Molto acutamente Alberto Abruzzese, nella prefazione
al libro “Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale” per le
edizioni Meltemi, (1) nel declinare le tre fasi di “approfondimento e
raffinamento della (…) particolare prospettiva politico-culturale” di Antonio
Caronia, assieme all’insegnamento nella scuola e alle lezioni in contesti
accademici, pone la sua laurea in matematica “che gli ha conferito una
specifica competenza nel trattare testi e processi solitamente in mano a altre
discipline.” È una doverosa sottolineatura, ancor più perché si tende
facilmente a dimenticarsene. Certo, che ci fosse una competenza di stampo
scientifico e un forte interesse a coniugare l’immaginario con la scienza era
più che evidente in lui; anche se difettava di quel cipiglio un po’ arido e
freddo che si vorrebbe caratteristica degli uomini di scienza e, in particolare,
di quelli dediti alla matematica, scienza tra le più pure. Ma in realtà, forse,
era proprio questa la matrice che gli permetteva di spingersi più oltre di
tanti altri, nel cogliere il peso determinante che le astrazioni del fervido
immaginario umano (quella capacità di costruire mondi virtuali in cui
sperimentare i sogni più arditi) hanno sulla vita reale e concreta di tutti noi.
E ancora Abruzzese nota, giustamente, nel desiderio di Caronia, celato
nell’invito a dimenticare il Novecento (secolo delle rivoluzioni fallite), la
speranza di una nuova via di liberazione dal potere “finalmente possibile a
ragione della scomparsa del corpo umano dentro un corpo che non soffrisse più
degli inganni della natura spietatamente antropocentrica e della violenza della
forza sovrana che ne ha fatto irreversibile strumento di dominio.” È il tema
del postumano, da sempre centrale per Caronia e che proprio lui tradisce negli
ultimi mesi di vita preferendo dedicarsi a un seminario su “arte e follia” a Macao,
invece che alla stesura di un articolo richiestogli per il numero di Aut Aut
dedicato proprio al postumano. Di quell’articolo non sono rimaste tracce,
nessuna nota o appunto, solo un’entusiasta mail agli amici per condividere la
gioia di questa inaspettata richiesta. È vero quel desiderio, a cui accenna
Abruzzese, desiderio più che umano di andare oltre l’umano ma è vero che
proprio Caronia poteva vantare di averne lucida coscienza, accompagnata da
un’altrettanta lucida autocritica . (2) Cos’altro avrebbe potuto dire, in quel
momento, sul postumano che non avesse già ribadito con forza più volte, e cioè
che non di un superamento del corpo (in una sorta di divenire angelico) si
tratta, ma del finire delle condizioni di un determinato sapere (episteme) e di
“una nuova nascente episteme”. È questo che sta a significare per Antonio Caronia la parola postumano. Una
nuova parola per una vecchia storia che sempre, a più riprese, si è presentata
lungo l’arco della storia evolutiva della nostra specie: la trasformazione dei
dispositivi di formazione di un nuovo sé, quei dispositivi che nell’epoca
appena trascorsa hanno costruito quell’”Io” del soggetto moderno e che in
questa nuova epoca, modificati, ne stanno costruendo uno affatto nuovo.
