domenica 1 novembre 2020

Antonio Caronia: Meglio morti che immortali?

 


Linus novembre 1982

Esce presso l’editore Guanda, che lo presenta in modo francamente eccessivo come “il più bel libro di fantascienza del XX secolo”, il racconto Cancroregina di Tommaso Landolfi (nella bella ma ahimè costosa collana di “Prosa contemporanea”). Landolfi pur essendo uno scrittore irriducibile a scuole e correnti precise, fa parte di quella non grande schiera di esponenti della nostra letteratura che ha attinto spesso a materiali e figure fantascientifiche per la sua produzione, e della quale il più noto (se non l’unico) al grande pubblico è Italo Calvino. Alla fantascienza Landolfi ha sempre chiesto scenari e situazioni (c’è chi dice “pretesti”, ma per quale scrittori i suoi materiali non lo sono?) Per un suo discorso amaro e radicale sul destino dell’uomo, un discorso sempre a mezza strada fra il racconto filosofico e la confessione personale: questo avviene in alcuni dei Racconti impossibili, e in molti dei “dialoghi cosmici” pubblicati dal Corriere della Sera fra il 1975 e il 1976, pochi anni prima della sua morte. Questo avviene anche in Cancroregina, pubblicato per la prima volta nel 1950: qui la solitudine dell’autore in un congegno spaziale (descritto sommariamente e imprecisamente) destinato per un misterioso guasto ad orbitare per sempre intorno alla terra e dotato di una voce e di una intenzionalità proprie – la “Cancroregina” del titolo – diventa l’occasione per una confessione, che a tratti si fa disperata, della propria impotenza a vivere e a comunicare, a districarsi dalla confusione e dal pasticcio tra letteratura e vita. “E pensare che tutto quanto occorre a menarmi in salvo è qui, qui dentro e a portata di mano; ma è come se non ci fosse, non so trarne profitto”. Il mondo chiuso e isolato della navicella spaziale diventa l’impossibilità dell’autore a uscire da se stesso: l’ dentro egli, condannato a una specie di immortalità, aspetta “il coraggio di morire. Queste riflessioni sulla morte e l’immortalità vengono a Landolfi dal romanticismo tedeco e da Poe, che è citato all’inizio di Cancroregina. Ma è curioso osservare che il tema dell’immortalità è ricorrente nella fantascienza americana, dagli anni “d’oro” (Van Vogt in testa) giù giù fino ai nostri giorni. Lo dimostrano anche alcuni titoli apparsi di recente nelle collane specializzate: non tanto il mediocre Gli immortali di James Gunn, titolo giustamente dimenticato degli anni ’60, quanto l’ultima produzione di Philip J. Farmer tradotta in italiano, Il sole nero, del 1979. Con i ritmi serrati del romanzo d’avventura che solo lui sa condire con una sintassi tanto più avvincente quanto più sembra approssimativa e scheletrica. Farmer passa da una prima parte in cui prevalgono gli scenari della fantascienza “antropologica” (una Terra per noi vecchissima, il sole estinto e le galassie incenerite che con i loro passaggi periodici scandiscono il tempo delle tribù isolate e chiuse nelle loro culture sciamaniche) ad una seconda parte in cui emerge prepotente il senso del tempo cosmico, la rovina planetaria e l’unico modo per sfuggirvi è e raggiungere così una “quasi mortalità”: il passaggio attraverso le porte che separano i diversi piani spazio-temporali, i personaggi umani qui, a differenza del ciclo dei Fabbricanti di universi, sono più scialbi delle stupende invenzioni teratologiche di Sloosh, l’enorme centauro vegetale, esponente di una linea evolutiva post-umana, che delle piante ha tutta la lentezza biologica unita ad una enorme massa di conoscenze organizzate in una logica rigorosissima, e della Shemibob, la gigantesca donna-serpente proveniente da un’altra galassia, padrona di una meravigliosa e sconosciuta tecnologia, che condurrà i protagonisti oltre la porta, in una Terra parallela, per sfuggire al destino di estinzione di questa Terra. Chiuso il libro, naturalmente, non sappiamo se la Terra che noi conosciamo è quella che i nostri eroi abbandonano, ormai al termine del suo ciclo, o quella a cui approdano, all’inizio di quella che potrebbe essere la nostra evoluzione umana. Ma questa non è che una variante della concezione ciclica del tempo di Farmer, condannato egli stesso a riscrivere lo stesso libro in decine di forme diverse, alla ricerca di un senso segreto della vita che egli per primo sa non esistere. Una lettura che comunque si raccomanda, quella di questo Il sole nero, in attesa di poter leggere o rileggere il capolavoro del “tempo ciclico” farmeriano, quel Mondo del fiume di cui l’editrice Nord annuncia la riedizione integrale, in cofanetto, per il prossimo anno.