venerdì 24 novembre 2017

Antonio Caronia, Sogno o son desto. Qualche appunto sul sogno nella fantascienza.


Possiamo forse, provvisoriamente, metterla in questo modo: se è vero, come da qualche parte si tende a dire, che la cultura dell’uomo si è sempre svolta all’insegna di opposizioni binarie e distintive (essere/divenire, sostanza/accidente, caldo/freddo, umido/secco, crudo/cotto, e via dicendo), e se è vero che, fra tutte, l’opposizione forse più generale e fondante è quella fra l’’identico’ e l’’altro’, il mondo del sogno rappresenta, accanto a quello della natura, la più abbondante riserva di ‘altro’ che si sia offerta all’umanità fin dall’inizio della sua esistenza. E la più inquietante, visto che non proviene dal ‘fuori’, ma dal ‘dentro’, da un’attività che si deve in qualche modo ricondurre a quel soggetto che, nello stato di veglia, risulta invece sottoposto a tutti i più stretti vincoli, a tutte le leggi dell’identità.                                                                                                    
Non ci stupiamo perciò di trovare, sul filo della storia letteraria, un uso del sogno (non l’unico possibile, certamente) che lo collega con l’insolito e il meraviglioso: da Luciano a Hoffman, De Quincey e Carrol, passando per Shakespeare a Calderòn de la Barca. L’insolito e il meraviglioso, si è detto, e non il fantastico: almeno se seguiamo, su questo terreno , Todorov (La letteratura fantastica) il quale vede il carattere distintivo della letteratura fantastica nell’esitazione tra una spiegazione razionale, naturale e una soprannaturale di un fatto insolito. Ora, forse paradossalmente, il riferimento al sogno nelle opere fantastiche distrugge appunto – o tende a distruggere – l’esitazione: fornisce una spiegazione ai fatti insoliti o meravigliosi in cui si sono imbattuti i personaggi – fatti che possono coprire, come in Alice, anche tutta la narrazione. La spiegazione potrà essere o non essere convincente: diciamo, anzi, che lo statuto del sogno nella struttura della narrativa fantastica è inseparabile da un elemento di ambiguità, ambiguità irriducibile, e presente, peraltro, anche in tutti i tentativi pre-freudiani di spiegazione scientifica del sogno.                          
L’avvento della psicanalisi ha però, dal canto suo, riportato il sogno nell’alveo dell’identità, riconoscendovi una trama di simboli, una possibilità di lettura e di ordinamento razionali nella massa di contenuti fino ad allora considerati caotici e ‘insensati’ del sogno. Nella vita psichica non può esservi nulla di arbitrario, proclamava Freud. E l’inconscio viene così a funzionare come categoria in grado di assumere tutto il materiale non ordinabile secondo i modi della razionalità classica, in grado di dare ad esso un ‘senso’, diverso forse, ma con pari dignità rispetto ai prodotti della ragione cosciente. Non è qui il caso di fare un bilancio del successo o meno di questa impresa freudiana, in particolare nelle sue applicazioni all’analisi della produzione letteraria. Ma, che si accetti tanto o poco il metodo di indagine psicanalitico in letteratura, non possiamo quindi liberarci dall’ombra che sul romanzo del ‘900 getta Finnegan’s Wake, che nella ‘registrazione’ dei sogni di una sola notte concentra un inesauribile repertorio dell’attività umana vista come combinatoria linguistica: “poiché l’ambiente è un sogno, …non è possibile alcun contrasto tra un flusso di coscienza all’interno della mente e la comparsa di altre persone al di fuori di essa” (Northrop Frye, Anatomia della critica). Ed è, in qualche modo, un’operazione ‘conclusiva’ che Joyce fa, e non casualmente dentro l’universo del sogno.                                                                                                
