mercoledì 30 dicembre 2020

Antonio Caronia: Esotiche letture

 


Linus luglio 1985

Amo l’India. Certamente un’India letteraria (quella reale non l’ho mai vista e non so se mai la vedrò), che ho incontrato da bambino nei romanzi prima di Salgari e poi di Kipling, e che deve essermi rimasta dentro a maturare. In anni più recenti mi continua a stupire, con un atteggiamento che so essere ingenuo ma da cui non mi libero, lo scarto fra la grandiosa mitologia induista (che mi hanno aiutato ad esplorare gli splendidi studi di Georges Dumézil) e la presente realtà, la miseria e la fame – che solo le condizioni ancora più tristi dell’Africa hanno cancellato dall’attenzione dei giornali – la tirannia del regime. Dopo aver letto i romanzi pazzi e vorticosi di Salman Rushdie, di cui ho parlato puntualmente su queste pagine, mi ero accostato con qualche diffidenza al voluminoso “Rj Quartet” (quartetto indiano) dell’inglese Paul Scott, di cui compare adesso, tradotto in italiano dall’instancabile Roberta Rambelli, il primo volume, La gemma della corona, The Jewel in the Crown, (Garzanti, pp. 568, L. 15.000), uscito nel 1966 in Inghilterra, dall’anno scorso è anche una miniserie televisiva (14 puntate) di buona fattura, premiatissima nell’isola e all’estero, che anche gli italiani potranno vedere prima o poi, quando una delle reti di Berlusconi deciderà di metterla in programma (visto che è già acquistata). In questo romanzo ponderoso e corale si parla degli avvenimenti dell’agosto 1942 (la sconfitta britannica in Birmania, i primi appelli di Gandhi alla disobbedienza civile) e di come essi furono vissuti nella città di Mayapore. Lo scollamento fra la comunità indiana e quella inglese viene visto rifratto nelle storie di alcuni personaggi, nella loro evoluzione e nei loro incontri obliqui e problematici, con la tecnica ben nota delle testimonianze e dei punti di vista diversi che si succedono man mano a illuminare (o complicare) il quadro. C’è la vecchia insegnante “libera” che si scontra con la realtà brutale dei disordini e della morte, la giovane infermiera bruttina che rimane vittima di una violenza nei giardini del Bibigha, il poliziotto inglese innamorato che ha già scelto come vittima il giovane indiano occidentalizzato che si rifiuta di parlare persino la sua lingua, la saggia e disincantata lady indiana testimone del cambiamenti. Certo Scott non è Rushdie, e neppure Durrell: però mostra di conoscere bene l’India, e per lenta sovrapposizione costruisce un quadro illuminante (anche se non sempre intrigante) dei rapporti fra due civiltà così diverse. Non senza qualche buona arguzia britannica, come questa definizione che degli inglesi dà la vecchia lady indiana: -Siete uno strano popolo. Quando camminate al sole, siete consapevoli della lunghezza o della brevità delle ombre che gettate sul suolo-. Il tema dello scontro fra due culture è anche al centro dei tre racconti di London che Sandro Roffeni ha raccolto e ci presenta col titolo di uno di essi, Il rosso, (Sugarco, pp. 142, L. 8.000). Sono tre storie ambientate nei mari del Sud, scritte da London nell’anno stesso della morte, il 1916. Quella che dà il titolo alla raccolta è il resoconto di una sfida e di una sconfitta: un bianco prostrato dalle malattie equatoriali tenta di penetrare il segreto della lontana divinità a cui gli indigeni di Guadalcanal (Isole Salomone) tributano efferati sacrifici. Mentre la tribù che lo ospita attende ansiosa il momento della sua morte, Bassett riesce a intuire l’origine extraterrestre dell’enorme uovo senziente, il Rosso, che gli indigeni considerano dio, ma non sopravviverà per portare la notizia in Patria. È la sconfitta della razionalità occidentale che non riesce a superare la prova di questa vera e propria discesa agli inferi costellata delle ossa dei sacrificati al Rosso. Di ossa parlano anche gli altri due racconti, ambientati invece nelle isole Hawaii, e indubbiamente più “solari”. Tuttavia anche nell’ultimo racconto, Tibie, che personalmente ho apprezzato di più, si narra di una discesa nella notte, nel passato rappresentato dal luogo segreto dove riposano le ossa degli antenati di un giovane principe hawaiano. La spedizione è descritta magistralmente, con un piede sul pedale dell’orrore e l’altro su quello dell’ironia, fornita dal contrasto fra il giovane principe ormai occidentalizzato e miscredente e il vecchio e tremebondo servo. Ormai alla fine della vita, London è in grado di trattare con inedita leggerezza uno dei suoi temi preferiti, lo scontro della civiltà con le forze della natura e della tradizione.


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