Editoriale n. 1 nuova serie Un'Ambigua Utopia 1979
di Antonio Caronia
La mutazione è in corso. Ognuno di noi c’è immerso
fino al collo o invischiato fino ai neuroni, se preferite, perché è dello
spazio interno che, anche, si parla. Non abbiamo ancora modo, così, in mezzo al
guado, di voltarci indietro, valutare la strada percorsa, e neppure di
apprezzare quanto disti l’altra riva. Anzi, se vogliamo dirlo da dentro le
nostre angosce, non sappiamo neppure se altra riva vi sia. Forse siamo
destinati a tramutarci, per un po’ di tempo, in animali acquatici. Che importa?
Le apprensioni per il futuro (chi ne ha), e comunque le insicurezze di un
cammino troppo poco noto e – ne siamo sicuri – troppo pieno di insidie, si
mischiano in noi con una specie di euforia e di esaltazione, che è la veste che
assume la consapevolezza della fine di un’esperienza, della rottura che – ci
siamo accorti – ci accompagna ormai da più di qualche mese.
È certamente solo un caso che la trasformazione di
questa nostra rivista, a cui state assistendo, coincida approssimativamente con
l’inizio di una coscienza più larga, in molti di coloro che sono stati
impegnati nei movimenti degli ultimi anni, della mutazione. Ma è un caso a cui
ci piace abbandonarci, per un po’: e non rinunciamo alla tentazione di
inscrivere il mutamento di UN’AMBIGUA UTOPIA sotto il segno di questa
mutazione. La mutazione è tale (talmente radicale e profonda, si vuol dire) che
dobbiamo correre il rischio di scrivere ormai le frasi senza soggetto, a tal
punto l’emergente si è rituffato sotto terra, il visibile si è sottratto alla
vista, lo slogan risuonante si è affievolito (e, quando suona ancora, suona
osceno e ripugnante, se non è stravolto dal ghigno dell’irrisione). Ma tant’è:
qualche incongruenza sintattica non è certo un prezzo più pesante da pagare per
capire un po’ meglio che cosa siamo diventati. E, se il “noi” che useremo avrà
il vizio di essere indeterminato, ognuno lo potrà riempire col referente che
vorrà: potrà anche tirarsene fuori, da questo “noi”: riesumatori di cadaveri
(che, come si sa, sono amici/nemici dei becchini) ce n’è sempre, e forse di più
ce n’è nei periodi di restaurazione.
Fine di un’esperienza, rottura, dicevamo. La
generazione del ’68 sta consumando, irreversibilmente, l’esperienza della Politica.
Tattiche, strategie, rapporto con le istituzioni,
teorie dell’avanguardia e pratiche di partito si sono lentamente svelate per
quello che erano. L’ideologia era più di un velo, era cortina spessa e pesante,
ma la borghesia nazionale/internazionale/multinazionale ha fatto il suo lavoro,
rivoluzionario (oggi come nel 1848): ha rimosso la cortina, lenta, paziente:
ritrovando il suo equilibrio (dinamico, certamente, mai statico: si rassicurino
i talmudisti del marxismo) ci ha fatto vedere, nella “strategia
rivoluzionaria”, gli stessi meccanismi, speculari e quasi sempre ridotti a
dimensioni risibili, della sua
strategia. Il rimosso di due, tre, dieci anni di militanza ritorna a galla,
provoca crisi salutari e crisi distruttive, disimpegni lieti ed esaltanti e
disimpegni cupi e frustranti, nuovi tuffi nella militanza e riscoperte
letterarie, reclutamenti per le chiese buddiste e per i gruppi armati. Per
rapire Moro e per fare uscire un nuovo quotidiano di opposizione ci vogliono i
soldi, certamente, ma anche un discreto numero di sostenitori: bastano pochi, è
vero, ma non tanto pochi da impedire di illudersi che siano una “base sociale”.
L’indifferenza sociale, l’accettazione del dominio quotidiano travestito da
rappresentazione oggettiva, l’adesione al copione dello Spettacolo in cui ormai
tutti (borghesi e proletari, conservatori e rivoluzionari, poliziotti e
terroristi, Andreotti e Mimmo Pinto, per non parlare della Castellina) hanno un
ruolo: su tutto questo (che forse è germanizzazione, e forse non lo è) si fonda
la stabilità nuova del regime nascente democratico pluralistico e partecipato
della borghesia italiana. E anche lo stato atomico, quando verrà, non vestirà
più forse i panni dell’arbitrio odioso ma necessario, agli occhi dei più, ma
quelli dell’impersonale oggettività.