In che misura è possibile un abbinamento sogno-fantascienza? Le generalizzazioni, su un problema del genere, rischiano di essere banalità o stupidità, come una definizione che vedesse nella fantascienza ‘un sogno del futuro’, o, tout court, una ‘letteratura del sogno’. Volendo procedere su questo terreno, sarebbe facile dire che la letteratura è sempre il sogno di qualcosa, che l’universo letterario, anche nelle forme più realistiche, è sempre un sogno della realtà – o che la realtà, forse, sogna la letteratura. E la discussione ci porterebbe lontano, non si sa, a quale livello, con quale frutto. È forse meglio, allora, procedere più modestamente ad una rassegna di alcune delle opere in cui il sogno appare esplicitamente, in fantascienza, come elemento della trama o come meccanismo narrativo; sperando che altri vogliano riprendere, completare, e soprattutto arricchire, questo primo tentativo.                                                                                                                                                   Da dove cominciare, allora, se non da Alfred Bester, questo istrione della parola scritta e parlata, di cui non sai mai se devi deciderti a ‘prenderlo sul serio’ o considerarlo niente più che un simpatico burlone, e che con la sua presenza discreta attraversa tutta la fantascienza degli ultimi trent’anni? In L’uomo disintegrato Ben Reich, furioso e nevrotico capitalista che ha ucciso un suo concorrente e deve sfuggire alle ricerche della polizia condotte con metodi ESP (percezione extrasensoriale), è perseguitato da un sogno ricorrente. In esso campeggia un Uomo senza Volto, che con la sua sola presenza  lo terrorizza, e sfugge ad ogni tentativo di identificazione cosciente. Ben Reich finisce per identificarlo con il suo potente concorrente D’Courtney: gli propone una fusione e, credendola rifiutata per uno stranissimo lapsus (del resto perfettamente noto al lettore), lo uccide. Al termine di una memorabile sequenza, nella quale tutti i riferimenti della realtà esterna, uno ad uno, scompaiono per Reich, egli si trova faccia a faccia con il protagonista dei suoi incubi, che questa volta ha un volto, anzi due: il suo e quello di D’Courtney; il quale nel frattempo, come si è scoperto, non è altro che il padre di Reich. Non ci vuole molto, anche solo da un riassuntino striminzito come questo, per individuare una massiccia presenza di tematiche psicanalitiche, in questo come negli altri lavori di Bester. E in effetti il sogno ritorna, spesso con funzione e valore terapeutico, in altri racconti di Bester: per esempio in 5.271.009, o The Starcomber  (Lo Stellaiolo, in Stella della sera e Robot 4), dove il sogno serve ad un artista confinato in una regressione infantile per raggiungere la maturità; o in Hell is forever  (L’inferno è eterno, in Stella della sera), in cui sogno e morte si fondono. In questi racconti, più che in L’uomo disintegrato, Bester introduce piccoli, ma micidiali elementi di dubbio su quale sia il mondo ‘reale’; il mondo esterno al testo, quello a cui il lettore fa riferimento come ‘mondo reale’, e con cui si identifica – così pare – una parte del mondo del testo, o il mondo del sogno? Ma non sono niente più che dubbi: a dispetto delle apparenze, la narrativa di Bester ha un fondo eminentemente etico, esprime una visione del mondo tipicamente americana, disincantata e scettica, ma ancorata al quotidiano (come tutta ‘americana’ è la psicanalisi che vi si trova): Bester non ha dubbi su quale sia la vera ‘realtà’: il riferimento ad un mondo esterno al testo, che garantisca della risolubilità della contraddizione tra il mondo della veglia 3e quello del sogno, è un presupposto costante.                                                                                                                        
Ed è un presupposto che ritroviamo in due altri autori che, su questa linea, sono andati comunque più avanti di Bester: Zelazny e Ursula Le Guin.                                                                                       
In Signore dei sogni Zelazny vuole deridere l’illusione positivistica e organicistica di poter padroneggiare la malattia mentale con una tecnica. La neuropartecipazione è una tecnica di induzione di realtà illusoria, di ‘sogni’ artificiali nella mente del paziente: questa entra in contatto con la mente dell’analista, il Formatore, tramite una macchina estremamente sofisticata, e il Formatore crea, in questo modo, mondi e scenari adatti a far reagire la mente del paziente nel modo più opportuno per scoprire le origini della nevrosi.                                                                                        
