Linus maggio 1984
“Dov’era la detective story prima che Poe inspirasse
in essa il soffio vitale?”, si chiedeva nel 1911 sir Arthur Conan Doyle. Una
domanda retorica, naturalmente, che il medico e studioso di spiritismo scozzese
formulava solo per riconoscere al visionario Poe la paternità di un genere, e
per situare il suo Sherlock Holmes in continuità con Auguste Dupin. La linea
Dupin-Holmes viene ora illustrata da un gruppo di semiologi, storici, logici (Il segno dei tre. Homes, Dupin, Peirce.
A cura di U. Eco e Th. A. Sebeok, Bompiani, pp. 314, L. 25.000), e il metodo
dei due investigatori è accostato alle riflessioni filosofiche di Charles
Peirce sulla cosiddetta “abduzione”. Termine un po’ repellente, per la verità,
che indica però un tipo di ragionamento assolutamente rispettabile (la capacità
di formulare congetture) e forse più adatto dei tradizionali modelli induttivo
e deduttivo a rendere conto dell’effettivo procedere della conoscenza umana.
Secondo alcuni autori dei saggi qui raccolti, insomma, il metodo del detective
sarebbe affine addirittura al lavoro dello scienziato, che registra fatti
magari insignificanti agli occhi del senso comune, formula ipotesi (o
congetture) e le sottopone a verifica: Viene ripresa e argomentata in modo
anche vivace una tesi non nuova, che cioè il genere giallo testimoni della
lotta della ragione contro il caos di una realtà disordinata, per dare coerenza
e intelligibilità a un insieme di avvenimenti e dati che, al di fuori di un
intervento umano, non ne possederebbero. Il riferimento del lavoro del medico e
al sapere della medicina come precursore della semiotica è peraltro esplicito
in molti punti del libro (per esempio nel saggio di Sebeok). Ma ogni lettore di
gialli sa che non è sempre così: il detective non ha sempre ragione della
malattia sociale, a volte si limita a esserne un dolente e disincantato
osservatore: Philippe Marlowe vs. Sherlock Holmes. E quando il detective non c’era?
A parziale risposta alla domanda di Conan Doyle ricordata all’inizio (dov’era
la detective story prima di Poe?) esce adesso la riproposta di un racconto di
Hoffmann del 1819 (La signorina Scuderi,
a cura di Maria Paola Arena, ed. Theoria, pp. 92, L. 10.000) che testimonia l’emergere
del genere “giallo” dalla grande corrente del romanzo “nero”, qualche decennio
prima di Poe. La narrazione è costruita secondo i classici dettami del racconto
del mistero, ma senza il ricorso al soprannaturale tipico del “gotico” inglese.
Una strana catena di delitti notturni e furti di gioielli sconvolge la Parigi
del Re Sole. Un innocente viene arrestato. Ma non è l’acume di un
investigatore, solo il caso, a porre fine ai crimini; e non è la forza della
ragione, ma il sentimento e l’umanità di Mademoiselle de Scuderi consentono di
liberare l’innocente. Una novella insolita per Hoffman, perché non fa alcun
ricorso a procedimenti fantastici, ma pienamente hoffmanniana quanto a
tematiche: il germe della follia, l’io diviso tengono in scacco la razionalità
dominante (il tribunale segreto) e solo una quieta figura di outsider (la
signorina Scuderi del titolo) ricompone l’armonia. Per giungere più vicino a
noi, neppure per Fernando Pessoa il mistero è padroneggiabile con la ragione,
Herr Prosit, presidente della Società di Gastronomia di Berlino, sfida i suoi
invitati a indovinare gli ingredienti straordinari della sua Cena molto originale (F. Pessoa, Due racconti del mistero, a cura di
Amina di Munno, pref. di A. Tabucchi, ed. Herodote, pp. 74, L. 7.000). Nessuno
ci riuscirà, e sarà lo stesso protagonista, in un parossismo di furia, a
rivelare l’orribile segreto della cena e a subire la reazione degli invitati
stravolti. “Ogni cosa era possibile, ogni cosa vagamente probabile, ogni cosa
ragionevolmente improbabile, impossibile; tutto ciò forniva un motivo di sospetto,
di dubbio, di disorientamento”. È stato scritto che tutta la letteratura non
sarebbe altro che il racconto, vagamente travisato e irriconoscibile di un
originario senso di colpa di fronte a un delitto originario indicibile e per
metà dimenticato. Ogni enigma non farebbe che alludere a esso. Per l’enigmista
Pessoa, al contrario che per Sherlock Holmes, il mondo è sì una grande foresta
di segni, ma indecifrabili.
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