venerdì 31 marzo 2017

Antonio Caronia: Un'Ambigua Utopia - Luogo comune - ottobre 1978 (3^ parte)

con Lino Aldani - gennaio 1979

(Sintesi della discussione nel collettivo milanese di Un’Ambigua Utopia)
(Progetto per una nuova serie della rivista)
3^ e ultima parte

8. E passiamo, detto questo, alle trasformazioni di tipo organizzativo e finanziario che si rendono necessarie per realizzare questo progetto.                                                                                                  I) Tiratura, veste grafica, periodicità, diffusione.                                                                                  La rivista oggi tira 2.000 copie, e ne vende (dati del n°2; quelli del n°3 non li abbiamo ancora, ma non dovrebbero essere diversi) circa 1.700. La diffusione è affidata ai Punti Rossi,5 che dichiarano di non poterne assorbire, al di fuori di Milano, oltre il migliaio. Avete visto però che nel n°4 la lista dei punti di vendita è decisamente aumentata, e questo è un buon segno.                                               Se dovessimo quantificare tutto il discorso sullo “spazio” fatto prima, potremmo dire (a titolo puramente indicativo) che la potenzialità di mercato di UN’AMBIGUA UTOPIA rinnovata e migliorata si aggira intorno alle 10.000 copie. Questo quindi è l’obiettivo che possiamo fissarci nel corso del 1979, da raggiungersi quanto prima (ma naturalmente non potremo tirare 10.000 copie fin dal n°5: bisognerà aumentare gradatamente la tiratura per due/tre numeri). Dovremo evidentemente avere una periodicità fissa. L’optimum per riviste di questo tipo è evidentemente quella mensile, ma anche qui non è detto che ci si arrivi subito. Non abbiamo perciò ancora stabilito se partire come bimestrale per arrivare al mensile, o rischiare subito il mensile. Per quanto riguarda la diffusione, è chiaro che la priorità va all’allargamento e al consolidamento della vendita in libreria. Siamo già in contatto con un’altra distributrice (anch’essa legata alla sinistra), la NDE, ma studieremo forse altre soluzioni. Con una tiratura sull’ordine delle 10.000 copie, la distribuzione nazionale in edicola è problematica, ma ci sono altre due possibilità: la distribuzione nelle edicole delle stazioni (che è un circuito a parte) e nelle edicole di alcune grandi città, da scegliere (è possibile tramite distributori locali). La veste grafica sarà cambiata (formato ridotto, colonne giustificate, ecc.: stiamo pensando ad un fo4rmato 21 x 29,7 con copertina cartonata, ecc.: è ovvio che i costi di tipografia aumentano): non si può evidentemente affrontare una distribuzione nazionale con la veste, sia pure simpatica, che abbiamo adesso. C’è anche un discorso sulla pubblicità, che qua non facciamo.                         II) Redazione                                                                                                                                              Tutto questo discorso, soprattutto quello sulla periodicità, non regge se la redazione della rivista è affidata, come è stata finora, al collettivo nella sua interezza. Già negli ultimi mesi, prima per la questione della festa poi per quella dell’uscita del n°4, la discussione vera e propria in collettivo si è rarefatta, anche se le riunioni si sono infittite, ed è ripresa poi soltanto quando è stato sollevato tutto l’insieme di questioni trattate in questo testo. Il collettivo poi si è notevolmente allargato dai primi tempi, e ha comunque bisogno di suoi tempi di discussione, di maturazione collettiva su certi temi. Se la rivista deve uscire ogni mese (o ogni due mesi), le sue scadenze non possono forzare i tempi del collettivo, né questi ultimi possono mettere in forse le scadenze della rivista. La misura che si impone è perciò quella della sostituzione di una redazione, all’interno del collettivo, più ristretta. Questa redazione si deve occupare di tutti i problemi relativi alla fattura della rivista, sulla base delle indicazioni generali fornite dal collettivo. A questo spettano le scelte generali relative all’equilibrio dei vari temi nella rivista, a questioni particolari da trattare, ai contenuti dell’editoriale e di alcuni articoli di maggior peso. Sulla base di queste indicazioni la redazione prepara il menabò, richiede contributi ai vari compagni, e trova articoli, dentro e fuori il collettivo, cura la grafica, le rubriche, ecc. La rivista può e deve continuare, dunque, a ricevere l’apporto di tutti (se possibile) i compagni del collettivo, ma nell’ambito di un lavoro organizzato dalla redazione; la quale, a sua volta, non dovrà trovarsi sulle spalle tutto il lavoro di scrittura e traduzione per la rivista, ma dovrà piuttosto funzionare come organizzatrice del lavoro per gli altri. È chiaro però che nella redazione dovranno entrare compagni disposti comunque a fornire più lavoro degli altri compagni del collettivo per la rivista. In una ipotesi del genere è anche chiaro che la redazione dovrà avere un locale, autonomo, per la redazione, che finora è di fatto frazionata nelle case di più compagni.                                                 