Cos’altro avrebbe potuto aggiungere in un volume dedicato al postumano se non
uno scontro/incontro con il proprio corpo, carnale, artificiale, immaginato che
sia: e questo ha fatto optando per il silenzio delle parole scritte a favore di
quelle orali, vis-à-vis, con altri umani, altri corpi, come il suo soggetti ad
ammalarsi e a perire, non prima però di aver espresso tutta la loro voglia del
vivere e di gioire. È giusto quindi che questa antologia di scritti inizi con
un testo non scritto, una lezione all’Accademia di Brera nella tarda primavera
del 2010. Per chi considera la biopolitica foucaultiana come un teorema
superato dall’evoluzione odierna degli strumenti tecnologici e della loro
capacità di operare, o meno, sulla viva carne degli individui, questa lezione
sulla nascita della biopolitica, coestensiva a quella dell’uomo artificiale
(robot, androide, cyborg che sia) chiarisce in modo esemplare l’essenza di
questo concetto, così spesso frainteso nonché abusato. La biopolitica è il
punto di snodo in cui la storia umana concepisce l’idea della “modificabilità
della natura” da parte dell’uomo e questo nuovo sapere determina un potere che
necessariamente deve servirsi di nuovi dispositivi capaci di modificare la
natura dell’essere umano stesso. All’artificialità della natura corrisponderà,
d’ora in poi, l’artificializzazione dell’umano: “non ci sono più uomini
naturali una volta che è comparso l’artificio all’orizzonte della specie
umana.” E al potere non basterà più esercitare la pura sovranità o un regime
disciplinare (di addestramento all’obbedienza), occorrerà, per perpetuarsi,
fare quel salto enorme di rendere governabile la vita in tutte le sue forme, da
quella individuale, a quella sociale, a quella immaginale, a quella biologica
fino ai suoi recessi più profondi e intimi: “la biopolitica vuol dire che è
stato reso governabile l’ingovernabile.” Antonio Caronia ha capito che, in
realtà, Foucault non ha fatto altro che parlarci di biopolitica (nonostante che questo termine compaia solo
alla fine del corso del ’76) (3) anche quando si è messo minuziosamente a
raccontarci la storia della sessualità o i processi di soggettivazione della
Grecia antica come del primo cristianesimo. Tutto il suo lavoro tende verso
quell’”irruzione della naturalità della specie umana all’interno dell’ambiente
artificiale” (4) che Caronia si spinge a completare modificandolo in una forma
più consona all’oggi: “l’irruzione della naturalità della specie umana
all’interno dell’ambiente artificiale determina l’artificialità della stessa
natura umana, la trasformazione artificiale della stessa natura umana.”
Schematizzando, credo che Antonio Caronia abbia voluto, tramite Foucault, dirci
che la natura dell’uomo consiste nella sua progressiva artificializzazione e
che per biopolitica si deve intendere quella possibilità di rendere questo
processo governabile, nel suo divenire sempre più, di fatto, ingovernabile. La
questione non è quindi la comparsa di qualcosa di nuovo che chiameremo
biopolitica, come se non fosse mai esistita una politica che in un qualche modo
abbia cercato di governare la nostra vita, ma piuttosto della sua inedita e
inaudita potenza che oggi ha assunto grazie al nuovo sapere-potere che le ha
conferito la fusione tra scienza e tecnica, con progressione esponenziale in
questa fine e inizio di nuovo millennio. Questo libro, curato sapientemente da
Loretta Borrelli e Fabio Malagnini, suddiviso in tre parti, sostanzialmente
riguardanti il cyborg, la fantascienza e il postumano, in realtà ci accompagna in
un percorso che oltre a volerci far “dimenticare il Novecento” vuole anche
farci uscire dalle secche di quel linguaggio a lui ancora strettamente legato.
Né il cyborg, né il postumano, né la fantascienza tutta (di basso o alto
livello che sia) possono pensare di essere traghettati nel nuovo
secolo/millennio senza essere depurati da quelle croste di residui utopici o
prometeici peculiari di un tempo irrimediabilmente finito. “La fantascienza (non
si può non essere d’accordo con Ballard) è stata l’immaginario portante del XX
secolo (…) la fantascienza sarà ancora l’immaginario portante del nuovo secolo?
