(Linus
settembre 1981)
Quanto bisogna prenderla sul serio, questa
fantascienza, e quanto riderci sopra? Fate bene a diffidare di domande di
questo tipo, perché la stessa cosa si può domandare (retoricamente) della
letteratura in generale. Se ci siamo permessi di porla, è proprio perché
crediamo che la fantascienza sia quasi l’unico modo possibile di scrivere oggi,
come abbiamo sostenuto in sedi più o meno serie di questa. E anche perché da
poche settimane si trova in libreria un testo singolarmente in sintonia con la
domanda in questione: Il labirinto
magico di Philip J. Farmer (ed. Nord) che altro non è se non la attesissima
conclusione del suo famoso ‘ciclo del fiume’, uno dei pochi titoli degni di
nota in un anno fantascientifico abbastanza deludente, insieme magari con
l’antologia, Il mondo di P. J. Farmer,
edito sempre dalla Nord. Farmer è un autore che, se vi azzardate a dargli tanta
corda così, e mostrate di prendere sul serio quello che dice, non ve lo
togliete più di torno: e rischiate di fare la fine del signor Pergameno,
prefatore di entrambi i libri citati, il quale, preso dalla lodevole intenzione
di ‘nobilitare’ la fantascienza e di dimostrare il suo ‘valore filosofico’,
vaga non molto a suo agio fra mito e antropologia per riproporre la visione, un
po’ consunta del Farmer “oppositore della morale convenzionale”, “dotato di
spirito vivace e dissacrante”, e via banalizzando. Il fatto è che Farmer ci
porta continuamente fuori strada. Prendete per esempio questa frase, da La voce del sonar nell’appendice vermiforme
(nella già citata antologia): “La vita non è un racconto di fantascienza, dove
tutto viene spiegato all fine in modo essenziale e stucchevole”. Guardatevi dal
prenderla alla lettera: Farmer l’ha messa lì per suggerirci una visione del
rapporto tra vita e arte, forse, ma se pensate al contesto in cui è inserita,
vi accorgete che essa fa parte di un racconto di fantascienza in cui alla fine
non viene spiegato nulla, se non un’ipotesi – in apparenza stravagante,
probabilmente sostenibile quanto altre, - sul segreto ultimo della vita. La
stessa cosa accade per questo famoso ‘ciclo del fiume’, che Il labirinto magico conclude in modo
degno e, si potrebbe azzardare, geniale. Il disegno dell’opera è noto ai
lettori dei tre precedenti volumi: tutta l’umanità, dai primi pitecantropi giù
giù fino al 2000 e rotti d.C., si risveglia dalla morte su un pianeta percorso
ad anello da un fiume; i più inquieti tentano di scoprire il segreto di questa
resurrezione collettiva, e scoprono che una razza misteriosa, gli Etici, in
possesso di una tecnologia raffinatissima, sono in grado di resuscitare
qualunque persona catturandone il wathan,
che è una sorta di versione elettromagnetica dell’anima, e duplicandone il
corpo all’infinito. Ma a quale scopo? Quest’ultimo volume scioglie enigmi e
interrogativi posti nei tre volumi precedenti, soprattutto nel terzo densissimo
Il grande disegno. Sarebbe facile,
anche qui, interpretare il tutto come la rappresentazione di una gigantesca
ricerca sul significato ultimo della vita e della morte (e infatti anche in
questo caso, Pergameno c’è cascato). Ma questo come sempre, è solo l’involucro:
nessuno può pensare che Farmer creda veramente a pasticci sul wathan, la registrazione della
personalità, e via dicendo. Questa è la forma, avvincente perché giocata sul
ritmo della accelerazione e decelerazione degli eventi avventurosi, di una
‘narrazione’ sul corpo e sul suo statuto: naturalità o artificialità? Ecco il
nostro corpo, dice Farmer, può benissimo essere una creazione artificiale e la
storia può ripetersi all’infinito, in infiniti modelli e con infinite
variazioni. Proprio perché Farmer, come dicono sensatamente Fabozzi e Fucile in
un loro articolo su Alfabeta di
questi giorni, è il Borges della letteratura popolare, cioè esibisce la stessa
libidine classificatoria, lo stesso gioco di specchi tra i vari modelli di
finzione, ma con un riferimento ai libri e alle opere del passato molto più ‘da
consumatore’ dell’argentino, tutti i temi mitologici e linguistici necessari
allo sviluppo di questo discorso sul corpo artificiale vengono qui mediati
dalla tecnologia e dalle convenzioni del genere fantascientifico. Per la stessa
ragione non vi racconteremo gli scioglimenti degli enigmi di questo gigantesco
universo di simulazione che è il mondo
del fiume (la suspense ha i suoi diritti). Vi diremo solo che il vero nume
tutelare di questo ciclo, in ombra ma presente nei libri precedenti e sfolgorante
nella kermesse finale di quest’ultimo, è un reverendo/logico/fotografo inglese
della seconda metà dell’Ottocento: Charles L. Dogson, più noto a noi come Lewis
Carroll. E, se ci pensate bene, non poteva essere altrimenti.