Una volta operata questa separazione, il collettivo avrà più possibilità di recuperare quella dimensione di discussione (ma, se si vuole, anche di pratica) che soprattutto negli ultimi tempi gli è mancata. La vita del collettivo non dovrebbe esaurirsi infatti nel dare le indicazioni generali per la rivista. I compagni che hanno da proporre tesi specifiche (sono proposte già emerse nelle ultime riunioni) potranno farlo senza più essere castrati da interminabili e frammentate discussioni organizzative e di dettaglio. Il collettivo avrà così la possibilità di diventare veramente un luogo di approfondimento e di discussione a partire dalle esigenze di tutti. Va da sé, è ovvio, che un lavoro del genere sarà utile anche per la rivista; ma con tempi suoi, con ritmi autonomi.
9. Le questioni finanziarie e gli obiettivi immediati                                                                                     Per tutto questo, è inutile dirlo, occorrono dei soldi. Abbiamo discusso se partire dopo aver raccolto la somma iniziale che ci garantisse un certo respiro (diciamo, due numeri della rivista), o se seguire un modello, si potrebbe dire, più “dinamico”, cioè partire con una somma iniziale inferiore, che consenta di mantenere un compagno per un periodo limitato, trovare la sede della redazione, e contemporaneamente avviare il lavoro di ricerca di fondi ulteriori. Una somma che ci darebbe delle garanzie si aggirerebbe intorno ai 20 milioni. Era impensabile trovarli in 15 giorni, mentre prevaleva la preoccupazione di non perdere tempo, di non partire troppo tardi. Compagni interessati a questo progetto, disposti anche a metterci dei soldi, secondo noi se ne possono trovare. Ma per trovarli occorre tempo, e soprattutto cominciare ad offrire loro delle garanzie che qualcosa si muove, che qualcosa sta già cominciando. Per questo abbiamo optato per la seconda soluzione: abbiamo deciso di trovare, fra noi, nel collettivo (direttamente o tramite conoscenze, per mezzo di prestiti amichevoli) una somma minima di 4 milioni (meglio se sono 5 o 6) che ci consenta di: a) “assumere” a tempo pieno un compagno per tre mesi (300.000 al mese); b) trovare un locale per la redazione; c) finanziare qualche attività, come il seminario (v. dopo) cicli di film, ecc. Novembre e dicembre sarebbero così dedicati a trovare altri finanziamenti e ad organizzare il lavoro redazionale per consentire di fare uscire il primo numero della nuova serie di UN’AMBIGUA UTOPIA a gennaio dell’anno prossimo. Se la cosa marcia, è del tutto prevedibile che il compagno “a tempo pieno” andrà mantenuto. Comunque, la forma giuridica migliore per gestire tutta la cosa è probabilmente quella della cooperativa, formata da tutti i compagni che hanno messo o trovato i soldi e da quelli che, pur non avendo contribuito, sono indispensabili a “garantire” (nel senso di impegnarsi a coprire se le cose andassero male). I posti di lavoro potrebbero essere più di uno (ma andrebbero comunque decisi in cooperativa) se le attività cosiddette “collaterali”, come i cicli di film, i dibattiti e anche (come sembra possibile negli ultimi giorni tramite una fortunata occasione) l’apertura di una libreria, andassero in porto. Va da sé che il valore di queste attività “collaterali” non è solo finanziario.                                                                                                                             Il fulcro del lavoro per novembre e dicembre, dal punto di vista dell’apparizione esterna, sarà da un lato la proposta di seminario, dall’altro il lancio dell’iniziativa sulla narrativa; questa seconda proposta deve ancora essere discussa nei dettagli. L’idea del seminario, invece, nata da una discussione di alcuni di noi con Miglieruolo6 alla fine della festa, a settembre, è stata già discussa in collettivo, e si attende solo la stesura definitiva del documento di introduzione e i particolari organizzativi. Si tratta di una riunione di discussione a carattere nazionale, che dovrebbe essere centrata sui seguenti temi:                                                                                                                        _ critica della fantascienza come settore della cultura di massa (montaggio dei meccanismi, decodificazione, ecc., v. sopra)                                                                                                                   _ crisi della razionalità scientifica, “intelligenza tecnico-scientifica” e temi connessi;                                                _ stratificazioni e caratteristiche del “nuovo pubblico” della fantascienza, fantascienza e movimento, e quindi le caratteristiche della nuova serie di UN’AMBIGUA UTOPIA.                                      Il seminario potrebbe aver luogo alla fine di novembre/inizio dicembre (quasi sicuramente a Milano).7

