mercoledì 24 febbraio 2021

Antonio Caronia: La vergogna rimossa


 Linus giugno 1985

“Raccontare storie è per noi un rito di sangue”, dice uno dei personaggi del romanzo La vergogna di Salaman Rushdie. Il lettore, incontrando l’affermazione a pag. 69, quasi non ci fa caso, eppure gli episodi macabri che l’autore dissemina discretamente, qua e là per il libro, dovrebbero metterlo sull’avviso, prepararlo al finale sanguinario e pensoso che l’attende. Invece no, la saga mirabolante delle due famiglie Hyder e Harappa e di tutti gli individui che esse man mano inglobano in questo Pakistan mezzo reale e mezzo fantastico ci scorre addosso, ci avvolge come un pigro ma incontentabile anaconda; e ogni morte, ogni assassinio che incontriamo ci sembra solo un elemento narrativo e non una premonizione della catastrofe imminente. È colpa di Rushdie, naturalmente, di questo suo modo di raccontare apparentemente incongruo e invece così sapiente, pieno di incisi, di descrizioni gustose, di ironia e tolleranza, da cui salta fuo4ri, inaspettata, a tratti, la tragedia. Come quando Raza Hyder, futuro presidente, per difendere l’onore della moglie, sfida Iskander Harappa, futuro segretario del Fronte popolare, ma per non battersi in casa di questi va fuori in giardino e si lega a un paletto e da lì chiama a gran voce il suo rivale. Ma che ci possiamo fare se Iskander si guarda bene dall’accettare la sfida, Se Raza rimane sveglio tutta la notte e al mattino, assonnato e con gli occhi rossi, uccide con un gran pugno il vecchio servo che era andato a riportarlo a casa? Tutta la tensione epica e tragica di poche righe prima si scioglie, e non possiamo che sorridere. Perché questa è la cifra di Rusdhie, indiano che in inglese scrive storie avvincenti come se le raccontasse a voce (ma non c’è nulla di “spontaneo”, come s’è detto, è tutto frutto di un lavoro paziente di costruzione della pagina), e salta avanti e indietro, anticipa fatti che narrerà poi, si intromette nella storia e ci racconta da quale idea era partito e che cosa ha finito per realizzare. Ancora più disperso dal punto di vista della trama e dei personaggi, anche se più breve come lunghezza del precedente I figli della mezzanotte, il nuovo romanzo di Rushdie riscatta quella dispersione con un’idea di fondo più compatta: la vergogna rimossa, nascosta (quella dell’”eroe marginale” Omar Khayyam a cui le sue tre madri la hanno nascosta, ma anche quella del Pakistan che vuole dimenticare a forza il suo passato indiano) genera una violenza bruta, incontenibile, feroce. Quella di Sufya Zinobia e della Bestia che la abita, che porterà Raza e Omar alla morte. Quando ha compiuto il massacro finale Sufya scomparirà, “come se non fosse mai stata altro che una voce, una chimera, la fantasia collettiva di un popolo represso, un sogno nato dalla loro rabbia”. Dalla stessa rabbia nascono forse le storie di Rushdie, di V. S. Naipaul, di Nadine Gordiner, tutti scrittori che usano l’inglese senza che questo sia la loro madre lingua, e per cui la “crisi del romanzo” sembra non essere mai esistita.

Salaman Rushdie, La vergogna, Garzanti, pp. 260, L. 18.000

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