di
Antonio Tursi
Ultima modifica il Mercoledì, 15 Gennaio 2014 10:35
Ad un anno
dalla scomparsa di Antonio Caronia, per continuare a immaginare mondi a venire
A
dodici mesi dalla morte di Antonio Caronia, il convegno in sua memoria su
“Fantascienza, sociologia dell'avvenire?” si terrà il 28 gennaio a Roma e il 7
febbraio a Cosenza. In preparazione del doppio appuntamento, pubblichiamo un
articolo di Antonio Tursi uscito sulla rivista “Outlet. Per una critica
dell’ideologia italiana”, nel numero dedicato all'Ingovernabilità.
Nell’Italia berlusconiana, da cui sognavamo di essere usciti ma in cui
siamo forse sempre immersi, si è palesato nell’ultimo periodo un’articolazione
di due miti apparentemente opposti, un’articolazione che forse non era
impossibile prevedere ma di cui nessuno voleva e poteva (vuole e può) farsi
carico. Da un lato, il mito del divertimento assoluto, di una società dello
spettacolo che si è fatta direttamente potere e addirittura chiede di essere
potere costituente (Berlusconi si è detto disponibile a presiedere una
commissione bicamerale e bipartisan per la riforma dello Stato). Dall’altro, il
mito della governance, della responsabilità di fare un governo anche al di là
della politica (il governo tecnico) e della dialettica politica (il governo
delle larghe intese). Un manipolato principio di piacere che si lega ad un
presunto principio di realtà.
Perché era inevitabile questa articolazione tra miti apparentemente
opposti? Perché si è condensato negli ultimi tempi questo mito della
governance? Quali vie di fuga si danno in questo contesto?
Sicuramente la linea genealogica che ha portato dal potere pastorale
finalizzato alla amministrazione e alla salvezza delle anime al governo degli
uomini, dei loro corpi e dei loro comportamenti, offre una chiave di lettura
decisiva: la gloria splendente e necessaria di Dio si sarebbe tradotta in
magnifica e altrettanto necessaria tecnologia del “governo”, attraverso la
debordiana “società dello spettacolo”. Ma, oltre alle interpretazioni
filosofiche (di Foucault e di Agamben), può essere rivelatrice anche una
lettura profonda delle dinamiche dell’immaginario. Una lettura come quella
proposta da Antonio Caronia.
Caronia è stato un precursore nello studio della fantascienza, di quella
sociologia dell’avvenire che ormai in tanti praticano. Dall’esperienza di
“Un’ambigua utopia”, collettivo e rivista tra fantascienza, ribellione e
radicalità, ai volumi su “Il cyborg” e “Il corpo virtuale”, Caronia ha voluto e
saputo leggere, in anni lontani, spostamenti dell’immaginario che segnalavano
mutamenti sociali e pratiche politiche che solo ora vengono trascritti nei
saggi accademici.
Era una specie di rabdomante dell’immaginario: attraverso l’analisi
accurata di autori come Dick e Ballard, osservava la realtà dal parabrezza e
non dallo specchietto retrovisore, riuscendo a cogliere quel superamento di
confini tra natura e cultura, umano e macchinico, realtà e science fiction che
caratterizza il nostro vissuto quotidiano. Forse i due più importanti
insegnamenti che emergono dal suo peculiare metodo di indagine riguardano la
necessità di andare oltre gli irrigidimenti disciplinari (gli specialismi) e di
cogliere la profondità del superficiale (che è sempre definito tale da
qualcuno). Qui viene in mente un lavoro denso come “Il dramma barocco tedesco”
di Walter Benjamin. Uno scavo sconfinato in un “genere” letterario, in una
letteratura anche minore che rivelava però cambiamenti paradigmatici nella
concezione moderna del potere.
E proprio al corpo a corpo con il potere, Caronia non è mai sfuggito. Sia
nella riflessione teorica che nel diretto impegno politico. Dalla sua militanza
trotskista alla recente occupazione del palazzo della Borsa valori di Milano.