La risposta è più probabilmente no che sì. La fantascienza cadrà vittima (forse
è già caduta vittima) di quel processo che ha saputo così bene illustrare, e
nei casi migliori interpretare, quello della caduta del cielo dell’immaginario
sulla terra del reale.” (5) Quando la fantascienza si cala nella realtà fino ad
annullare, di fatto, quella distanza indispensabile, “quel minimo scarto fra
progettualità e realizzazione” si rende impossibile l’esistere di quella zona
franca in cui poter immaginare i possibili potenziali, tutto rimane schiacciato
entro i confini di quel contingente sempre più dato come unico possibile. La
parola fantascienza deve quindi, per noi del nuovo millennio, dirci qualcosa di
scandalosamente nuovo. Qualcosa che “non ha più niente a che vedere con il
futuro della modernità, che era una proiezione del presente del soggetto, un luogo
da costruire con pazienza, sagacia e tenacia, nei tempi lunghi del lavoro e
della progettualità” ma, invece, con un futuro che assomiglia “piuttosto a uno
spasmo del presente, a un’anticipazione frenetica di processi che non si
distendono più dal passato al presente e oltre, ma vivono sin dall’inizio
perennemente proiettati in avanti.” (6) E allora la fantascienza oggi deve
essere una parola nuova che come quella che dice cyborg o postumano deve
definire un concetto piuttosto che un’essenza. E questi concetti, questi modi
nuovi di pensare e di pensarci, maturano in una fase storica di violenta
accelerazione tecnologica in cui è, e sarà, sempre più necessario fare i conti
non con ciò che è dato, certo, a cui si può fare affidamento, ma a ciò che è
mutevole, incerto, non definito. Perché una realtà che non può più contare su
un futuro da immaginare, programmare e realizzare rende obsoleti quei confini
tra dato e immaginato che vivevano ancora entro
quella forzatura ossimorica che stava alla base della parola
fantascienza. Alla fine questa ottima scelta antologica, io credo, ci ponga di
fronte a quello che è il nodo centrale per riuscire a sopravvivere all’utopia
capitalista (unica uscita vincente dal secolo appena trascorso), quello di
considerare il tempo in cui stiamo
vivendo in sostanziale continuità o discontinuità con quello passato. Cioè se
il futuro è realmente scomparso, se la cultura non può più essere considerata
elemento estraneo alla natura, se lo spazio del virtuale non è più uno spazio
immaginato ma è esperito e vissuto nella nostra quotidianità in quanto ne
facciamo ormai completamente parte e i tanti altri se che Caronia pone ci
costringono a una presa di posizione, che per quanto riguarda lui non può che
essere che quella di assumersi la responsabilità di divenire postumani e quindi
in sostanziale discontinuità con ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Una
nuova difficile, ancorché inquietante e insieme esaltante, costruzione di un
nuovo ibrido, ennesima variante di una (come Caronia amava descrivere la nostra
storia di specie) tra le più sofisticate sperimentazioni della natura. Non è
detto che debba andare per forza bene, e l’avveramento dei più arditi sogni del
capitalismo non possono non prefigurare l’esito infausto di quest’avventura. Per
farcela non avremo bisogno di nuove utopie ma di una storia fatta di parole
nuove che ci permettano di costruire “tattiche di resistenza, nella forma di
‘slittamenti temporali’, quelle fughe nel futuro e nel passato di cui ci
parlava Philip K. Dick. (…) Per non farci trovare mai lì dove si pensa che
dovremmo essere per fare la nostra parte di agenti valorizzatori, di
colonizzatori del tempo per conto terzi”. (7) E poi? E poi è una domanda che
appartiene a una storia finita, chiusa. A noi serve una storia aperta dal
finale non scontato, perché noi, nonostante i sogni del capitale che ci
vorrebbe tutti morti, siamo ancora vivi.
Nota 1: Antonio Caronia, Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale, a cura di Loretta borrelli e Fabio Malagnini, Culture Radicali, Meltemi editore, 2020.
Nota 2: Nel ricordo per Enrico Livraghi: “E capivo
che lui mi etichettava spietatamente ma con una certa tolleranza tra gli
‘antropologhi ottimisti del cyberspazio’ (…) e riluttavo allora, mentre capii
poi che nell’essenziale aveva ragione.” http://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2015/06/antonio-caronia-per-enrico-livraghi-da.html
Nota 3: Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli 1998
Nota 4: M. Foucault, Sicurezza Territorio popolazione, Feltrinelli 2005
Nota 5: A. Caronia, L’insostenibile
naturalità della tecnica, 1999
Nota 6: A. Caronia,
Digital Time, 2008
Nota 7: idem
Pubblicato su La Bottega del Barbieri Qui (18 agosto 2020)
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Luca Giudici in Quaderni D'Altri Tempi Qui (30 ottobre 2020)
Francesco Monico in Che Fare Qui (4 novembre 2020)
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