Nota 5: Per una storia delle distribuzioni alternative: Pasquale Alferj e Giacomo Mazzone (a cura), I fiori di Gutenberg, Arcana Editrice, Roma, 1979, p. 29-38.
Nota 6: per la discussione con Mauro Antonio Miglieruolo qui: http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2016/01/nuvole-marziane-di-antonio-caronia-come.html

Nota 7: Si tratta del convegno al cinema Ciak nel maggio del 1979, un resoconto giornalistico qui: http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2015/02/marxziana.html

venerdì 24 marzo 2017

Antonio Caronia: Un'Ambigua Utopia - Luogo comune - ottobre 1978 (2^ parte)





(Sintesi della discussione nel collettivo milanese di Un’Ambigua Utopia)
(Progetto per una nuova serie della rivista)

5. Chiariamo subito, in modo non rituale, che siamo ben lontani dal voler dire una parola significativa su quello che in gergo si chiama “stato del movimento”. Faremo soltanto delle osservazioni molto rozze e disorganiche su qualche aspetto della vita intellettuale che si vive nell’area (o nelle aree) dell’estrema sinistra oggi.                                                                          Chiariamo anche che l’uso della parola “movimento” in questo come in altri nostri testi porta con sé irrisolti una serie di problemi di metodo e di definizione. Con questa parola ci limitiamo ad indicare una serie di comportamenti riscontrabili (isolatamente o tutti insieme) in vasti settori di coloro che militano e fanno riferimento ad organizzazioni di estrema sinistra, di coloro che sono stati toccati in passato o lo sono al presente da movimenti di lotta, o anche di coloro che, pur senza rientrare in alcuna delle due categorie precedenti, esprimono in altre forme quella che abbiamo definito “una tensione verso il cambiamento dello stato di cose presenti”. Che questo insieme di persone, oggi, non sia definibile come “movimento” nel senso della classica definizione (in uso nei classici del marxismo) di “movimento di massa” è cosa pacifica per tutti noi. Che diversi settori di questo “movimento” (in particolare i giovani e le donne) stiano nella situazione che (sempre in termini classici) si definisce “di riflusso”, è anch’essa cosa assodata. È poi vero che questa constatazione assume significati forse diversi per i diversi compagni all’interno del collettivo, ma siamo arrivati alla conclusione che questo non è un ostacolo alla definizione di un progetto e di una pratica (sul terreno che ci interessa) comune.                                                                                                                   Una delle caratteristiche di questa fase che, per intenderci, chiameremo di riflusso, è appunto quella di una crescente esigenza di riflessione. In molti casi è anche un bisogno di pratica, di fare qualcosa, ma comunque non è mai separato dall’altro. Pensiamo, solo per fare un esempio, alla discussione che si sta aprendo nell’area di Lotta Continua: a chi ne è fuori, e quindi non può capirci molto, sembra comunque che si sovrappongano e mescolino diverse tendenze, diverse esigenze: un’esigenza di militanza vecchio tipo, forse, ma anche l’esigenza di poter discutere, influire su quello che si fa nel giornale, a Roma. Ma la proposta che viene fuori è quella di un altro giornale, politico e di riflessione. A noi sembra comunque che il momento delle scoperte inebrianti stia finendo, che la gente voglia capire perché le cose vanno così e non in un altro modo, che voglia in qualche modo “riappropriarsi” anche della teoria. Certo non dovrà più essere una teoria separata dai bisogni. Su molte cose non si torna indietro, e nessuno può riproporre riviste “politiche” o “teoriche” che taglino fuori l’esperienza che in questi anni il movimento ha fatto. Il momento non è neppure maturo per fogli e riviste che propongano comunque, anche all’interno delle esperienze fatte, e delle acquisizioni maturate, dei “punti di vista” complessivi e delle “sintesi” globali. C’è ancora una fase in cui vanno fatti valere, e percorsi fino in fondo, i bisogni specifici di cui ognuno è espressione, e per “ognuno” intendiamo, i singoli, i collettivi, le aree; lavorare a fondo su un tema, un problema, un complesso di temi e di problemi, questo è il metodo che oggi ancora può dare dei frutti nel movimento. Le promesse delle sintesi, non ancora le sintesi.                                                      Ma che sia, oggi come lo fu all’inizio degli anni ’60, momento di riviste4, questo è indubbio. E le riviste che fino a due anni fa, fino allo scorso anno, esprimevano meglio i bisogni di riflessione del movimento, oggi appaiono logorate e invecchiate. Alla rinfusa: QUADERNI PIACENTINI continua la sua marcia di avvicinamento alla sinistra tradizionale, e si “specializza” sempre più sul tema del rapporto con le istituzioni, che invece appare sempre più estraneo ad un discorso di trasformazione radicale; OMBRE ROSSE, che aveva fatto della teoria dei bisogni il suo momento di rilancio, sembra isterilirsi un po’ nella polemica contro l’”autonomia del politico”, i tentativi egemonici dei nuovi intellettuali trontiani dentro e fuori il PCI, e abbandonare invece, e comunque ridimensionare, i terreni che aveva occupato; IL CERCHIO DI GESSO appare travagliato da una discussione interna che, guarda caso, verte proprio su temi del rapporto col PCI e delle possibili mediazioni delle posizioni più diffuse nel 77 a Bologna. Rimane AUT AUT, che continua invece a offrire dei buoni materiali, ma forse è sempre un po’ illeggibile per chi non sa il tedesco, e insomma, a parte gli scherzi, sta sempre una spanna più in su di quello che ci servirebbe.                         E si moltiplicano poi, a riprova di quanto dicevamo prima, gli esperimenti, i numeri unici, i fogli legati a bisogni ed esigenze particolari. Testimonianza comunque di una vitalità, di un bisogno di esprimersi e di comunicare, anche se non sempre sanno essere sereni testimoni delle crisi che vivono (potrà dispiacerci, ma è un dato di fatto) i temi propostici dal movimento in questi ultimi anni.