Una posizione decisa la sua, difficilmente conciliabile con una visione più
istituzionale dell’agire politico. Una posizione che, nei suoi testi e nei suoi
seminari, invitava a riconoscere nell’immaginario non un campo di lotta
politica ma il campo della lotta politica, quello sul quale agire per alterare
i rapporti di forza vigenti.
L’esplorazione di Caronia tendeva a mostrare come la società dello
spettacolo, mentre offriva margini di resistenza spesso trascurati e non
praticati, poneva in essere tecnologie volte a esercitare il controllo sociale,
o meglio orientate alla costituzione stessa del sociale, che nulla lasciavano
all’improvvisazione e allo spontaneismo. Insomma, la richiesta pressante di
divertimento comportava anche (e nel caso di Berlusconi soprattutto) una
necessità di incanalare il corpo sociale verso rigidi meccanismi di governo e
consenso. Ecco, se avessimo saputo leggere l’immaginario e nello specifico la
letteratura di fantascienza come ha saputo fare Caronia, avremmo potuto
prevedere che il mito del di-vertimento non portava ad altro che al mito della
governabilità. Poi ci sono volute le controfigure della scena politica attuale
perché la saldatura di mostrasse in pieno. Ma lungo gli anni qualche indizio
c’era stato: il grigio tecnocrate Monti era stato una scoperta del gigione
cavaliere Berlusconi. Bisognava attendere l’affondamento della sinistra
(l’auto-affondamento) perché Berlusconi potesse togliersi la maschera spettacolare
e mostrarsi nel suo vero volto: un amministratore della politica. Purtroppo ci
si accorge tardi che la dimensione propria di questa politica è quella
economica. Una dimensione che però non riesce più a esprime nessuna autorità ma
solo una pratica tecnico-burocratica di governo. Perché, nel frattempo, lo
stesso immaginario ha contribuito a dislocare la mente sociale su un’altra
dimensione.
Una dimensione del tutto ingovernabile attraverso i due miti speculari e
ormai legati insieme che si spendono del tempo presente. Tra queste due
dimensioni, da un lato, quella tracciata dal congiungersi del divertimento e
della governance e, dall’altro, quella del tutto ingovernabile di una mente
sociale sempre più articolata ed eterogenea, sarà inevitabile il conflitto
prossimo venturo. E anche su questo Caronia ci aveva avvertito, segnalando quei
margini di resistenza che sono assolutamente da riscoprire.
Il collasso del futuro.
Antonio Caronia, la fantascienza e la dittatura del presente
Pubblicato su febbraio 9, 2014 da emanueleboccianti
Eravamo in
pochi, il 28 gennaio scorso, nella sala della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università
La Sapienza. Così pochi che riempivamo solo le prime due file dell’aula. Ci
siamo stretti intorno alla cattedra per rendere l’ambiente più confidenziale,
tanto che l’uso del microfono non era più necessario. Abbiamo ascoltato i
relatori ricordare un personaggio importante della scena culturale italiana
degli anni Settanta e fin quando è morto, appena più di un anno fa: Antonio Caronia.
Personalità
complicata e affascinante, ricca di sfaccettature anche abrasive, di Caronia si
è parlato come di una scheggia vagante, politicamente impegnato, anarchico,
profondamente antielitario e libertario. Uno che faceva sempre quello che gli
pareva. Il suo avvicinamento alla fantascienza, come traduttore, giornalista e
acuto saggista, uno dei più importanti in Italia, è stato un movimento che
partiva proprio da lì, dal suo impegno politico. Quella sera, in quell’aula
universitaria, un pugno di editori, critici, professori universitari, aveva
scelto di ricordarlo senza alcuna velleità nostalgica o apologetica, come
spesso capita coi morti. Lo si è fatto ragionando assieme su una questione
fondamentale, che Caronia, tra i primi, aveva contribuito a sollevare; un
interrogativo solo apparentemente riservato agli appassionati del genere: la
fantascienza rappresenta ancora un modo efficace per indagare sulla società?
