sabato 14 novembre 2015

Simonetta Fadda: intervento al convegno Logic Lane


EGEMONIA DEL CINEMATICO

Vorrei presentare alcune mie considerazioni che sono state influenzate anche dal confronto con le teorie di Antonio. Premetto che le riflessioni e le analisi critiche di Antonio a me sono arrivate soprattutto per il tramite del discorso, sia a livello di conversazione all’interno di situazioni private, sia come mio ascolto di sue parole nell’ambito di situazioni pubbliche tipo conferenze, più che dalla sua copiosa produzione scritta, di cui ho letto solo piccole schegge soffermandomi sui temi a me più vicini.
Delle sue parole, quello che più mi è rimasto sono le suggestioni che i suoi ragionamenti hanno suscitato in me, frammenti che hanno continuato a lavorarmi dentro e che poi mi hanno portato completamente da un’altra parte, rispetto agli argomenti al centro dei suoi discorsi. Questo, per me, è il dono prezioso che talune riflessioni teoriche riescono a regalare, quelle riflessioni così ricche e feconde da poter offrire, oltre al discorso esplicito, moltissimi altri spunti e suggerimenti lasciati nascosti in mezzo ai nessi intessuti tra i concetti, oppure fatti cadere lungo lo sviluppo dell’analisi. Come scatole cinesi, le parole di Antonio a me hanno sempre regalato sorprese “collaterali”, stimoli inaspettati e impagabili.
Io non saprei dire il pensiero di Antonio, o analizzare le sue teorie. So dire solo cosa mi ha dato, perché era molto generoso. A me, questa capacità di portare da un’altra parte, che rintraccio nelle sue argomentazioni, ha offerto diversi spunti che in questo periodo contribuiscono a guidare le mie riflessioni e dei quali vorrei qui presentare sinteticamente alcuni punti.
In primo luogo, mi riferisco soprattutto alle affermazioni e agli scritti di Antonio sui media, sulle tecnologie e sulle loro implicazioni sociali e culturali. Confesso di essere molto strumentale nella ricezione dei testi che leggo o studio, sono un po’ monotematica e cerco sempre di portare tutto nell’ambito dei miei maggiori oggetti d’interesse, ovvero le tecnologie visive e le ricadute estetiche, culturali e politiche del loro utilizzo. I testi di Antonio cui mi sono accostata sono stati molto produttivi in questo senso, perché oltre ad aiutarmi a mettere a fuoco alcune problematiche politiche nell’uso dei media, hanno generato un insieme di riflessioni su un qualcosa che per ora chiamo con un termine probabilmente improprio, nominandolo come “il cinematico”[i], un concetto che vuol definire un ambito legato all’idea di cinema, ma non limitato al campo cinematografico in senso stretto e che qui cercherò di introdurre.
In generale, Antonio ha spesso chiamato in causa il cinema, sia perché si è occupato anche dell’analisi di determinati film (come Avatar), ma soprattutto perché ha indagato gli orizzonti culturali creati e messi in opera nell’interazione con le tecnologie e coi media visivi. Nei suoi testi, è costante il riferimento allo scenario tecnologico contemporaneo. Per esempio, il cyborg è un corpo organico che ha inglobato la tecnologia e le cui percezioni sono mediate dalla tecnologia -e a rigore noi tutti oggi siamo cyborg. Proprio l’idea di cyborg è stata per me un primo spunto per spostare il discorso dal corpo in generale alla nostra esperienza fisico-organica dei media visivi, portandomi a cercare di capire fino a che punto i media visivi -che veicolano immagini di varia natura, ma tutte di matrice cinematografica- stimolino la sensibilità dei loro fruitori e in che misura siano capaci di innescare processi percettivi prima che cognitivi, modificando all’origine le reazioni “naturali” di tipo percettivo, quelle che consideriamo automatiche e inscritte nel DNA.
