale. Qui entra in gioco l’altro aspetto al centro delle mie analisi
in questo periodo, cioè quale sia l’influenza della cultura cinematica sulla
nostra capacità di azione autonoma e, quindi, che rapporto ci sia tra il
cinematico e un certo tipo di omologazione e di passività, oppure se queste non
siano delle maschere che nascondono invece ben diverse abilità d’azione.
In questo
senso ritorna l’argomento del corpo, non più e non solo il corpo cyborg, ma più
propriamente il corpo come immagine all’interno
della nostra cultura cinematica. Qui, a mio parere, c’è un forte legame con la morte
che da un lato è iper-rappresentata quasi in modo apotropaico, dall’altro è
assolutamente cancellata (pensiamo alla giovinezza dei corpi della pubblicità e
al conseguente imperativo giovanilista della nostra cultura). Come insegna
Freud, però, il rimosso ritorna sempre manifestandosi con immagini apparentemente
agli antipodi rispetto ai contenuti nascosti: così nei corpi giovani e magri
delle immagini -pubblicitarie e non- del panorama visivo contemporaneo in
realtà è messa in scena un’angoscia di morte evidente e paralizzante. Questo mi
ha portato a interrogarmi sull’effetto che produce l’essere esposti in
continuazione a immagini che o evocano l’angoscia di morte (pubblicità), oppure
rappresentano in modo esplicito proprio la morte reale (ISIS), interrogandomi
soprattutto sulle finalità politiche profonde dell’uso di questo tipo di
immagini.
In sintesi,
da alcune letture di testi di Antonio a me sono nate considerazioni che si
possono sintetizzare in questo modo: la cultura visiva contemporanea sembra basata
sullo spettacolo della morte da un lato, e sulla rimozione del corpo dall’altro,
e i due aspetti sono profondamente correlati. Forse, qui è necessario fare un passo indietro e
cercare di definire l’ambiente socioculturale in cui viviamo, ovvero la nostra
esperienza del mondo oggi, al presente. Nella contemporaneità, l’esperienza del
mondo è in primo luogo esperienza di un mondo
come immagine, nel quale noi stessi siamo immagine tra le immagini. Questo
tipo di esperienza del mondo è filtrata dalla visione e sembra ci sia ben poco
spazio per forme di reazione e dissenso, capaci di sottrarsi all’omologazione
coatta di desideri e aspettative, inoculata dalla cultura visiva che condiziona la nostra
quotidianità e che, paradossalmente, mentre coinvolge il corpo lo neutralizza. La supremazia mediale del
cinematico appare, infatti, come il fattore determinante di un immaginario
sempre più estraniato dall’esperienza viva del corpo, di cui si cura
maniacalmente l’immagine di superficie, ma di cui si temono le manifestazioni
emotive. Le attuali consuetudini tecnologiche basate sulle immagini hanno
profondamente modificato la sensibilità e, con essa, la capacità di gestire
positivamente la visceralità legata alla nostra struttura organica. Abbiamo
sempre più paura delle passioni, del tempo che passa e dei suoi segni, degli
umori corporali. Vogliamo correggere qualsiasi “imperfezione” fisica basandoci
su un’idea del corpo astratta e inorganica.
Il corpo ideale è androgino, adolescente, ai limiti dell’anoressia, glabro,
bianco, biondo. Un corpo che non tradisce mai, che non si rivela mai come corpo, ma si mostra sempre come immagine,
mentre il corpo vero è sentito come un involucro opaco con cui è faticoso
rapportarsi per conciliare vissuto visivo e vissuto fisico.
La rimozione del corpo è strettamente collegata alla nostra
assuefazione al martellamento d’immagini di matrice cinematografica da parte
dei media più diversi (cioè il nostro ambiente cinematico), che ci fa perdere
di vista la carica ipnotica e il potere di colonizzazione dell’inconscio di
questo particolare genere d’immagini. In questo contesto, i video diffusi
dall’ISIS sono un fulmine a ciel sereno che non soltanto ci costringe a
riflettere su se, e come, sia possibile depotenziare e sovvertire la forza
visiva della rappresentazione estetizzata della violenza (il problema che pone
da sempre il cinema di propaganda, da Leni Riefenstahl in poi), ma anche a
renderci conto di come siano intrinsecamente
violente in sé le immagini apparentemente innocue che costellano lo spazio
massmediale del nostro mondo “felice” e “in pace”. Come aveva già mostrato
l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, quando la fiction si capovolge per
diventare realtà, più che l’orrore di quella realtà inaspettata, a sconvolgerci
è il potere destabilizzante della sua immagine, capace d’impossessarsi del
nostro immaginario indipendentemente
dalla nostra volontà cosciente, modulandone le reazioni emotive e determinando
scelte e azioni. Il potere delle immagini è un potere che emana un fascino
fatale, annichilente, al quale soccombiamo senza accorgercene, come quegli animali
ipnotizzati dai serpenti. Probabilmente dovremmo partire da qui, dalle
strategie adottate da alcuni di quegli animali, che ai serpenti rispondono con
una contro-ipnosi subliminale e imprevista, cui il serpente non sa reagire e
che ribalta le sorti della sfida. Dovremmo fidarci di più del nostro corpo e
meno delle apparenze, anche quando sembrano più reali del reale perché
veicolate da immagini cinematiche, immagini cui crediamo ciecamente in quanto
nella cultura attuale esse sono assunte come Verità Visiva del mondo.
In breve, dovremmo cercare di giocare di più in
modo personale e consapevole con le immagini mettendo al centro il fatto che si
tratta d’immagini, cioè di qualcosa che non ha senso di per sé, ma possiede unicamente
il senso che riceve non solo da chi ha creato tali immagini ma soprattutto da
chi ne decide le modalità di circolazione e che perciò, come tale, è un senso
sempre de-costruibile e criticabile. Ancora più importante, inoltre, sarebbe
riuscire a svincolare con leggerezza la nostra esperienza viva dalla sua attestazione sotto forma d’immagine, un
tratto che oggi più che mai è sollecitato come un dovere, una sorta di verifica
indispensabile cui è necessario sottoporsi per confermare la propria identità
ed esistenza, ma che in realtà non è così imprescindibile e vitale -a dispetto
di tutte le nuove abitudini “social”.
[i] In inglese il
termine “cinematic” è usato per
definire tutto ciò che riguarda in generale il cinema, o il film, e si
differenzia dal termine più specifico “cinematographic”,
che si riferisce più precisamente al fare cinema e cioè alle tecniche, agli
stili di regia, alle scelte fotografiche; di conseguenza, cinematic è usato in tutti quei contesti in cui il riferimento al
cinema non è ristretto all’analisi delle caratteristiche fotografiche e
linguistiche dell’immagine, ma investe un ambito più ampio di influenza del
cinema. I lettori italiani lo hanno già trovato in questa accezione in alcuni
testi di teoria del film tradotti dall’inglese. Io utilizzo “cinematico” in
un’accezione ancora più ampia per descrivere l’ambiente percettivo e culturale
creato dalle immagini di matrice cinematografica (sia realizzate fotograficamente,
sia di sintesi), che compongono lo spazio sociale contemporaneo.
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