Linus
aprile 1984
Nella sua introduzione alla più recente edizione del
romanzo di Orwell che quest’anno celebra una sorta di compleanno/scadenza (1984 Mondadori, pp. XIV-308, L. 16.000)
Umberto Eco argomenta che non tanto di profezia o utopia negativa si tratti,
quanto di storia. Soprattutto in questi ultimi anni ci si è resi conto che
“quel libro, se da un lato parlava di ciò che è già avvenuto, dall’altro, più
che parlare di ciò che sarebbe potuto accadere, parlava di ciò che stava
accadendo”. Si tratta di un’interpretazione non nuova, ma che a me continua a
sembrare convincente. E d’altra parte, in qualche modo, tutte le opere
riconducibili al filone dell’’utopia negativa’, dai Viaggi di Gulliver a Terra! Di
Benni, si caratterizzano proprio per il fatto che, facendo le viste di parlare
del futuro o di paesi immaginari, parlano in realtà del nostro ‘qui e ora’.
Detto questo non si deve però dimenticare che gran parte della presa di questi
libri sul lettore sta proprio nell’effetto di straniamento, nel vero e proprio
brivido che si prova a vedere proiettate le tematiche del ‘qui e ora’ su uno
sfondo che non è quello che noi conosciamo adesso, ma è lontano da noi nel
tempo, nello spazio e a volte anche nella logica. Questo è il modo di operare
della narrativa fantastica di ogni tipo: la costruzione di un universo autonomo
o, come è stato detto di un ‘mondo possibile’. Tanto è vero che la denuncia del
totalitarismo di Orwell è diventata famosa più con 1984 (o magari con La
fattoria degli animali) che con Omaggio
alla Catalogna, narrazione fedele dell’esperienza dell’autore durante la
guerra di Spagna, che affronta ugualmente il tema della critica allo
stalinismo, e con una resa letteraria, a mio parere, superiore a quella di 1984. Ma questo non vuol dire che il
successo di questo libro sia immeritato. Al di là della debolezza della
scrittura, infatti, Orwell ha saputo tradurre la sua ispirazione politica e
morale di fondo nella costruzione di un universo credibile, e non già rispetto
all’attendibilità dell’estrapolazione o alla verosimiglianza della previsione
scientifica, ma rispetto alla coerenza interna di quel mondo. Per costruire un “mondo
possibile” avvincente, che funzioni dal punto di vista narrativo, che tenga
insomma il lettore attaccato alla sedia, non è sufficiente affastellare
particolari curiosi o stravaganti, stravolgere le leggi della fisica, della
sociologia o della scienza politica. Bisogna riuscire a mettere in opera delle
leggi che facciano funzionare i dispositivi fondamentali di quel mondo in modo
credibile e coerente. Ora le due più grandi scuole di costruzione di “mondi
possibili” nella narrativa popolare del nostro secolo sono state, a mio parere,
la fantascienza per così dire “classica” (quella che gli appassionati chiamano “tecnologica”,
fiorita soprattutto negli anni Quaranta: alla Asimov, tanto per intenderci) e
il filone più chiaramente fantastico, quello delle varie terre di mezzo, il cui
rapprenetante insuperato rimane Tolkien. Oggi però l’ortodossia di queste
correnti (cioè la fedeltà più o meno accentuata alle convenzioni e ai modi di
questi due generi, o sottogeneri) mi sembra in declino, e comunque sforna
prodotti sempre più deteriorati. In misura maggiore, devo dire, la prima, e
cioè la fantascienza “classica”. Prendiamo un esempio recente: I costruttori di Ringworld di Larry Niven (Fanucci, pp. 354, Lire
12.500), séguito del più famoso Ringworld
del 1970 che aveva avuto i premi Hugo e Nebula. Grande precisione di
particolari tecnici, alieni di ogni tipo, avvenimenti a iosa, ambienti i più
diversi, il tutto sullo sfondo di un gigantesco mondo artificiale ad anello
grande tre milioni di volte la Terra. Lo sforzo immaginativo non manca, ma la
storia non regge e si trascina stancamente. “Che cos’era un uomo, di fronte a
una creazione artificiale tanto immensa?” riflette Niven con sconvolgente
profondità a p. 75, e decide di rimanere fedele per altre 300 pagine a questa
apprezzabile ma un po’ statica verità. Tutt’altro sapore si avverte davanti al
ciclo del Nuovo Sole, quattro romanzi di Gene Wolfe di cui sono apparsi in
traduzione italiana i primi due, mentre è in preparazione il terzo (L’ombra del torturatore, Nord, L.
8.000; L’artiglio del conciliatore,
Nord, L. 10.000). Gene Wolfe è uno degli autori più interessanti della
fantascienza americana, una curiosa figura
di ingegnere che già negli anni Settanta aveva dimostrato di saper ben giocare
con le regole tradizionali del genere (ma in Italia, per le ragioni che evito
di ripetere per la centesima volta, non si erano finora visti tradotti che due
o tre racconti). Qui si cimenta con il fantasy e con il suo classico
armamentario di situazioni e figure: un mondo dalla struttura produttiva e
sociale di tipo francamente medievale, un giovane eroe che compie il suo
apprendistato di torturatore, una spada (ovviamente), un viaggio e una ricerca.
Ma gli stereotipi appaiono corrosi dall’interno, nella narrazione aleggia un
clima di inquietudine e di ambiguità che produce un fascino diverso dal ritmo
ampio e disteso di tolkien, ma altrettanto intenso. Wolfe controlla con grande
sapienza il suo mondo possibile: sa, come sapeva Orwell, che esso è un fatto
prima di tutto linguistico. E forse sta qui la chiave dell’inquietudine e del
fascino di cui si è detto. Ma ne riparleremo a ciclo concluso.
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