6. C’è dunque un’area di compagni che leggono fantascienza e letteratura fantastica, e lo fanno più o meno coscientemente in connessione con la loro passata o presente esperienza politica o di lotta. C’è una domanda di riflessione a sinistra, su certi temi e problemi inerenti ad una teoria e ad una pratica di trasformazione collettiva della vita, di superamento dello stato di cose presenti, temi e problemi che abbiamo verificato essere aggredibili anche a partire dal terreno della fantascienza. In entrambi i casi c’è insufficienza o crisi degli strumenti che si offrono, nei vari scomparti del mercato editoriale, su questi terreni.                                                                                                        Nell’anno della sua esistenza, UN’AMBIGUA UTOPIA ha cominciato a porsi, con molte insufficienze e molte approssimazioni, su questo terreno. Da quanto si è farraginosamente fin qui detto, le domande che discendono ci sembrano imporsi con tutta evidenza: crediamo che ci sia uno spazio maggiore di quello che occupiamo finora, come AMBIGUA UTOPIA? intendiamo occuparlo? con quali miglioramenti e trasformazioni della rivista e del collettivo? di che cosa abbiamo bisogno per realizzare un eventuale progetto in questo senso? Alle prime due domande rispondiamo sì. Tutte le considerazioni che abbiamo svolto finora ci portano a concludere che possiamo raggiungere strati di lettori più vasti di quelli che abbiamo raggiunto finora. È un problema di qualità del prodotto (per dirla in termini industriali: e di questo parleremo al prossimo punto) e di bontà della distribuzione. Ma lo spazio esiste, e l’interesse crescente intorno a noi e alle nostre iniziative testimonia del fatto che abbiamo le possibilità di coprirlo. Non partiamo da zero: abbiamo un piccolo patrimonio, che è la nostra discussione, le poche cose che abbiamo prodotto, il rapporto coi lettori. Si tratta di ampliare tutto questo. Si tratta certamente di un rischio: nulla ci è garantito a priori. Ma non correrlo ci lascerebbe con la bocca amara di chi ha intravisto delle possibilità, e non le ha sfruttate per (diciamo così) poco coraggio. Per usare l’elaborata immagine che ha introdotto nel nostro dibattito il barocco Roberto Del Piano, siamo nella situazione di chi ha assaggiato un pasticcino quasi per caso, gli è piaciuto, si sta trovando adesso a mangiare una torta ed esita ad entrare nella pasticceria per paura che gli venga un’indigestione. Certo, se entra rischia forse l’indigestione, ma se non entra è sicuro che non assaggerà nessuna di quelle altre torte che stanno lì dentro: e ce n’è qualcuna che ha un aspetto proprio invitante…                                          
7. È dunque deciso che la rivista dovrà sforzarsi di diventare, più di quanto non abbia fatto finora, un punto di riferimento (uno dei punti di riferimento) per una discussione e, possibilmente, una pratica, sui temi della fantascienza e del fantastico in connessione con i bisogni di chi la legge, ma anche con la capacità di coinvolgere compagni e persone non “appassionati”, magari neppure lettori di fantascienza in senso stretto. Vogliamo proporci, cioè, come LUOGO COMUNE (nel senso letterale, e non traslato, dell’espressione), come luogo di intersezione di una serie di temi e di interessi, fra loro collegati, quelli che abbiamo cercato di tratteggiare dall’inizio di questo testo.           Come realizzarlo, dal punto di vista della formula e dei contenuti della rivista? Occorrerà uno stravolgimento, un cambiamento radicale di UN’AMBIGUA UTOPIA come si è presentata finora? A nostro parere, no. Occorrerà certo introdurre miglioramenti. Ma, grosso modo, l’equilibrio interno della rivista quale si è presentato, complessivamente, nei primi quattro numeri, deve essere mantenuto. Per migliorare, bisognerà procedere in tre direzioni:                                                                 a) innanzitutto abbiamo la necessità di produrre (o comunque di far comparire sulla rivista) delle analisi più approfondite su autori, correnti, temi della fantascienza e della letteratura fantastica. Sarebbe certo ingeneroso dire che quanto abbiamo finora prodotto su questo tema è stato tutto superficiale e pressapochistico, ma sarebbe anche presuntuoso dire che non si poteva fare di meglio. Quali criteri seguire? Non certo quelli di una critica letteraria “tradizionale”, né nel senso crociano della distinzione fra “poesia” e “non poesia” (un po’ ridicola, del resto, applicata alla produzione letteraria di massa), né in qu3ello, sotto sotto molto zdanoviano, piattamente contenutistico, ciò ci porterebbe a riprodurre tutte le volte la contrapposizione ridicola e fuorviante tra autori “reazionari” e autori “progressisti”. Lo scopo dovrebbe essere, usando tutti gli strumenti che di volta in volta saremo capaci di usare, la decodifica dei messaggi cifrati che una certa opera porta con sé (ma, oddio, che può anche non recare affatto), lo smontaggio dei meccanismi, a volte rozzi, a volte raffinati, che gli autori usano per raggiungere l’effetto voluto, e di quelli che applicano inconsapevolmente, e anche, perché no?, la lettura, nella trama del testo, dei rimandi alle contraddizioni sociali di cui poi, in fondo, ogni autore è (con tutte le mediazioni del caso) l’espressione. Tutte cose che, in linguaggio raffinato, potrebbero portare l’etichetta di “analisi testuale”, e “sociologia della letteratura”, e altre ancora. Diciamo più modestamente che ci proponiamo di fare, al miglior livello possibile, critica della cultura di massa. Le possibilità ci sono, dentro e fuori il collettivo.                                                                                                                           b) potremo avere la necessità di affrontare, di volta in volta, dei temi e dei nodi, diciamo pure più schiettamente “politici”, fra quelli che si pongono all’interno del movimento. Pensiamo, un po’ alla rinfusa, alla droga, alla corporalità, alla crisi della scienza, al rapporto uomo-donna. Potrà succedere, questo, in relazione ad un tema monografico che decidiamo autonomamente di affrontare, ma anche forse in relazione a fatti o discussioni che ci si impongono dall’esterno con la forza della loro centralità, in un dato momento, nella discussione dei compagni, e quindi anche dei nostri lettori. E gli articoli in questione non dovranno avere per forza un taglio “fantascientifico” o dei riferimenti a libri o film di fantascienza. Neppure questa è una novità. Nel n.3, sia Arcari che Cesati parlavano dei robot da punti di vista “esterni” alla fantascienza, ma i loro pezzi si inserivano perfettamente (al di là del giudizio di merito) nell’equilibrio del numero.                                              