giovedì 25 febbraio 2021

Antonio Caronia: Mondo impossibile!

 


Linus aprile 1984

Nella sua introduzione alla più recente edizione del romanzo di Orwell che quest’anno celebra una sorta di compleanno/scadenza (1984 Mondadori, pp. XIV-308, L. 16.000) Umberto Eco argomenta che non tanto di profezia o utopia negativa si tratti, quanto di storia. Soprattutto in questi ultimi anni ci si è resi conto che “quel libro, se da un lato parlava di ciò che è già avvenuto, dall’altro, più che parlare di ciò che sarebbe potuto accadere, parlava di ciò che stava accadendo”. Si tratta di un’interpretazione non nuova, ma che a me continua a sembrare convincente. E d’altra parte, in qualche modo, tutte le opere riconducibili al filone dell’’utopia negativa’, dai Viaggi di Gulliver a Terra! Di Benni, si caratterizzano proprio per il fatto che, facendo le viste di parlare del futuro o di paesi immaginari, parlano in realtà del nostro ‘qui e ora’. Detto questo non si deve però dimenticare che gran parte della presa di questi libri sul lettore sta proprio nell’effetto di straniamento, nel vero e proprio brivido che si prova a vedere proiettate le tematiche del ‘qui e ora’ su uno sfondo che non è quello che noi conosciamo adesso, ma è lontano da noi nel tempo, nello spazio e a volte anche nella logica. Questo è il modo di operare della narrativa fantastica di ogni tipo: la costruzione di un universo autonomo o, come è stato detto di un ‘mondo possibile’. Tanto è vero che la denuncia del totalitarismo di Orwell è diventata famosa più con 1984 (o magari con La fattoria degli animali) che con Omaggio alla Catalogna, narrazione fedele dell’esperienza dell’autore durante la guerra di Spagna, che affronta ugualmente il tema della critica allo stalinismo, e con una resa letteraria, a mio parere, superiore a quella di 1984. Ma questo non vuol dire che il successo di questo libro sia immeritato. Al di là della debolezza della scrittura, infatti, Orwell ha saputo tradurre la sua ispirazione politica e morale di fondo nella costruzione di un universo credibile, e non già rispetto all’attendibilità dell’estrapolazione o alla verosimiglianza della previsione scientifica, ma rispetto alla coerenza interna di quel mondo. Per costruire un “mondo possibile” avvincente, che funzioni dal punto di vista narrativo, che tenga insomma il lettore attaccato alla sedia, non è sufficiente affastellare particolari curiosi o stravaganti, stravolgere le leggi della fisica, della sociologia o della scienza politica. Bisogna riuscire a mettere in opera delle leggi che facciano funzionare i dispositivi fondamentali di quel mondo in modo credibile e coerente. Ora le due più grandi scuole di costruzione di “mondi possibili” nella narrativa popolare del nostro secolo sono state, a mio parere, la fantascienza per così dire “classica” (quella che gli appassionati chiamano “tecnologica”, fiorita soprattutto negli anni Quaranta: alla Asimov, tanto per intenderci) e il filone più chiaramente fantastico, quello delle varie terre di mezzo, il cui rapprenetante insuperato rimane Tolkien. Oggi però l’ortodossia di queste correnti (cioè la fedeltà più o meno accentuata alle convenzioni e ai modi di questi due generi, o sottogeneri) mi sembra in declino, e comunque sforna prodotti sempre più deteriorati. In misura maggiore, devo dire, la prima, e cioè la fantascienza “classica”. Prendiamo un esempio recente: I costruttori di Ringworld  di Larry Niven (Fanucci, pp. 354, Lire 12.500), séguito del più famoso Ringworld del 1970 che aveva avuto i premi Hugo e Nebula. Grande precisione di particolari tecnici, alieni di ogni tipo, avvenimenti a iosa, ambienti i più diversi, il tutto sullo sfondo di un gigantesco mondo artificiale ad anello grande tre milioni di volte la Terra. Lo sforzo immaginativo non manca, ma la storia non regge e si trascina stancamente. “Che cos’era un uomo, di fronte a una creazione artificiale tanto immensa?” riflette Niven con sconvolgente profondità a p. 75, e decide di rimanere fedele per altre 300 pagine a questa apprezzabile ma un po’ statica verità. Tutt’altro sapore si avverte davanti al ciclo del Nuovo Sole, quattro romanzi di Gene Wolfe di cui sono apparsi in traduzione italiana i primi due, mentre è in preparazione il terzo (L’ombra del torturatore, Nord, L. 8.000; L’artiglio del conciliatore, Nord, L. 10.000). Gene Wolfe è uno degli autori più interessanti della fantascienza americana, una  curiosa figura di ingegnere che già negli anni Settanta aveva dimostrato di saper ben giocare con le regole tradizionali del genere (ma in Italia, per le ragioni che evito di ripetere per la centesima volta, non si erano finora visti tradotti che due o tre racconti). Qui si cimenta con il fantasy e con il suo classico armamentario di situazioni e figure: un mondo dalla struttura produttiva e sociale di tipo francamente medievale, un giovane eroe che compie il suo apprendistato di torturatore, una spada (ovviamente), un viaggio e una ricerca. Ma gli stereotipi appaiono corrosi dall’interno, nella narrazione aleggia un clima di inquietudine e di ambiguità che produce un fascino diverso dal ritmo ampio e disteso di tolkien, ma altrettanto intenso. Wolfe controlla con grande sapienza il suo mondo possibile: sa, come sapeva Orwell, che esso è un fatto prima di tutto linguistico. E forse sta qui la chiave dell’inquietudine e del fascino di cui si è detto. Ma ne riparleremo a ciclo concluso.

