mercoledì 6 novembre 2019

Antonio Caronia: La vita come malattia


(Linus luglio 1984)
L’ultimo romanzo di Kurt Vonnegut (Il grande tiratore, Bompiani) ha nel titolo un suono ambiguo che neppure un abile traduttore come Piero Francesco Paolini ha potuto rendere. Il Deadeye Dick dell’originale è infatti, dal nome di un attrezzo marinaresco, un soprannome da marinaio; ma è anche l’epiteto gergale con cui, nel Middle West, si indicava un tiratore particolarmente abile. A Rudy Waltz, farmacista di Midland City nell’Ohio, il soprannome è rimasto appiccicato da quando, all’età di dodici anni, salì sul terrazzo di casa sua con una carabina Springfield, lasciò partire una pallottola e la pallottola incontrò una pacifica signora incinta che faceva le pulizie di casa. Da quel momento il duplice omicida Rudy Waltz è segnato: all’isolamento sprezzante o alla morbosa curiosità dei concittadini egli oppone una fredda chiusura, si dedica senza un moto di ribellione ad accudire maniacalmente i genitori, rovinati dalla causa per danni che è seguita alla “morte accidentale”, si impiega come commesso in un drugstore notturno. E soprattutto diventa un “neutro” cioè uno “abituato a non aspettarsi amore da nessuno, sicuro che quasi ogni cosa desiderabile sia probabilmente collegata a qualche ordigno esplosivo”. Intorno a lui, infatti, la rovina procede metodica: muore il padre, grottesca ma non odiosa figura di falso pittore amico e ammiratore di Hitler, muore la madre corrosa dalla radioattività di un caminetto costruito con materiali di scarto di una centrale atomica, si suicida Celia, la ragazza più bella e più disprezzata della città, perde il posto di direttore della NBC il fratello Felix. Fino a che, un bel giorno, scompaiono tutti gli abitanti di Midland City, per effetto di una bomba a neutroni esplosa forse accidentalmente. Ora Rudy, Felix e il cuoco creolo Hippolyte Paul De Mille che parla sempre al presente, stanno ad Haiti (l’unica nazione al mondo nata da una rivolta di schiavi vittoriosa) da dove Rudy ci racconta la sua storia: e conclude, questo “ammalato di vita”, questo essere dal “soprannome anfibio”, che “i Secoli Bui non sono ancora finiti”. Dopo le prove deludenti di Slapstick e Jailbird (un pezzo da galera), Vonnegut ritorna con un romanzo che possiamo mettere vicino, appena un poco sotto, alle sue cose migliori: Le sirene di Titano, Ghiaccio-nove, Mattatoio 5. Abbandonati gli ordigni fantascientifici che usava negli anni Sessanta, Vonnegut non ha più bisogno di ricorrere agli abitanti del pianeta Tralfamadore per enunciare la sua radicale e disincantata filosofia della vita, ma può esprimerla direttamente, facendola scoprire a Rudy nella sua prima notte in guardina: “Era una negra del Profondo Sud e fu lei a instillarmi l’idea che la nascita è l’aprirsi di uno spioncino e la morte il richiudersi di esso”. “Non ho mica chiesto io, al mio spioncino, di aprirsi”, dice appunto la negra. Certo, con la riduzione della dimensione fantastica e il contemporaneo attenuarsi del riferimento ai grandi avvenimenti sociali come il Vietnam (così presente, per esempio, in Mattatoio 5), Vonnegut corre questa volta il rischio di farsi invischiare nel compianto per la precarietà della condizione umana, o nel vagheggiamento di un’età passata e più felice. Ma c’è sempre un colpo d’ala, una trovata da maestro che ristabilisce i diritti del nichilismo che sa ridere anche su se stesso, come il graffito che Rudy legge sul muro di un gabinetto (e che inevitabilmente perde molto del suo carattere ghignoso nella traduzione): “to be is to do – Socrates/To do is to be – Jean-Paul Sartre/Do be do be do – Frank Sinatra”.

Nessun commento:

Posta un commento