Dal momento, però, che questo è uno dei punti che hanno suscitato più discussioni nel collettivo, è bene forse spenderci qualche parola in più per dissipare equivoci, certamente chiariti ormai al nostro interno, ma che potrebbero riproporsi con compagni che non hanno vissuto con noi, giorno per giorno, questa discussione. La proposta di inserire (non obbligatoriamente in ogni numero, ma quando se ne sente l’esigenza) articoli o interventi più dichiaratamente “politici” non significa trasformare la rivista in rivista prevalentemente politica; né il riferimento all’intreccio fra temi della fantascienza e temi del movimento vuol dire proporre di trasformare la rivista in rivista “di movimento”. Una rivista di movimento, se le parole hanno un senso, è l’espressione di un movimento, o di settori di esso; una rivista politica è l’espressione di un gruppo politico o di un partito, o comunque di un’area politica con sue tesi e posizioni precise sul dibattito in corso. Non essendo il collettivo né l’una né l’altra cosa, la rivista non può evidentemente avere nessuna di quelle caratteristiche. Noi vogliamo invece continuare ad essere una rivista, per così dire, di proposta e di riflessione su quei temi che abbiamo già individuato (creatività, fantastico, crisi della scienza, ecc.) e utilizziamo e intendiamo continuare ad utilizzare la fantascienza per il suo carattere di intersezione, dentro la cultura di massa, di tutti quei temi. Non intendiamo, quindi, abbandonare o rendere marginale questo terreno a vantaggio di altri, anche se intendiamo continuare a farlo alla nostra maniera: e quindi ci teniamo, per esempio, a distinguerci dalle ordinarie “fanzine” (per questo abbiamo, per esempio, dichiarato la nostra indisponibilità ad un progetto di unificazione delle fanzine esistenti). Vorremmo essere, questo sì, una rivista sulla fantascienza e sul fantastico “nel” movimento. Ma questo, come è chiaro, è un’altra cosa.                                                                             Vale la pena di chiarire a questo punto un’altra questione su cui possono sorgere dubbi. Il continuo riferimento da parte nostra al movimento del 77, al movimento giovanile, a quello femminista, non implicano uno schieramento nella discussione sul cosiddetto “referente politico”, e, per usare un termine più pomposo, sul soggetto storico della rivoluzione italiana, europea e mondiale. Quel riferimento è una presa d’atto che solo quei movimenti, per il momento, si sono pronunciati in qualche modo (e non vogliamo neanche commentare il come si sono pronunciati) sui temi che ci interessano e su cui lavoriamo, e che presumibilmente persone che sono passate attraverso quelle esperienze, come quelle dei gruppi organizzati della sinistra rivoluzionaria, costituiscono la maggioranza dei nostri lettori (o almeno di quelli più interessati).  Non significa dunque affatto che il collettivo abbia una posizione comune sulla previsione (peraltro peregrina, formulata in questi termini) di chi farà la rivoluzione, se gli operai, i giovani, le donne, e i bambini; o se sia giusto basare le proprie speranze più sui precari e in genere i non-garantiti che non sui garantiti. Riteniamo anzi che non sia affatto produttivo confrontarsi così, in astratto, fra noi o sulla rivista su quei temi. UN’AMBIGUA UTOPIA ha un ambito di lavoro e di discussione che è specifico, e delle ipotesi, diciamo di lavoro culturale (non troviamo termini migliori per il momento) che prescindono, nella fase attuale di sviluppo della discussione, da temi di quel genere. Chiusa la lunga parentesi.                 c) c’è un terzo terreno sul quale bisogna procedere per qualificare meglio la presenza della rivista. È un terreno molto controverso, e su cui forse abbiamo impiegato troppo tempo ad operare delle scelte. Intendiamo parlare della produzione narrativa (o letteraria, se si vuole, più in generale) di fantascienza. In effetti lo sviluppo del nostro discorso risulterebbe monco se non vi affiancassimo un lavoro di promozione e di stimolo di un modo nuovo non solo di leggere la fantascienza, ma anche di scriverla. Anche su questo terreno dobbiamo darci una fisionomia ben precisa; senza escludere (trascurando per il momento la questione dei costi) la pubblicazione (traduzione) di testi stranieri, è evidente che il nostro interesse prevalente deve andare alla produzione italiana inedita, e in modo particolare ai testi che nascono, per così dire, all’interno del movimento, cioè da compagni, giovani, persone che trasferiscono in racconti, romanzi o testi di fantascienza una parte della loro esperienza di lotta e di riflessione. Noi siamo convinti che in parte questa produzione esiste già, e in parte si tratta di stimolarla. Naturalmente neanche qui abbiamo la pretesa di fare un discorso radicalmente nuovo: non è da oggi si sa che i compagni producono testi di ogni tipo. La cosa più eclatante è stato finora il fenomeno poesia, anche perché, ad un certo livello (e lo diciamo senza disprezzo), la poesia è la forma di espressione più “facile”, quella che sembra più spontanea (sappiamo che è tutt’altro che così, ad altri livelli). E poi c’è questo discorso sulla spontaneità, che a lungo andare rischia di diventare una palla al piede… Certo, se dobbiamo forzare i nostri pensieri e le nostre emozioni dentro quel minimo di struttura che l’opera narrativa richiede (tradizionale o “d’avanguardia” che sia), le cose risultano più difficili. Ma siamo sicuri che il materiale c’è. Occorrerà studiare meglio le forme per propagandare questa iniziativa (certo bisognerà usare anche altri canali oltre UN’AMBIGUA UTOPIA; forse un “concorso di narrativa non competitivo” potrebbe andare; ma ne discuteremo ancora); però, fra l’altro, i primi racconti cominciano ad arrivare appunto spontaneamente. Abbiamo cominciato sul n°4 con una scelta forse discutibile. Ma intanto aspettiamo i giudizi dei lettori.