Queste domande sull’influenza delle tecnologie visive nel processo evolutivo umano, nate da analoghe considerazioni di Antonio sulle modificazioni culturali e sensoriali innescate dai media, sono state il punto di partenza che mi ha portato a ragionare sul cinematico sia come forma attraverso cui oggi comprendiamo la realtà, sia come forma attraverso cui si manifesta tout court la realtà per noi, che abbiamo introiettato il cinematico –appunto!– come guida visiva nella nostra esperienza del mondo. Cerco di spiegarmi meglio: ciò che individuo con il concetto di cinematico non riguarda solo il film e la nostra esperienza del film, ma ha a che fare con tutti gli schermi con cui noi interagiamo abitualmente nel corso della giornata, dal computer al bancomat, al telefonino. Il cinematico regola dall’interno le più diverse occupazioni che strutturano la società (lavoro, formazione, intrattenimento) poiché è già inglobato negli strumenti di cui abbiamo bisogno per dedicarci a nostro agio e piacimento a tali occupazioni, offrendoci procedure già pronte cui ci sembra naturale adeguarci. Il cinematico è fatto d’immagini in movimento, ma sono immagini assolutamente eterogenee che si muovono secondo traiettorie non lineari; sono immagini “fotografiche” oppure, più semplicemente, sono immagini grafiche, o segni e icone; raccontano storie complesse, oppure guidano le nostre azioni suggerendoci i percorsi. Il cinematico è il nuovo linguaggio visivo con cui oggi ci confrontiamo comunque, anche se non lo desideriamo, un linguaggio fatto d’immagini in movimento di qualsiasi natura, che utilizziamo quotidianamente in modo più, o meno, consapevole. Qui mi piace riprendere una frase detta da Mauro Folci ieri, che riprendeva a sua volta Wittgenstein e che diceva, all’incirca: “creare un nuovo linguaggio significa creare una nuova forma di vita”. Il cinematico è appunto il nuovo linguaggio visivo che media la nostra percezione della realtà e struttura di conseguenza la nostra esperienza (cioè crea la nostra attuale forma di vita).
Per dare un esempio concreto, il video presentato qui ieri da Giacomo Verde è un’opera decisamente cinematica, poiché mostra immagini grafiche di vario genere, mescolate a fotografie e testi e rimontate secondo un ritmo da videoclip, creata per “dare figura” a discorsi scritti, estratti dal libro sul cyborg di Antonio. In pratica, abbiamo visto un video per leggere alcuni brani di un libro: i brani in questione ora non li ricordiamo più (perché non li abbiamo letti, ma solo guardati), però ricordiamo molto meglio il loro senso -o meglio, il senso attribuito loro da Giacomo nella sua opera di miscelazione d’immagini eterogenee. Questo è esattamente il modo in cui opera il cinematico, poiché il cinematico è un linguaggio la cui caratteristica è proprio quella di permetterci di guardare le cose introiettandole senza averne coscienza, in quanto esse diventano elementi dell’ambiente visivo complessivo in cui siamo immersi. Inoltre, il cinematico riesce a dare visualizzazione sia a oggetti concreti, sia a processi astratti, un tempo “privi di figura”, e questa è la sua peculiarità e la sua forza.  
Oppure, un altro esempio più evocativo per illustrare la mia idea potrebbe essere il famoso incipit di William Gibson: “Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto” (Neuromante, 1984), una frase che dà un’immagine perfetta del modo in cui oggi la tecnologia, attraverso alcuni suoi effetti visivi, è introiettata a livello percettivo. Soprattutto, mostra in che misura gli scenari tecnologici possano contribuire alla comprensione dei fenomeni, ma anche quanto essi possano determinare il senso della realtà stessa. Lo confesso, non sono una lettrice di fantascienza e questa citazione proviene da uno dei pochissimi libri di fantascienza da me comprati e mai letto completamente (e questo mi sembra una specie di “reato”, in un convegno su Antonio!). Però, devo dire che anche se non ho letto tutto il libro, questa frase mi si è stampata in testa e ha contribuito a farmi problematizzare la nostra percezione del mondo attuale, un mondo completamente a misura tecnologica. La porto qui come esempio della mia idea di cinematico, anche in relazione a ciò che cercavo di dire a proposito della generosità teorica di Antonio, perché mi sembra che riesca anche a dare un’immagine visiva al genere di salti quantici del pensiero contenuti nei discorsi di Antonio, capaci di aprire squarci di senso in direzioni inaspettate proprio come fa questa frase di Gibson.
