martedì 9 marzo 2021

Antonio Caronia: FS per l'estate


 Linus luglio 1983

Non vorrei essere caduto preda di una sindrome senile, e mettermi a rimpiangere i bei tempi andati, ma mi sembra proprio che la fantascienza degli anni Ottanta stenti a decollare. O forse è proprio vero quello che da tempo andiamo sostenendo (provocatoriamente, dicono alcuni) e cioè che la fantascienza come genere separato stia esalando gli ultimi respiri e che quanto di meglio ha prodotto negli anni passati si stia trasferendo in un nuovo genere di romanzo di massa, fra l'avventuroso e il tecnologico, come il caso di Congo starebbe a testimoniare. Per il momento non insisto: fatto sta che un rapido esame delle novità editoriali degli ultimi mesi conferma l'ipotesi: il confronto fra la nuova produzione e le ristampe e riedizioni va a tutto vantaggio di queste ultime. Ecco dunque una rapida rassegna che può servire da segnalazione e orientamento per le vostre letture estive. Fra i libri tratti da film, che Urania comincia a pubblicare con una certa frequenza, è da segnalare più che Dark Crystal, stucchevole quanto il film (e trattandosi del libro non abbiamo neppure la modesta attrattiva degli effetti speciali), Poltergeist (Urania 940): James Kahn ha tratto dalla sceneggiatura di Spielberg un romanzo breve dal ritmo serrato e notevolmente avvincente. L'ultimo Vance (Miro Hetzel l'investigatore, Nord, L. 4000) è abbastanza deludente, due esili trame gialle fanno da impalcatura alla consueta descrizione di civiltà aliene che è la caratteristica di questo autore. Ma la rappresentazione della cultura tribale dei Gomaz, delle loro guerre, del loro orgoglioso e sdegnoso separatismo, non diventa come in altre opere di vance un elemento del ritmo narrativo: la xenografia qui è un gioco descrittivo autonomo, e gli intrighi che sono alla base delle storie fanno fatica a tenere desta, da soli, l'attenzione del lettore. A prposito di culture aliene, mi sembra più riuscito l'ultimo romanzo breve del ciclo di Dorsai giunto in Italia (Gordon R. Dickson, Il Dorsai perduto, Nord, L. 4000). Gli ingredienti di Dickson (che pure, in questa narrazione marginale rispetto al flusso principale della serie, non si esprime con la stessa forza di Dorsai o di Soldato, non chiedere) sono più umani, lo sfondo alieno più accessorio, ma soprattutto il controllo del linguaggio è più solido, e quando cominciamo a renderci conto che dalle puntigliose descrizioni di ambienti e azioni sembra sempre mancare qualche particolare decisivo, il gioco è fatto: Dickson è riuscito con relativa economia di mezzi a costruire quella particolare atmosfera di malinconia, quel senso dell'isolamento dell'uomo che, pur senza essere decisivo dal punto di vista filosofico, rende riconoscibile il ciclo e conta pure i suoi estimatori. Un altro autore che a volte gioca con le atmosfere melanconiche e un po' crepuscolari è Bob Shaw, che però è più efficace come costruttore di meccanismi narrativi in cui la suspense gioca il ruolo decisivo. Recuperate, se vi riesce, la sua antologia uscita qualche mese fa (Locus-Alfa, Locus-Zeta, Urania n. 937): fra i racconti che vale la pena di leggere, quello che dà il titolo italiano alla raccolta (peraltro, attenzione!, già uscito in uno degli ultimi numeri della rivista di Asimov), e “Anfiteatro”: ci troverete due fra i più begli alieni a sorpresa degli ultimi anni. Chi è affascinato dagli universi paralleli, può leggere invece I mondi dell'impero di Keith Laumer (Nord, L. 12000), avventuroso e rutilante anche se un po' farraginoso; ma non dimentichi naturalmente che l'assoluto capolavoro del sottogenere “universi paralleli” è La svastica sul sole di Philip Dick che l'editrice Nord ha rimesso in circolazione già da qualche tempo. È un libro su cui si è già detto parecchio e spero che sia noto alla maggior parte dei lettori: chi non lo ha letto non può dire di conoscere veramente le possibilità della fantascienza sul piano della decostruzione della realtà e della crisi del soggetto. D'altra parte una buona introduzione alle stesse tematiche è offerta dalla riedizione di un altro romanzo di Dick dei primi anni Sessanta (Noi marziani, Nord, L. 4.000). Leggere o rileggere, le opere di Dick di quel periodo vuol dire rendersi conto, una volta di più, dell'importante lavoro che questo autore ha fatto introducendo nella fantascienza tematiche ed elementi di riflessione sulla crisi della società americana e sul ruolo sociale della tecnica senza mai abbandonare il carattere popolare di quella narrativa (come notava già dieci anni fa Carlo Pagetti nella sua introduzione a Noi marziani, ripubblicata anch'essa). Molto più datato appare invece, a rileggerlo oggi, un romanzo di Norman Spinrad del 1967, arrivato da noi alcuni anni più tardi suscitando un certo scalpore e oggi anch'esso riedito (Il pianeta Sangre, Nord, L. 6000). Enfant terrible della fs americana alla fine degli anni Sessanta, Spinrad partecipò ai movimenti di rinnovamento di quegli anni con una carica di rottura veramente notevole: e questo The man in the jungle (Il pianeta Sangre nella versione italiana) è la prima opera significativa in questo senso. Nella storia di Bart Fraden, avventuriero e politicante di professione che si prefigge lo scopo di abbattere la cupa Confraternita del Dolore per sostituirla alla guida del Pianeta Sangre, Spinrad aveva forse l'ambizione di alludere ad un discorso politico e antropologico che rovesciasse l'aforisma del fine che giustifica i mezzi. Costruendo scientificamente la rivoluzione che dovrà abbattere la crudele oligarchia che domina il pianeta (e le cui pratiche stanno a mezza strada fra quelle dell'inquisizione e le prescrizioni del divino marchese) Fraden si pone in realtà sullo stesso piano dei suoi nemici: sia lui che i suoi collaboratori arrivano a praticare l'antropofogia. E la rivoluzione si trasformerà in un massacro e in un bagno di sangue generale. Riecheggiando in modo piuttosto ingenuo teorie antropologiche che oggi su direbbero sociobiologiche, Spinrad sferzava però efficacemente luoghi comuni sulla bontà della natura umana e svelava “di che lacrime grondi e di che sangue” il fondamento della civiltà. E anche se oggi non proviamo più lo stesso brivido provato dieci anni fa alla prima lettura, di questo continuiamo a essergli grati.


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