Nota 4: Per una storia delle riviste di quegli anni: Attilio Mangano, Le riviste degli anni Settanta, Centro di documentazione di Pistoia, Pistoia, 1998.

venerdì 17 marzo 2017

Antonio Caronia: Un'Ambigua Utopia - Luogo comune - ottobre 1978 (1^ parte)



(Sintesi della discussione nel collettivo milanese di Un’Ambigua Utopia)
(Progetto per una nuova serie della rivista)

1. È convinzione comune dei compagni del collettivo che, soprattutto dopo la festa di settembre, le cose non possano più andare avanti come prima. Nel corso del 1978, il collettivo ha visto crescere sotto i suoi occhi un’iniziativa, che era cominciata quasi per gioco e senza un programma preciso, fino a diventare qualcosa di più impegnativo e (questo è più preoccupante) non controllato da collettivo stesso. L’aumento di tiratura della rivista, la stessa festa di settembre, le occasioni di dibattito che si vanno moltiplicando in questo scorcio di ottobre (i dibattiti alla libreria Utopia, Piacenza, Lucca)1 sono altrettanti segni degli spazi che UN’AMBIGUA UTOPIA, quasi spontaneamente, va occupando, mentre altri, ancora più estesi, si fanno intravedere. In una situazione così (e la cosa non è nuova) stare fermi vuol dire andare indietro, né peraltro  ci si può lanciare  in un attivismo sfrenato, nella moltiplicazione di occasioni di incontro e di iniziativa senza aver riflettuto, anche solo un po’, sul senso delle cose che si vanno a fare. Il nostro dibattito di ottobre è stato appunto teso a riconquistare il controllo sulle cose che facevamo o che potevamo avere intenzione di fare.
2. Il nostro giudizio sull’andamento, i pregi, i difetti, i limiti, le cose belle e brutte della festa di settembre sta sul n. 4 della rivista, e non lo ripetiamo dunque in questa sede. Facciamo invece un passo indietro più consistente, per cercare di recuperare il senso della nostra iniziativa, come era partita e come per strada si è andata arricchendo e (solo un po’) anche precisando. La rivista è nata come punto di incontro di una serie di compagni, con esperienze politiche e personali (non lo ripeteremo mai abbastanza) molto diverse alle spalle, il cui terreno comune era l’interesse (anche questo variegato e sventagliato su livelli e intensità differenti) per la letteratura e il cinema e il fumetto fantastici e di fantascienza. Questo interesse, a lungo costretto in una sfera individuale e privata, quando non addirittura represso e/o vissuto con senso di colpa, veniva ora rivendicato come interesse squisitamente personale (non più privato), perciò collettivizzabile, perciò in senso lato politico (per chi da ancora un senso a questa parola), o comunque utilizzabile ai fini di una crescita collettiva e dentro un movimento per il rovesciamento dello stato di cose presenti (movimento esistente o da costruire, manifesto o latente, concentrato o diffuso, questo rimaneva e rimane impregiudicato all’interno del collettivo, e ognuno conserva le sue opinioni, molto diverse l’una dall’altra come su parecchie altre questioni).                                                                                            Fin dall’inizio (è bene sottolinearlo) questo discorso si traduceva già in qualcosa di un po’ più preciso. Intanto nella individuazione del nesso fantascienza/realtà. Naturalmente adesso (ottobre 1978) usiamo parole e frasi forse più pertinenti, relative alla chiarezza che abbiamo adesso, e non su quella che avevamo un anno fa: ma il nucleo dell’intuizione c’era già sicuramente da allora (e basta rileggere l’editoriale del n° 1 per accorgersene)2. Fantascienza e realtà, dunque. La fantascienza, dicevamo, non è il parto di qualche scrittore particolarmente brillante, di qualche fantasia particolarmente sbrigliata. Segue, anticipa, percorre e ripercorre sentieri già dati, quelli dello sviluppo sociale, scientifico, antropologico dell’homo sapiens nell’era della terza e della quarta rivoluzione industriale. Naturalmente c’è il sense of wonder, e chi lo nega?, c’è l’aspetto ludico e creativo nello scrivere e nel disegnare e nel filmare di fantascienza, ma il sottofondo da cui tutto ciò nasce è (e non potrebbe essere altrimenti) un sottofondo reale. Cosa banale e scontata, questa, senz’altro: ma per nulla diffusa nella banale, ripetitiva e (adesso anche) accademica e paludata critica di fantascienza di casa nostra. E forse per questo è apparsa tanto nuova ad amici e nemici, ad estimatori e detrattori.                                                                                                                                                