Tuttavia, complessivamente l’aspetto per me più importante della produzione teorica di Antonio è il suo costante richiamo agli effetti politici di abitudini e strategie culturali, in particolare nell’uso delle tecnologie. Le trasformazioni/evoluzioni di funzioni organiche che diventano modificazioni cognitive accompagnano la vita della specie umana fin dagli esordi e potremmo, anzi, dire che costituiscono la specificità della specie umana rispetto agli altri animali (e anche qui il riferimento a Le Roy Gourhan, lasciato cadere come per caso da Antonio nel suo discorso sul virtuale, mi ha innescato pensieri e domande assolutamente stimolanti). Oggi sappiamo che è necessario ragionare sulle conseguenze sociali e politiche di queste modificazioni cognitive indotte dall’utilizzo e dall’interazione con il computer e con tutte le tecnologie basate su possibilità di accesso/controllo remoto, perché le tecnologie non sono mai neutre, ma funzionano in base ad assunti culturali e a finalità prevalentemente economiche che determinano preliminarmente gli utilizzi e gli adattamenti a livello sociale. Qui entra in gioco l’altro aspetto al centro delle mie analisi in questo periodo, cioè quale sia l’influenza della cultura cinematica sulla nostra capacità di azione autonoma e, quindi, che rapporto ci sia tra il cinematico e un certo tipo di omologazione e di passività, oppure se queste non siano delle maschere che nascondono invece ben diverse abilità d’azione.
In questo senso ritorna l’argomento del corpo, non più e non solo il corpo cyborg, ma più propriamente il corpo come immagine all’interno della nostra cultura cinematica. Qui, a mio parere, c’è un forte legame con la morte che da un lato è iper-rappresentata quasi in modo apotropaico, dall’altro è assolutamente cancellata (pensiamo alla giovinezza dei corpi della pubblicità e al conseguente imperativo giovanilista della nostra cultura). Come insegna Freud, però, il rimosso ritorna sempre manifestandosi con immagini apparentemente agli antipodi rispetto ai contenuti nascosti: così nei corpi giovani e magri delle immagini -pubblicitarie e non- del panorama visivo contemporaneo in realtà è messa in scena un’angoscia di morte evidente e paralizzante. Questo mi ha portato a interrogarmi sull’effetto che produce l’essere esposti in continuazione a immagini che o evocano l’angoscia di morte (pubblicità), oppure rappresentano in modo esplicito proprio la morte reale (ISIS), interrogandomi soprattutto sulle finalità politiche profonde dell’uso di questo tipo di immagini.
In sintesi, da alcune letture di testi di Antonio a me sono nate considerazioni che si possono sintetizzare in questo modo: la cultura visiva contemporanea sembra basata sullo spettacolo della morte da un lato, e sulla rimozione del corpo dall’altro, e i due aspetti sono profondamente correlati. Forse, qui è necessario fare un passo indietro e cercare di definire l’ambiente socioculturale in cui viviamo, ovvero la nostra esperienza del mondo oggi, al presente. Nella contemporaneità, l’esperienza del mondo è in primo luogo esperienza di un mondo come immagine, nel quale noi stessi siamo immagine tra le immagini. Questo tipo di esperienza del mondo è filtrata dalla visione e sembra ci sia ben poco spazio per forme di reazione e dissenso, capaci di sottrarsi all’omologazione coatta di desideri e aspettative, inoculata dalla cultura visiva che condiziona la nostra quotidianità e che, paradossalmente, mentre coinvolge il corpo lo neutralizza. La supremazia mediale del cinematico appare, infatti, come il fattore determinante di un immaginario sempre più estraniato dall’esperienza viva del corpo, di cui si cura maniacalmente l’immagine di superficie, ma di cui si temono le manifestazioni emotive. Le attuali consuetudini tecnologiche basate sulle immagini hanno profondamente modificato la sensibilità e, con essa, la capacità di gestire positivamente la visceralità legata alla nostra struttura organica. Abbiamo sempre più paura delle passioni, del tempo che passa e dei suoi segni, degli umori corporali. Vogliamo correggere qualsiasi “imperfezione” fisica basandoci su un’idea del corpo astratta e inorganica. Il corpo ideale è androgino, adolescente, ai limiti dell’anoressia, glabro, bianco, biondo. Un corpo che non tradisce mai, che non si rivela mai come corpo, ma si mostra sempre come immagine, mentre il corpo vero è sentito come un involucro opaco con cui è faticoso rapportarsi per conciliare vissuto visivo e vissuto fisico.