Come spiega Charle Render, Formatore, “la neuropartecipazione è qualitativamente superiore alla psicanalisi, perché produce cambiamenti organici, misurabili”. Ma Render, “fuori-classe ultra equilibrato e con volontà granitica”, soccomberà di fronte ad Eileen Shallot, “una combinazione di alta intelligenza e di debolezza, di determinazione e di vulnerabilità, di sensibilità e di amarezza”; Eileen è un dottore cieco che vuol essere iniziata alla neuropartecipazione, e si rivolge a Render per farsi istruire, finendo a poco a poco per condurre il gioco e intrappolando il Formatore in un mondo di archetipi mitici da cui non potrà più uscire. Una rivincita, se non della psicanalisi di Freud (il cane mutante di Eileen, fin dall’inizio contrario alla cura, si chiama Sigmund), quanto meno della psicologia analitica di Jung. E sul messaggio non è possibile equivocare: non si deve scherzare con la realtà.                                                                                                                                                         
Un’altra delle “lezioni dimostrative sui pericoli dell’onnipotenza”, per dirla con Blish, è La falce dei cieli  di Ursula Le Guin. Qui l’equazione sogno = creazione di realtà agisce in modo ancora più letterale, ma per portare a conclusioni analoghe a quelle di Zelazny. George Orr scopre che i suoi sogni sono ‘efficaci’, hanno cioè il potere di trasformare la realtà. In lui Haber, psichiatra illuminista e messianico, vede una possibilità di realizzare l’utopia. Sotto ipnosi, Orr potrà sognare i più meravigliosi cambiamenti sociali e politici suggeritigli da Haber. Naturalmente, in qualche modo, la ‘realtà’, qui nei panni dei meccanismi interiori di Orr, si vendica, e gli obiettivi più luminosi vengono raggiunti con i mezzi più terribili: la fine della sovrappopolazione  attraverso la peste, la pace perpetua attraverso un’invasione di alieni. Il meccanismo comincia a non funzionare più: “il sogno, creando dove non c’era necessità di creare, era diventato logoro e sottile”, e il mondo rischia di svanire nell’ultimo sogno autistico, questa volta di Haber (la sequenza ricorda da vicino quella, analoga, di L’uomo disintegrato). Forse la realtà non è che un sogno, dice la Le Guin, ma un sogno guidato da regole che è pericoloso infrangere: “Ogni cosa sogna. Il gioco delle forme, dell’esistenza, è il sogno della sostanza. Le rocce fanno un sogno, e la terra cambia… Ma quando la mente diventa cosciente, quando la velocità dell’evoluzione aumenta, allora bisogna andare molto cauti. Cauti, questa è la parola. Occorre imparare la via. Occorre imparare la tecnica, l’arte, i limiti. Una mente cosciente deve fare parte del tutto, intenzionalmente e cautamente, come la roccia inconsciamente fa parte del tutto”.                                                                                                    
L’ispirazione più profonda della narrativa di Ursula Le Guin si conferma quindi, ancora una volta e a dispetto dei riferimenti mistici che a volte adopera, razionalista e morale. Occorre un’altra cultura per poter padroneggiare le forze che si scatenano nel sogno: una cultura, come quella del popolo della foresta (Il mondo della foresta) in cui il “tempo del mondo” e il “tempo del sogno” non siano drasticamente separati, e il sogno degli Uomini serva a dare elementi alle Donne per governare la comunità. L’uomo, come notano Scholes e Rabkin (Fantascienza, Storia, scienza, visione) è colpevole quando lotta per la vita, quando vuole l’immortalità con la creazione di una vita artificiale: “o almeno così ci ha insegnato la nostra mitologia”. La stessa colpa commette quando vuole creare un’altra realtà, quando sogna, insomma: ed è forse anche il peccato originale della fantascienza, ciò che ad ogni costo si deve esorcizzare ribadendo i diritti del reale e della ragione.

(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia Anno IV N. 2 (8) - II Trimestre 1980)

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