La seconda cosa che dicevamo, e anche questo fin dal primo numero, era la questione della pratica dell’utopia. Questo slogan nasceva dalla constatazione del carattere separato e privatizzante che ha, in questa società, la fruizione della letteratura di fantascienza (come ogni altro genere di arte e di cultura, tanto di élite come di massa). Quando non si configura come pura evasione, la lettura di un libro o la visione di un film di fantascienza serve a soddisfare sì esigenze di fantasia, di creatività, di immaginazione (usiamo tutti questi termini un po’ all’ingrosso, per ora), ma in modo del tutto separato dalla nostra vita reale, in una sfera di fruizione appunto privata. Finita la lettura del libro, o la visione del film, tutto continua come prima. Quello che per caso ci è venuto in mente durante quel periodo rimane completamente staccato dagli altri aspetti della nostra vita, e questo non è imputabile alla pigrizia mentale di chi riceve quei messaggi, ma alla loro struttura interna e alle condizioni nelle quali avviene il “godimento” dello spettacolo o la lettura. In altri termini, la letteratura e il cinema fantastici e di fantascienza, che recherebbero in sé possibilità e germi di un modo di vivere diverso, vengono invece programmaticamente e praticamente utilizzati come “valvola di sfogo” per impedirci di far vivere tensioni e contraddizioni nella vita quotidiana. Immaginazione, fantasia? Certo, come no: eccovi Guerre stellari, Incontri ravvicinati, Asimov, ma per i più esigenti c’è anche la Le Guin. Purché tutto ciò non interferisca con le vostre ore di lavoro, con le prestazioni che dovete assicurare (e per cui siete pagati) per la sopravvivenza del sistema; purché tutto ciò non interferisca con la vostra attività di assorbimento di ideologia e di sempre più limitate capacità professionali nel ghetto-scuola; purché non interferisca con la vostra emarginazione di disoccupati, di abitanti dei quartieri dormitorio. Tutto ciò non si cambia. La vostra vita non cambia: ma prevede, questo sì, quella frazione di tempo che riuscirete a procurarvi col vostro potere d’acquisto di “libertà”, di svincolamento dalla logica del principio di realtà. Ma attenzione a non mescolare le due sfere. Se tenti di trasferire fantasia e immaginazione nella tua vita quotidiana: Pentiti, Arlecchino…
3. Che tutto questo ordine di considerazioni avesse dei punti di contatto con quanto avevano sollevato i movimenti di lotta cresciuti in Italia o in Europa negli ultimi anni (usiamo, tanto per intenderci, anche qui l’etichetta “movimento del “77”, ben sapendo che essa copre – e non dà unità – a realtà ben diverse e disperse tra loro) era cosa abbastanza scontata per noi, e, crediamo, anche per la maggior parte dei lettori della rivista. Se vogliamo essere schematici e riepilogare, i titoli possono essere questi:                                                                                                                                                        - tutta la rivalutazione che cercavamo di fare della fantasia e, diciamolo pure, del “senso del meraviglioso” in fantascienza si collegava senza dubbio con la parallela rivalutazione che quei movimenti facevano della fantasia e della creatività;                                                                                - non solo, ma quello che andavano dicendo sull’irruzione del fantastico nel quotidiano (e che cercavamo di sostanziare in alcuni momenti pratici, come la festa di settembre3) non era nient’altro che un aspetto, una concretizzazione se si vuole, di quella critica della politica che movimento delle donne, dei giovani, movimento del 77 portavano avanti da tempo. Fare irrompere il fantastico nel quotidiano lo vedevamo e lo vediamo come strumento di cambiamento della nostra vita, della vita di tutti, come premessa e parte di un processo di trasformazione collettiva: è quindi parte del discorso sul rifiuto della politica come funzione separata all’interno della nostra vita, e del tentativo di recuperare gli aspetti della politica utilizzabili per un progetto di trasformazione collettiva;               - e ancora, la critica della tecnologia e il rispecchiamento della crisi della scienza che troviamo in tanta parte della fantascienza contemporanea (dalla fine degli anni ’60 in poi, per essere più precisi) le vedevamo collegate al discorso cosiddetto dell’intelligenza tecnico-scientifica, e cioè, come noi lo interpretiamo, da un lato alla riscoperta della contraddizione (a suo tempo individuata da Marx) fra diffusione e accumulo del sapere sociale e incapacità del capitale di assumere questo sapere sociale nel processo produttivo (cioè di valorizzarlo sotto forma di lavoro morto); dall’altro alla capacità che esiste di contrapporsi all’uso della scienza come strumento di dominio o controllo sociale, non più sulla base di discorsi letterari o (peggio ancora) di utopie preindustriali, agreste-rural-pastorali, ma sulla base di una pratica e un utilizzo concreto di strumenti scientifici e tecnologici sia per inceppare la macchina lubrificata del dominio (vedi p. es. l’uso della falsificazione) sia per indicare elementi progettuali e alternativi della civiltà futura (vedi in questo senso tutta la questione del nucleare).
