domenica 5 gennaio 2020

Antonio Caronia: Fantascienza a teatro


Linus febbraio 1981

La fantascienza a teatro non la si incontra spesso. Al cinema sì, è un’altra cosa: effetti speciali, prospettive intere di astronavi, galassie, alieni in abbondanza. Il teatro, sembra, è più legato a effetti di verosimiglianza: persone in carne ed ossa, movimenti in tempo reale, il corpo si misura con i suoi limiti effettivi, senza la mediazione della macchina. A sfatare tutti questi luoghi comuni ha provveduto il Teatro dell’Elfo, che dopo l’esperienza di Dracula, ha presentato a Milano nel dicembre scorso Il gioco degli dei: 2763 romanzi e fumetti (non facciamo le pulci sul numero) contaminati con l’Odissea. La storia è semplice: Elio, giornalista e critico teatrale, viene sbalzato in una specie di altra dimensione, dove viene utilizzato in qualità di pedina in una partita giocata da un manipolo di stilizzati e improbabili dei. Come un certo signor Bloom il 16 giugno di un anno all’inizio del secolo in una corposa e onnidigerente Dublino, Elio dovrà percorrere le tappe rituali del viaggio omerico, travestite questa volta con i gadget aerei, strampalati e a prima vista molto meno impegnativi della fantascienza degli anni Sessanta, vestita e disegnata come ci si vestiva e ci si disegnava allora: con il pulito e ossessivo bianco e nero della pop-art. Tutta la critica (quasi tutta senza eccezione) ha voluto vedere in Il gioco degli dei una rivisitazione del passato, la solita storia di una generazione, l’impossibile riconciliazione con i pezzi del proprio io abbandonati nel trapasso dall’adolescenza alla maturità: confortata in questo anche dalle parche dichiarazioni dei facitori dello spettacolo. Ma il dubbio rimane: perché, per mettere in scena la crisi dei trentenni, si ricorre al travestimento della fantascienza, e non, poniamo, dei romanzi di Salgari, del giallo, o di qualunque altro genere parimenti avventuroso? Azzardo un’ipotesi: che la fantascienza in Il gioco degli dei non sia, come si è scritto da varie parti, un pretesto, ma una forma necessaria del gioco, una forma che si imponeva quasi da sola nel momento in cui si sceglieva di abbandonare pretese “profondità” e ci si lasciava andare all’abisso superficiale dell’accadere scenico. Confesso che quello che ho apprezzato di più, in questo spettacolo, non sono state le parti in cui sembra trasparire un senso, quelle che sembrano fare da supporto al “discorso” sulla scissione dell’io, sul tempo della memoria. O meglio, anche in queste scene quello che sembra saltare di più agli occhi è il meccanismo della gag, la combinazione delle forme, la movimentazione della scena, che si offrono al di fuori di ogni “verosimiglianza”, ostentano esse stesse le proprie tecniche di costruzione, rendono trasparente la macchina teatrale: un po come i film di Nichetti, quando il mare di tela viene sollevato e si vede la gente che cammina carponi con le braccia alzate a fare le onde. È uno spettacolo di simulacri, di copie senza originale: lo stesso spettacolo che per prima, forse, ci ha offerto la fantascienza, mettendo sempre più a nudo e raffinando sempre più i propri meccanismi narrativi e le proprie figurazioni, credendo sempre meno a quello che andava raccontando, travolgendo ogni questione di stili e di ideologie per ricongiungersi alla fine, riciclare, digerire e vomitare i “racconti fantastici” più lontani e più diversi dalla fantascienza che ci siano: i miti. Proprio come in Il gioco degli dei: Omero e Sheckley. La fantascienza un pretesto? Suvvia, non siamo seri.

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