Secondo
Caronia questo genere letterario stava morendo e sarebbe morto, e forse infatti
è andata proprio così, almeno a giudicare dagli scaffali delle librerie. Ogni
volta che entro in un negozio di libri, essendo stato un vorace fruitore
di science fiction per i primi vent’anni della mia
vita, un occhio al settore lo lancio sempre, e sempre me ne allontano con una
stilla di rammarico. Tolte infatti le immancabili operae omniae dei maestri del tempo che furono,
tra tuttiBradbury, Asimov, Dick, per citare solo qualche nome, è abbastanza
difficile trovare nomi freschi o titoli di rilievo, che testimonino la vitalità
di un genere che, tanto per fare un paragone provocatorio, non regge più il
confronto con il fantasy nelle sue numerose articolazioni.
Sono in
molti a ritenere che il fenomeno del cyberpunk sia stato l’interessante canto
del cigno di un tipo di narrativa che Fruttero e Lucentini battezzarono con un
accattivante neologismo, allora spezzato al suo interno da un trattino: la
“fanta-scienza”. E magari quei molti hanno ragione. Lo stesso Caronia ci
spiegava con lungimiranza notevole perché ciò sarebbe successo. Dal suo punto
di vista questo modo di raccontare storie conteneva in sé il motivo della sua prossima
estinzione, un po’ come i replicanti di Blade Runner, che avevano inscritta nei
geni la propria data di scadenza. Il meccanismo di funzionamento di questo
genere letterario si basa sulla proiezione di alcuni elementi di un presente
storicamente determinato su un grande schermo virtuale, che è il futuro.
Attraverso tale dispositivo di ingrandimento e rifrazione si compie un processo
di metaforizzazione del presente che ha anche una funzione critica, di messa in
discussione. Ma c’era un problema: questo schermo virtuale non solo era di
dimensioni finite, era pure destinato a ridursi progressivamente, fino a
scomparire. Si trattava dello scarto tra reale e immaginario: era in questo
interstizio che si proiettavano le ombre fantastiche eppure verosimili inventate
dagli scrittori. Decennio dopo decennio, tale interstizio diventava più esiguo,
perché, si disse, man mano che il progresso tecnologico accelerava,
l’immaginario faceva sempre più fatica a differenziarsi dal reale. Arrivati con
gli anni Novanta nell’era della simulazione totale e dell’onnipotente virtuale,
l’immaginario – o meglio l’immaginabile – è diventato semplicemente un
sottoprodotto del virtuale, qualcosa che perdeva la sua caratteristica più
importante, quel sense of wonder che aveva fino
ad allora costituito il principale propellente alla lettura. Per dirla con
James G. Ballard, di cui Caronia era attento esegeta, accadeva
che il futuro stava collassando, schiacciandosi su un presente indefinito e
indefinibile, i cui contorni si espandevano in tempo reale, fino
a inglobare – obliterandola – qualsiasi intenzione di metaforizzazione. Tutto è
divenuto infine presente, un presente sciovinista che revoca ogni diritto di
critica.
Non sembra
un caso che, come uno dei relatori aveva illustrato quella sera, le storie che
parlano dei viaggi nel tempo, topos fondante
del genere, mostrano un peculiare andamento nel corso dei decenni. Fino agli
anni Ottanta il numero di viaggi nel futuro era andato aumentando, poi aveva
subito una radicale e progressiva contrazione, a vantaggio delle incursioni nel
passato. Né, da questo punto di vista, sembra parimenti un caso l’esplosione di
titoli di fantasy, genere dall’anima intrinsecamente conservatrice. È come se
avessimo perso la capacità di immaginare il futuro. Come se questo fosse
finito.
Stacco. Due
mesi prima. Un altro convegno, proprio nella stessa aula universitaria. Titolo:
«Quando tutto era possibile». Che poi è il titolo del
libro che si presentava quella sera, nella sua nuova edizione. Un volume
collettivo che tentava un’analisi non esaustiva di un ventennio, ossia gli anni
Sessanta e Settanta. Periodo in cui – malgrado la successiva damnatio memoriae – in Italia, e non solo, la
produzione di cultura e di intrattenimento era stata eccezionalmente feconda in
molti ambiti, dalla narrativa al cinema al fumetto, per esempio. La domanda di
quella sera era molto semplice: perché allora sì, e poi dopo il deserto o
quasi? Una delle risposte che il libro proponeva era stata la consapevolezza
del conflitto sociale.