4. Per arrivare ad un discorso più concreto sulle trasformazioni della rivista e del collettivo, mancano però ancora almeno due tasselli: alcune considerazioni congiunturali relative al “movimento” (qualunque sia il senso che attribuiamo a questo termine, e che preciseremo poi) e un breve panorama sul mercato e il mondo della fantascienza in Italia. Cominciamo da questa seconda cosa. Sia che il boom editoriale e cinematografico della fantascienza sia destinato a durare, sia che si trovi invece in fase di esaurimento (come alcuni “esperti” pensano, p. es. Curtoni), l’apparizione sulla scena fantascientifica di nuovi strati e nuove figure di lettori/spettatori è un dato inequivocabile. Un’analisi più precisa della stratificazione di questo “nuovo pubblico” è cosa desiderabile, e ne parleremo più avanti; ma fin d’ora, anche in modo impressionistico, possiamo essere sicuri di non sbagliarci se diciamo che una parte di questo pubblico è formato da compagni, gente con esperienza politica (e le connesse esigenze) alle spalle, giovani comunque orientati a sinistra, che esprimono, a vari livelli, bisogni che vanno nel senso del superamento dello stato di cose presenti. Se non vogliamo essere più precisi nella quantificazione – cosa impossibile senza un’indagine approfondita – possiamo parlare di migliaia di persone senza uscire dall’ambito del verosimile. Questa area esprime, in varie maniere (anche in modo non esplicito, si vuol dire, per esempio nel caso di coloro che si rivolgono alla fantascienza apparentemente per un puro bisogno di “evasione”) una domanda critica su ciò che legge, un’esigenza di riflessione e spesso di orientamento (evidentemente non autoritario, cioè non è disposta a prendere per oro colato quello che si legge, anche se chi scrive si qualifica come compagno in un settore che finora ne ha visti pochi). Come possa soddisfare questa esigenza, lo sappiamo bene tutti: non la può soddisfare quasi per nulla. Non gli serve Urania, meno ancora altre collane (come quella di Belloni) che comunque non offrono nessun inquadramento dei tanti che presentano. Ma anche nella produzione di editori più “ambiziosi” sul piano culturale (intendiamo Fanucci, Nord, Libra) non troveranno strumenti utilizzabili. Fanucci gli offre, con le introduzioni di De Turris e Fusco, documenti dichiarati e riconoscibili di un innegabile revival della cultura di destra; la Libra, fluviali sproloqui autistici di Malaguti a cui nessun compagno, credo, può resistere molto oltre le 20/30 righe; la Nord, in alcune collane, esempi di una critica certo più sofisticata (citiamo per tutti Pagetti) ma inguaribilmente malata di accademismo.                                                                                Riviste di fantascienza, in Italia, non ce n’è. Certo, c’era Robot3. È stato l’unico tentativo di fornire al lettore degli elementi di inquadramento degli autori, delle correnti, delle opere, accessibili ma non superficiali. Non certamente nel senso in cui noi potremmo intendere una critica alla e della fantascienza (smontaggio, cioè, il più preciso possibile, dei meccanismi che presiedono alla produzione e alla distribuzione del prodotto-fantascienza; decodificazione dei reali messaggi sottostanti, ecc.), ma insomma qualcosa di più onesto, anche se neutro, e qualche incursione sporadica in un regno di temi e modi più congeniali a noi e a questo ipotetico “lettore-compagno” (evidentemente è il caso di Guerrini e di qualche altro polemista). Ma Robot, dopo il piccolo golpe di Armenia, non esiste più: è una rivista di antologie (a quanto dicono Curtoni, e Lippi che c’è rimasto) di buon livello, e niente più.                                                                                                     Chiudiamo questo punto, perciò, segnalando l’esistenza di questo spazio, vuoto e a nostro parere non piccolo. Siccome l’editoria, come la politica, ha orrore del vuoto, prevediamo anche con molta verosimiglianza che qualcuno, prima o poi, si proverà a riempirlo.


Nota 1: settembre 1978, Piacenza partecipazione al convegno della Cooperativa scrittori “La produzione mentale” con un intervento nella lingua di Vega 4, molto seguito da Francesco Leonetti e Maria Corti.                                                   Ottobre 1978, Lucca Comics.
Nota 2: che verrà ripubblicata in questo Blog nel prossimo mese di aprile.
Nota 3: Robot rivista di fantascienza fondata da Vittorio Curtoni nel 1976.