Linus giugno 1985
“Raccontare storie è per noi un rito di sangue”,
dice uno dei personaggi del romanzo La
vergogna di Salaman Rushdie. Il lettore, incontrando l’affermazione a pag.
69, quasi non ci fa caso, eppure gli episodi macabri che l’autore dissemina
discretamente, qua e là per il libro, dovrebbero metterlo sull’avviso,
prepararlo al finale sanguinario e pensoso che l’attende. Invece no, la saga
mirabolante delle due famiglie Hyder e Harappa e di tutti gli individui che
esse man mano inglobano in questo Pakistan mezzo reale e mezzo fantastico ci
scorre addosso, ci avvolge come un pigro ma incontentabile anaconda; e ogni
morte, ogni assassinio che incontriamo ci sembra solo un elemento narrativo e
non una premonizione della catastrofe imminente. È colpa di Rushdie,
naturalmente, di questo suo modo di raccontare apparentemente incongruo e
invece così sapiente, pieno di incisi, di descrizioni gustose, di ironia e
tolleranza, da cui salta fuo4ri, inaspettata, a tratti, la tragedia. Come
quando Raza Hyder, futuro presidente, per difendere l’onore della moglie, sfida
Iskander Harappa, futuro segretario del Fronte popolare, ma per non battersi in
casa di questi va fuori in giardino e si lega a un paletto e da lì chiama a
gran voce il suo rivale. Ma che ci possiamo fare se Iskander si guarda bene
dall’accettare la sfida, Se Raza rimane sveglio tutta la notte e al mattino,
assonnato e con gli occhi rossi, uccide con un gran pugno il vecchio servo che
era andato a riportarlo a casa? Tutta la tensione epica e tragica di poche
righe prima si scioglie, e non possiamo che sorridere. Perché questa è la cifra
di Rusdhie, indiano che in inglese scrive storie avvincenti come se le
raccontasse a voce (ma non c’è nulla di “spontaneo”, come s’è detto, è tutto
frutto di un lavoro paziente di costruzione della pagina), e salta avanti e
indietro, anticipa fatti che narrerà poi, si intromette nella storia e ci
racconta da quale idea era partito e che cosa ha finito per realizzare. Ancora
più disperso dal punto di vista della trama e dei personaggi, anche se più
breve come lunghezza del precedente I
figli della mezzanotte, il nuovo romanzo di Rushdie riscatta quella
dispersione con un’idea di fondo più compatta: la vergogna rimossa, nascosta
(quella dell’”eroe marginale” Omar Khayyam a cui le sue tre madri la hanno
nascosta, ma anche quella del Pakistan che vuole dimenticare a forza il suo
passato indiano) genera una violenza bruta, incontenibile, feroce. Quella di
Sufya Zinobia e della Bestia che la abita, che porterà Raza e Omar alla morte.
Quando ha compiuto il massacro finale Sufya scomparirà, “come se non fosse mai
stata altro che una voce, una chimera, la fantasia collettiva di un popolo
represso, un sogno nato dalla loro rabbia”. Dalla stessa rabbia nascono forse
le storie di Rushdie, di V. S. Naipaul, di Nadine Gordiner, tutti scrittori che
usano l’inglese senza che questo sia la loro madre lingua, e per cui la “crisi
del romanzo” sembra non essere mai esistita.
Salaman Rushdie, La vergogna, Garzanti, pp. 260, L. 18.000
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