Scrive
Douglas Mortimer, pseudonimo dietro il quale si “nascondono” gli autori dei
contributi di quel libro:
«Sembra proprio della tradizione
italiana far nascere sul terreno del conflitto interno, dello scontro sociale
violento tra fazioni, il dinamismo creativo della sua cultura».
In altri
termini, era stato il carattere eminentemente politico di quel ventennio fin
troppo turbolento a determinare il nascere di un’intellettualità “di massa”,
nel senso di diffusa e distribuita, non polarizzata nelle frange elitarie come
capiterà sempre di più in seguito. Un humus irripetibile che aveva germogliato
ovunque, negli horror anarchici di Freda e Bava come nel western di Leone o di
Tex Willer.
Dopo, il
“riflusso”, come è stato chiamato. Le ustioni provocate da quel conflitto
avevano provocato una sedazione massiva e per una complicata sinergia di cause
il conflitto prese a sparire, se non dal corpo sociale, dalla sua epidermide.
Iniziano i griffati anni Ottanta e un intero lessico, un equipaggiamento
intellettuale per osservare criticamente la realtà diventa improvvisamente
obsoleto. I collettivi come quello in cui militava Caronia,Un’ambigua utopia, cessano di vivere o perdono il loro
slancio vitale. La politica scompare dai licei e dalle università, e la
sinistra istituzionale entra nella fase più evidente della sua mutazione, che
la spersonalizza sempre di più e ne permette il progressivo riassorbimento
entro gli orizzonti dell’agenda politica della destra. Perché, in realtà, sotto
la pelle il conflitto non aveva smesso di lavorare surrettiziamente. Quando
cominciamo a svegliarci – a fatica – da questo coma indotto, all’inizio del
nuovo millennio, ci rendiamo conto che ci è stata raccontata una vera e propria
balla, e non a fin di bene. Sorpresa: la guerra di classe non s’è mai
arrestata, ma anzi, senza più nemmeno l’argine delle controculture e dei
movimenti antagonisti, è diventataglobale. Come disse
Warren Buffett: «C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe
ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo».
Se questa
chiave di lettura fosse vera, non sarebbe semplicemente la fantascienza, ultima
arrivata, a esser morta. Ma si tratterebbe di un assassinio, compiuto da più
mani. Quelle di chi aveva tutto da guadagnare dal suo decesso, e quelle di chi
con l’ignavia o l’ingenuità aveva lasciato che tale crimine venisse perpetrato.
Il perché diventa improvvisamente più semplice da afferrare. Essa era, al pari
di altre attività, uno strumento cognitivo utilissimo al servizio della critica
sociale, un’arma bianca capace, dato il suo carattere popolare, di arrivare
potenzialmente a chiunque. Cosa perfettamente intuita da gente come Antonio
Caronia, che, vale la pena ripeterlo, alla cosiddetta “narrativa
d’anticipazione” era arrivato dall’attivismo politico, lui che aveva una
spiccata inclinazione per la speculazione filosofica e che leggeva i vari Ballarde Sturgeon con
gli occhi allenati sui testi di Baudrillard e
di Foucault.
Se davvero
le cose stessero così, allora quel testimone può essere ancora raccolto e un
morto può tornare a vivere. Aggirare le proibizioni del reale è dopotutto parte
della divertente ginnastica concettuale a cui ci ha sempre abituato la science
fiction. Ma ogni resurrezione, in una storia che funzioni, deve avvenire
attraverso un rinnovamento che sia interessante ed efficace. Servono nuovi
attori sulla scena culturale che tornino, in modi inediti e imprevedibili, ad
allargare quello spazio tra immaginario e reale, per allentare la morsa
dispotica di quest’ultimo. Per dirci che il futuro non è finito, e che
immaginarlo criticamente è ancora un potente mezzo per mettere in discussione
il presente.
