venerdì 12 marzo 2021

Antonio Caronia: Video dunque sono

 


Linus giugno 1983

Registro alcuni fatti, alla rinfusa. Alla rassegna di Salsomaggiore, che si tiene alla fine di aprile e raccoglie schiere di appassionati e un po’ esclusive di cinefili, quest’anno furoreggia la produzione video. un paio di settimane prima, a Bologna, un convegno abbastanza rigoroso e tecnico su “L'immagine elettronica”, che si presumeva sarebbe stato frequentato solo (o in gran parte) dagli addetti ai lavori, aveva visto invece un pieno di pubblico “generico”, ben più vasto di quanto gli organizzatori si sarebbero aspettati. “Mister Fantasy”, la trasmissione televisiva che ha fatto della video-music il proprio cavallo di battaglia, risulta essere una delle più seguite fra quelle delle reti nazionali. Propongo due considerazioni, provvisorie ma (suppongo) largamente condivisibili. Primo: le tecniche dell'immagine elettronica, che vengono spesso nominate in vari modi, tutti contenenti la parola “video”, sono al centro di molti dei fenomeni di consumo culturale che riscuotono attualmente maggior successo. Secondo: una tradizionale incomprensione, e a volte una vera ostilità, verso il video da parte dell'altro grande medium dell'immagine, il cinema, sembra stia lasciando il posto a un incontro, a una collaborazione. Merito per ora di alcuni pioneri come Coppola: le grandi case americane seguiranno, se gli incassi saranno tali da convincerle (e le linee di tendenza riguardo a televisione ad alta definizione, trasmissioni via cavo e via satellite, costante aumento della qualità e diminuzione dei costi dell'attrezzatura elettronica, sembrano andare in questa direzione). A giudicare da quanto si sente dire in tutti questi incontri, il confronto/scontro fra la tradizionale immagine chimica (fotografica e cinematografica) e la nuova immagine elettronica, si porta dietro ben altro che un problema tecnico. Mentre all'immagine cinematografica, perlomeno da un po' di tempo a questa parte, nessuno associa prospettive apocalittiche, l'immagine video evoca invece in molti critici preoccupazioni e paure di un controllo sociale totale, a cui la maschera elettronica presta lineamenti ancora più terrificanti, e l'ideologia tecnologica dell'informatica strumenti di asservimento ancora più potenti. Fra poco più di sei mesi, non dimentichiamolo, sarà il 1984, data simbolica della cupa video-dittatura immaginata da Orwell. Eppure crescono le masse radunate attorno ai grandi schermi video, o affollanti le sale quiete e composte dei convegni internazionali, con tanto di interventi tecnici e cuffie per la traduzione simultanea: ci sono giovanissimi, giovani e meno giovani. E molte di quelle facce le abbiamo già viste, in anni più o meno lontani, nei cortei e nelle assemblee. È vero, potrebbero obiettare i nostri ideali critici, il video fornisce proprio l'immagine più adatta per questi anni di ripiegamento e di riflusso: viene consumato in modo distratto, passivo, individualizzato, non consente l'impegno né l'aggregazione; non stupisce che i grandi movimenti collettivi ridotti a masse amorfe e cloroformizzate consumino cose di questo tipo. Come tutti i luoghi comuni, anche questo del “riflusso” registra delle tendenze, ma non sa leggerle altro che attraverso gli occhiali su cui sono depositate le incrostazioni delle proprie abitudini. Ci sono anche opinioni diverse. Vittorio Boarini, durante il convegno di Bologna di cui era appunto uno degli organizzatori nella sua qualità di direttore della Mostra internazionale del cinema libero di Porretta Terme, sosteneva che non era affatto casuale che quel convegno si tenesse in quella città: “È stato proprio il movimento del '77” , diceva, “e in primo luogo la sua componente bolognese, neo-avanguardistica, anarchica e ludica, a porre per la prima volta nella pratica e nella teoria delle 'lotte sociali' i temi dell'immagine, della sua cultura e della sua fruizione. E questa cosiddetta 'spettacolarizzazione' del sociale, questo consumo dell'immagine sempre più massificato ma sempre più individuale sono stati anche uno dei risultati non secondari del movimento.” La paura della tecnica nasconde sempre una sua sopravvalutazione e a volte una certa disinformazione sulle caratteristiche dei media che vediamo tanto minacciosi. Il problema della tecnica contemporanea non è più quello della sua “neutralità”: se possiamo essere tutti d'accordo che nessuna tecnica è “neutrale”, dobbiamo riconoscere che tutte, in qualche modo, sono ambigue. Il video, piccolo o grande (o grandissimo) che sia, non è né amico né nemico. Nemiche o amiche sono le immagini che si muovono negli spazi che noi abitiamo: spazi fisici, sociali, mentali. E ogni movimento, ogni formazione sociale, ogni gruppo di persone (“aggregato” o “disaggregato” che sia) ha sempre vissuto su un repertorio di immagini tradizionali, alcune ne ha distrutte, altre ne ha create. Ci sono delle regolarità (o dei salti) nella produzione di immaginario dei gruppi umani che vanno al di là delle ideologie con cui poi questi gruppi giustificano se stessi o condannano altri gruppi rivali. Da questo punto di vista, anche i grandi cortei o le grandi assemblee, con cui di solito visualizziamo i movimenti sociali degli anno 70, producevano le loro immagini, e le proiettavano, magari sui singoli schermi mentali invece che su un grande schermo fisico. E oggi, come allora, c'è qualcuno che riassume meglio di altri questa immagine e presta alla folla il suo viso, i suoi movimenti, quella voce si combinavano con l'immagine mentale di ciascuno dei manifestanti e producevano altre immagini, per esempio quelle prodotte dal corteo con il suo snodarsi fisico, come un serpente per le vie cittadine. Oggi lo schermo prende il posto del palco, o della cattedra, ma l'immaginario che esso produce non è certo meno collettivo di quello del leader che parla alla sua folla. Certo, le differenze ci sono, eccome: lo schermo, per esempio, produce meno identificazione, meno “transfert” del singolo nella massa, conserva maggiormente l'individualità: lo schermo video, insomma, crea più distanza fra l'immagine e chi ne fruisce. Ma siamo così sicuri che si tratti di una cosa negativa?

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