Ma allora siamo sconfitti? Se l’unico terreno che
conoscevamo, anzi no, di cui abbiamo tanto faticato per impadronirci, quello
della Politica, si è mutato sotto i nostri occhi in una palude impraticabile,
che faremo? Che faremo se il terreno che per qualche mese abbiamo intravisto dentro/dietro
la pratica dei compagni di Bologna e di Roma si è anch’esso richiuso (così
sembra)? Non fatela tanto lunga – ci dicono insieme coloro che vogliono
ripercorrere, liberato dalle immondizie più visibili, il sentiero delle
esperienze di partito, e i “nuovi manager” delle imprese di servizi addette a
gestire i bisogni dei nuovi soggetti – perché volete caricare la vostra rivista
(bella/brutta, interessante/noiosa) e il vostro progetto in genere
(realizzabile/irrealizzabile, nuovo/vecchio) di tanti significati? Parlate di
fantascienza, parlatene come volete; ma non rischiate anche voi di riesumare
cadaveri, volendo a tutti i costi rifilarci i ridicoli parti delle riflessioni
sulle vostre esperienze?
Be’, non ingombriamo di troppi cadaveri una via che
è già abbastanza stretta. Dire che la “politica rivoluzionaria” è morta non
significa che è morta ogni possibilità di liberazione nelle società di
capitalismo decadente.
Se accettassimo puramente e semplicemente di
occupare un pezzo di mercato, non si capisce perché non dovremmo accettare di
definire anche il valore della nostra vita in questi termini. Forse non c’è una
mutazione in corso, ce n’è più d’una; nel senso che una parte della nostra
generazione (delle nostre generazioni) ha accettato, sta accettando, la sua
parte nello Spettacolo. Ma noi siamo mutanti in altro modo: la nostra
estraneità a questa società non è in discussione, è forse più forte e profonda
di quanto fosse prima: la nostra alterità non è in vendita. Stiamo con chi non
si identifica né con lo Stato né con la Società Civile, e se oggi l’esistenza
di costoro, di questi strati, è sotterranea e clandestina, si svolge in un
luogo che non ha niente a che spartire con la rappresentazione che imperversa
(e quindi neppure con la lotta truccata tra Stato e Terrorismo), allora noi
viviamo in questo luogo.
In un luogo come questo il “noi” che abbiamo usato
finora può, deve perdere la sua asessualità: nel nostro progetto ci dovrà
essere posto anche, se non soprattutto, per un “noi” sessuale, tragicamente e
felicemente, un “noi” femminile/maschile, bisessuale. Perché il nostro è un
progetto più, non meno, ambizioso di prima: è quello della liberazione, da
tutte le oppressioni, da quelle esterne non meno che da quelle interne,
introiettate, che ci portano per esempio a difendere istintivamente il
“femminile” o il “maschile” predominante in ciascuno di noi. Se per molte
compagne rifiuto della politica ha significato anche rifiuto di una militanza
femminista acritica, sloganistica e contrattuale, questo non significa certo né
che esse rinneghino la propria storia, né che credano oggi in un’”integrazione”
che non sarebbe altro che normalizzazione. La differenza esiste, esiste un modo
diverso di “sentire” la vita.
Forse per questo è così importante lo sforzo di tante
compagne di comunicare il loro femminile, di accettare il loro maschile, per
battersi perché nessuna diversità resti, all’interno di ognuno di noi,
assorbita, appiattita, esorcizzata, ma al contrario che venga accettata,
compresa, amata. “L’unico pensiero rivoluzionario è quello che sa invertire all’infinito, e non in un solo senso,
l’alto e il basso del corpo individuale come del corpo sociale… L’unico
pensiero rivoluzionario è quello amoroso, cioè capace di viaggiare attraverso tutto ciò che il dualismo occidentale ci ha
sempre rappresentato come inconciliabile, fra l’altro l’idea di maschile e
femminile” (A. Le Brun, Mollate tutto.
Facciamola finita con il femminismo, Edizioni del sole nero, 1978).
A questa condizione, con questo progetto (e con tutta
la modestia delle nostre forze e del nostro punto di vista, che ci mette al
riparo da qualsiasi tentazione di “egemonia” di alcunché) vogliamo provare ad
utilizzare anche gli spazi di mercato che sono aperti, vogliamo provare a
gestire la piccola fetta di potere che la produzione di carta stampata
assicura, per contribuire a diffondere (sul terreno della scrittura e
possibilmente di una pratica ad essa collegata) alcuni frammenti di linguaggio
differente. UN’AMBIGUA UTOPIA vuole diventare sempre di più una tribuna delle
diversità, dentro quel percorso sotterraneo di produzione di rivolte parziali,
di ridefinizione di linguaggi e di comportamenti che è l’unica speranza per la
rifondazione di un nuovo soggetto che, liberando se stesso, liberi tutta l’umanità.