«Che tutta la cultura di massa, e la narrativa popolare in
particolare, ci parli di noi, dei rapporti sociali, di potere, che ci
attraversano, anche quando fa le viste di parlarci d’altro, è comunemente
accettato. Che la fantascienza ce ne parli in modo più ricco e articolato, che,
in quanto genere, rechi in sé la potenzialità di un discorso più preciso e
aderente alla nostra condizione, è paradossalmente da collegarsi con il suo
essere svincolata da convenzioni narrative di rispecchiamento realistico della
realtà».
Antonio Caronia, “Incarnazioni
dell’immaginario”, in: Nei labirinti della
fantascienza. Guida critica a cura del collettivo “Un’ambigua utopia”,
Feltrinelli, Milano 1979.
3 pensieri su “Il collasso del
futuro. Antonio Caronia, la fantascienza e la dittatura del presente”
L’ha ribloggato su A costo zero.
Complice, probabilmente, il mio
semi-analfabetismo tecnologico non sono riuscito a lasciare un commento sul
sito che annunciava il convegno alla Sapienza in memoria di Antonio Caronia. Mi
sembra utile cogliere l’occasione per proporlo qui aggiungendo alcune
considerazioni. E’ vero che si può dire che lo spazio tra reale e immaginario
si va vieppiù riducendo man mano che la tecnologia avanza, fino ad avvicinarsi
pericolosamente a quel grado zero in cui non è più possibile distinguere l’uno
dall’altro. Un’analisi siffatta si trova spesso in Caronia come in altri
studiosi, ma è anche vero che Caronia, come si può verificare ascoltando le
lezioni che teneva ai suoi studenti di Brera, ha spiegato a chiare lettere che
il reale è già di per se immaginario; non perché non esista un reale in quanto
tale, ma perché esso è per noi inconoscibile e come nella caverna platonica noi
ne vediamo solo le ombre proiettate. E’ già la nostra condizione vera quella di
vivere immersi nell’immaginario. E a rincarare la dose Caronia aggiungeva però
che l’errore di Platone stava nel pensare che comunque una via alla verità era
possibile. Il discorso di Caronia è un discorso complesso, pieno di
sfaccettature; quando lo si cita occorre tenere presente che quello che dice
sta dentro un percorso obbligatoriamente pieno di contraddizioni, ripensamenti,
smentite e riconferme precarie, ma nient’affatto nebuloso. Il percorrere un
territorio ignoto, privo di sicurezze e garanzie di sorta obbliga chi lo voglia
seguire a fare i conti con quel tipo di spaesamento e di vertigine che si
proverebbe a trovarsi all’improvviso nel negozio della pecora di Alice, dove
ogni datità certa è messa in forse. Spero che un giorno i vari intellettuali di
professione a lui vicini organizzino un convegno non solamente alla sua memoria
ma allo studio della sua perigliosa avventura intellettuale, politica,
culturale, militante, che poi erano una cosa sola. Aggiungo lo scritto
preesistente e ringrazio per l’eventuale pubblicazione.
Giuliano Spagnul
“La fantascienza è ancora in grado di immaginare il futuro? E ha saputo immaginare il nostro presente?” Fa piacere una doppia iniziativa alla memoria di Antonio Caronia. Fa comunque piacere. Anche se occorre, se vogliamo dire la verità, quel dire la verità a cui Antonio si appellava nell’ultima sua compiuta fatica del seminario su Foucault alla NABA di Milano, iniziare a parlare franco, a chiarire la sua posizione scomoda di intellettuale di tipo deleuziano in osmosi col Movimento, o per dirla paradossalmente, organico al Movimento. A quel Movimento a cui lui aveva scelto e saputo rapportarsi senza costruirsi quei rigidi steccati, da intellettuale più canonicamente accademico, che lo avrebbero potuto mettere al riparo dagli inevitabili sommovimenti, flussi e riflussi, del movimento stesso. Un rapporto che rende quindi l’opera di Antonio estremamente preziosa ma anche estremamente a rischio di ritrovarsi confinata in un limbo, ricordata con nostalgia, passibile di essere raccolta, conservata, ma