La rimozione del corpo è strettamente collegata alla nostra assuefazione al martellamento d’immagini di matrice cinematografica da parte dei media più diversi (cioè il nostro ambiente cinematico), che ci fa perdere di vista la carica ipnotica e il potere di colonizzazione dell’inconscio di questo particolare genere d’immagini. In questo contesto, i video diffusi dall’ISIS sono un fulmine a ciel sereno che non soltanto ci costringe a riflettere su se, e come, sia possibile depotenziare e sovvertire la forza visiva della rappresentazione estetizzata della violenza (il problema che pone da sempre il cinema di propaganda, da Leni Riefenstahl in poi), ma anche a renderci conto di come siano intrinsecamente violente in sé le immagini apparentemente innocue che costellano lo spazio massmediale del nostro mondo “felice” e “in pace”. Come aveva già mostrato l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, quando la fiction si capovolge per diventare realtà, più che l’orrore di quella realtà inaspettata, a sconvolgerci è il potere destabilizzante della sua immagine, capace d’impossessarsi del nostro immaginario indipendentemente dalla nostra volontà cosciente, modulandone le reazioni emotive e determinando scelte e azioni. Il potere delle immagini è un potere che emana un fascino fatale, annichilente, al quale soccombiamo senza accorgercene, come quegli animali ipnotizzati dai serpenti. Probabilmente dovremmo partire da qui, dalle strategie adottate da alcuni di quegli animali, che ai serpenti rispondono con una contro-ipnosi subliminale e imprevista, cui il serpente non sa reagire e che ribalta le sorti della sfida. Dovremmo fidarci di più del nostro corpo e meno delle apparenze, anche quando sembrano più reali del reale perché veicolate da immagini cinematiche, immagini cui crediamo ciecamente in quanto nella cultura attuale esse sono assunte come Verità Visiva del mondo.
In breve, dovremmo cercare di giocare di più in modo personale e consapevole con le immagini mettendo al centro il fatto che si tratta d’immagini, cioè di qualcosa che non ha senso di per sé, ma possiede unicamente il senso che riceve non solo da chi ha creato tali immagini ma soprattutto da chi ne decide le modalità di circolazione e che perciò, come tale, è un senso sempre de-costruibile e criticabile. Ancora più importante, inoltre, sarebbe riuscire a svincolare con leggerezza la nostra esperienza viva dalla sua attestazione sotto forma d’immagine, un tratto che oggi più che mai è sollecitato come un dovere, una sorta di verifica indispensabile cui è necessario sottoporsi per confermare la propria identità ed esistenza, ma che in realtà non è così imprescindibile e vitale -a dispetto di tutte le nuove abitudini “social”.




[i]  In inglese il termine “cinematic” è usato per definire tutto ciò che riguarda in generale il cinema, o il film, e si differenzia dal termine più specifico “cinematographic”, che si riferisce più precisamente al fare cinema e cioè alle tecniche, agli stili di regia, alle scelte fotografiche; di conseguenza, cinematic è usato in tutti quei contesti in cui il riferimento al cinema non è ristretto all’analisi delle caratteristiche fotografiche e linguistiche dell’immagine, ma investe un ambito più ampio di influenza del cinema. I lettori italiani lo hanno già trovato in questa accezione in alcuni testi di teoria del film tradotti dall’inglese. Io utilizzo “cinematico” in un’accezione ancora più ampia per descrivere l’ambiente percettivo e culturale creato dalle immagini di matrice cinematografica (sia realizzate fotograficamente, sia di sintesi), che compongono lo spazio sociale contemporaneo.

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