sostanzialmente resa inerte, perché non più criticata, usata, manipolata ma solo tuttalpiù citata. I ragazzi del Cantiere di Milano, con cui Antonio ha fatto varie iniziative, anche rocambolesche come l’invasione della Borsa insieme a Bifo, hanno cialtronescamente ben imparato da lui e abusando, falsificando hanno costruito una breve intervista postuma, approfittando del periodo di semi-vita di Antonio mentre era ricoverato al Moratorium “Diletti Fratelli” di Zurigo.http://www.cantiere.org/art-04258/intervista-ad-antonio-caronia-dal-moratorium-di-ubik.html Che si potrebbe dire ora su Antonio e la fantascienza, e sul futuro poi, che Antonio non abbia già detto in varie occasioni, prendendosi gli strali dei vari fan dell’una e dei riluttanti orfani dell’altro…? Il futuro, tema principale del collettivo di “Un’ambigua utopia” nato negli anni ‘70 proprio per occuparsi di quel genere letterario che come narrativa d’anticipazione si proietta nel futuro, è il nodo più scottante del nostro difficile presente. Ma al di là della discussa morte della fantascienza con il cyber punk degli anni’80, ancora con Antonio potremmo chiederci quale ruolo abbia avuto la fantascienza stessa nella distruzione dell’idea di futuro. Siamo così sicuri che la fantascienza (in tutte le sue forme, non solo letteraria) non abbia contribuito, nell’avvicinarci il futuro, alla sua messa in mora? Non il futuro si trova nella fantascienza, né tanto meno il nostro asfittico presente, ma bensì una mole interminabile di immondizia, refusi, aborti che hanno contribuito a creare il nostro immaginario pervasivo e coinvolgente in cui siamo sempre più immersi. Importantissimo il lavoro di scavo di questi materiali, ma se vogliamo parlare di futuro, di quello che ci attende, allora dobbiamo rivolgerci piuttosto a tutti quegli autori tanto amati da Antonio come Gadda, Musil, Joyce… e perché no, a quel Philip K. Dick, che non ha mai scritto una riga di fantascienza ma si è servito di questa, parassitariamente ingoiandola e rivomitandola riconvertita in materia filosofica o, come avrebbe detto Gunther Anders, di filosofia grossolana. E infine, diciamolo, non credo che il mondo della fantascienza debba poi mettersi in lutto per Antonio Caronia, che in fondo non c’è nulla di male nel tirare un sospiro di sollievo quando viene a mancare un guastatore di tal fatta, un provocatore che in tutta la sua attività non ha mai pensato, come ha scritto lui stesso, di “destabilizzare il fandom, le riviste di fs o l’editoria di fs” ma piuttosto di lasciare “che marcissero nel loro brodo.”
Giuliano Spagnul
“La fantascienza è ancora in grado di immaginare il futuro? E ha saputo immaginare il nostro presente?” Fa piacere una doppia iniziativa alla memoria di Antonio Caronia. Fa comunque piacere. Anche se occorre, se vogliamo dire la verità, quel dire la verità a cui Antonio si appellava nell’ultima sua compiuta fatica del seminario su Foucault alla NABA di Milano, iniziare a parlare franco, a chiarire la sua posizione scomoda di intellettuale di tipo deleuziano in osmosi col Movimento, o per dirla paradossalmente, organico al Movimento. A quel Movimento a cui lui aveva scelto e saputo rapportarsi senza costruirsi quei rigidi steccati, da intellettuale più canonicamente accademico, che lo avrebbero potuto mettere al riparo dagli inevitabili sommovimenti, flussi e riflussi, del movimento stesso. Un rapporto che rende quindi l’opera di Antonio estremamente preziosa ma anche estremamente a rischio di ritrovarsi confinata in un limbo, ricordata con nostalgia, passibile di essere raccolta, conservata, ma sostanzialmente resa inerte, perché non più criticata, usata, manipolata ma solo tuttalpiù citata. I ragazzi del Cantiere di Milano, con cui Antonio ha fatto varie iniziative, anche rocambolesche come l’invasione della Borsa insieme a Bifo, hanno cialtronescamente ben imparato da lui e abusando, falsificando hanno costruito una breve intervista postuma, approfittando del periodo di semi-vita di Antonio mentre era ricoverato al Moratorium “Diletti Fratelli” di Zurigo.http://www.cantiere.org/art-04258/intervista-ad-antonio-caronia-dal-moratorium-di-ubik.html Che si potrebbe dire ora su Antonio e la fantascienza, e sul futuro poi, che Antonio non abbia già detto in varie occasioni, prendendosi gli strali dei vari fan dell’una e dei riluttanti orfani dell’altro…? Il futuro, tema principale del collettivo di “Un’ambigua utopia” nato negli anni ‘70 proprio per occuparsi di quel genere letterario che come narrativa d’anticipazione si proietta nel futuro, è il nodo più scottante del nostro difficile presente. Ma al di là della discussa morte della fantascienza con il cyber punk degli anni’80, ancora con Antonio potremmo chiederci quale ruolo abbia avuto la fantascienza stessa nella distruzione dell’idea di futuro. Siamo così sicuri che la fantascienza (in tutte le sue forme, non solo letteraria) non abbia contribuito, nell’avvicinarci il futuro, alla sua messa in mora? Non il futuro si trova nella fantascienza, né tanto meno il nostro asfittico presente, ma bensì una mole interminabile di immondizia, refusi, aborti che hanno contribuito a creare il nostro immaginario pervasivo e coinvolgente in cui siamo sempre più immersi. Importantissimo il lavoro di scavo di questi materiali, ma se vogliamo parlare di futuro, di quello che ci attende, allora dobbiamo rivolgerci piuttosto a tutti quegli autori tanto amati da Antonio come Gadda, Musil, Joyce… e perché no, a quel Philip K. Dick, che non ha mai scritto una riga di fantascienza ma si è servito di questa, parassitariamente ingoiandola e rivomitandola riconvertita in materia filosofica o, come avrebbe detto Gunther Anders, di filosofia grossolana. E infine, diciamolo, non credo che il mondo della fantascienza debba poi mettersi in lutto per Antonio Caronia, che in fondo non c’è nulla di male nel tirare un sospiro di sollievo quando viene a mancare un guastatore di tal fatta, un provocatore che in tutta la sua attività non ha mai pensato, come ha scritto lui stesso, di “destabilizzare il fandom, le riviste di fs o l’editoria di fs” ma piuttosto di lasciare “che marcissero nel loro brodo.”
http://www.boxofficemojo.com/ io la Sci Fi la vedo
più viva che mai. Certo è diventata una scusa per mangiare Pop Corn… ma non ha
importanza, ha vinto su tutto. Muove bilioni di dollari … ne fa altrettanti e
guida persino la costruzione molto pericolosa di un immaginario purtroppo
connesso con il comparto bellico…viviamo nella Sci Fi. Antonio mi manca ogni
giorno che scrivo o penso o cerco di trovare il migliore dei miei pensieri.
Clarkèvivo.blogspot.it
Morire di realtà
Vengo da un
seminario svoltosi alla facoltà di lettere e filosofia dell'università La
Sapienza di Roma dal titolo "La fantascienza, sociologia
dell'avvenire?" dedicato ad Antonio Caronia dove c'erano ospiti illustri
come Domenico Gallo e Salvatore Proietti, e sono tornato a casa piuttosto
angosciato. Tra chi diceva che la fantascienza è morta, chi affermava che
stava morendo e chi invece diceva che ha esaurito il suo compito, mi sono
domandato per quale motivo io continui a leggere libri di fantascienza e per
quale motivo mi appassioni nelle letture dei classici degli anni cinquanta o
addirittura di inizio secolo scorso o persino dell'800 (vado matto per La
macchina del tempo di H. G. Wells). Premetto che sono nato alla fine
degli anni '80 quando, a quanto mi sembra di capire, la fantascienza era ormai
al tramonto della sua gloria, e aggiungo che l'ho iniziata a leggere quando
andavo alla scuola media, nell'anno 2000. Premetto inoltre che questo dubbio
fanta-esistenziale mi brulica dentro da un po' di tempo, non soltanto dopo il
seminario di ieri.
Dal
seminario è uscito fuori che, mentre la fantascienza è in crisi, vuoi perché è
stata superata (o smentita) dalla realtà, vuoi perché ha plasmato la realtà al
punto che non si distingue più da essa, il fantasy non ha mai venduto così
tanto. Stiamo parlando ovviamente della letteratura, perché per quanto riguarda
il cinema la situazione è completamente diversa in quanto nel cinema è
rappresentata solo una parte infinitesimale del fantasy e della
fantascienza.
Ma veniamo
alla fatidica domanda. Perché leggere ancora fantascienza? Ora, comunque la si
pensi, è evidente che ognuno avrà motivi diversi. C'è chi legge science fiction
come un modo per interpretare la realtà da un punto di vista strettamente
sociologico, coi piedi ben saldi sulla terra, e c'è invece chi la legge per
estraniarsi dalla vita, per avere un attimo di svago, una tregua dalla routine
quotidiana, ma in tal caso sarebbe meglio il fantasy. Già, perché in fondo la
fantascienza, soprattutto quella moderna, ti fa estraniare dalla realtà ma poi
te la fa tornare addosso violentemente come un pugno faccia. Il fantasy invece
rappresenta una fuga, o se vogliamo un divertimento, senza il rischio di
rovinarci la giornata. E il futuro non viene determinato certo dai libri di
fantascienza ma dalle azioni che gli uomini compiono concretamente nel presente
della realtà propriamente detta. Quindi, un motivo per cui varrebbe ancora la
pena di leggere fantascienza, soprattutto quella con risvolti sociologici,
sarebbe quello di utilizzarla come motore per azioni concrete di determinazione
del futuro. Su una cosa, infatti, ha ragione la science fiction: a partire da
un dato presente, abbiamo davanti a noi una serie di futuri possibili, alcuni
dei quali atroci ed innominabili. Quale di essi verrà realizzato dipenderà
dalle nostre azioni vere a proprie. Ad ogni effetto corrisponde una causa. E la
causa siamo noi. Qui, adesso, non su Marte o su Proxima Centauri.
Il guaio (o
uno di essi) della fantascienza potrebbe essere dovuto al fatto che il suddetto
genere letterario non ha saputo mantenere le sue promesse umanistiche,
mantenendo invece le sue profezie distopiche, trasformandosi da letteratura del
possibile a letteratura del peggior futuro possibile. Resta
oggi, forse, una forte amarezza per il futuro e magari la consapevolezza che,
mentre possiamo sballarci viaggiando su astronavi che nella vita reale non
potrebbero mai superare la velocità della luce né compiere balzi
nell'iperspazio né avere intelligenze artificiali uguali o superiori a noi,
alla fine, malgrado le meraviglie e le utopie di cui possiamo riempirci la
testa per una vita intera, finiremo drammaticamente, inesorabilmente, per
morire di realtà.
Jeff Leboffe
Reazioni:
|
1.
Interessante.
A me sembra che la fantascienza continui a sfornare storie belle e appassionanti, seppure alcuni classici FS risentono pesantemente del passare nel tempo (talvolta, sono scritti maluccio, non fosse altro che perché si rivolgevano a un pubblico più popolare. Talvolta dipingono un futuro troppo simile al passato, per essere di facile lettura).
In ogni caso, ho sempre pensato alla fantascienza come a un genere talmente ampio da includere testi di puro intrattenimento fino a testi densissimi e impegnatissimi. Che la colpa dell'allontanamento dalla letteratura fantascientifica sia che quella cinematografica, sempre più piena di azione, esplosioni e intrattenimento fine a sè stesso, dia l'idea di un genere per ragazzini?
A me sembra che la fantascienza continui a sfornare storie belle e appassionanti, seppure alcuni classici FS risentono pesantemente del passare nel tempo (talvolta, sono scritti maluccio, non fosse altro che perché si rivolgevano a un pubblico più popolare. Talvolta dipingono un futuro troppo simile al passato, per essere di facile lettura).
In ogni caso, ho sempre pensato alla fantascienza come a un genere talmente ampio da includere testi di puro intrattenimento fino a testi densissimi e impegnatissimi. Che la colpa dell'allontanamento dalla letteratura fantascientifica sia che quella cinematografica, sempre più piena di azione, esplosioni e intrattenimento fine a sè stesso, dia l'idea di un genere per ragazzini?