mercoledì 24 febbraio 2021

Antonio Caronia: La vergogna rimossa


 Linus giugno 1985

“Raccontare storie è per noi un rito di sangue”, dice uno dei personaggi del romanzo La vergogna di Salaman Rushdie. Il lettore, incontrando l’affermazione a pag. 69, quasi non ci fa caso, eppure gli episodi macabri che l’autore dissemina discretamente, qua e là per il libro, dovrebbero metterlo sull’avviso, prepararlo al finale sanguinario e pensoso che l’attende. Invece no, la saga mirabolante delle due famiglie Hyder e Harappa e di tutti gli individui che esse man mano inglobano in questo Pakistan mezzo reale e mezzo fantastico ci scorre addosso, ci avvolge come un pigro ma incontentabile anaconda; e ogni morte, ogni assassinio che incontriamo ci sembra solo un elemento narrativo e non una premonizione della catastrofe imminente. È colpa di Rushdie, naturalmente, di questo suo modo di raccontare apparentemente incongruo e invece così sapiente, pieno di incisi, di descrizioni gustose, di ironia e tolleranza, da cui salta fuo4ri, inaspettata, a tratti, la tragedia. Come quando Raza Hyder, futuro presidente, per difendere l’onore della moglie, sfida Iskander Harappa, futuro segretario del Fronte popolare, ma per non battersi in casa di questi va fuori in giardino e si lega a un paletto e da lì chiama a gran voce il suo rivale. Ma che ci possiamo fare se Iskander si guarda bene dall’accettare la sfida, Se Raza rimane sveglio tutta la notte e al mattino, assonnato e con gli occhi rossi, uccide con un gran pugno il vecchio servo che era andato a riportarlo a casa? Tutta la tensione epica e tragica di poche righe prima si scioglie, e non possiamo che sorridere. Perché questa è la cifra di Rusdhie, indiano che in inglese scrive storie avvincenti come se le raccontasse a voce (ma non c’è nulla di “spontaneo”, come s’è detto, è tutto frutto di un lavoro paziente di costruzione della pagina), e salta avanti e indietro, anticipa fatti che narrerà poi, si intromette nella storia e ci racconta da quale idea era partito e che cosa ha finito per realizzare. Ancora più disperso dal punto di vista della trama e dei personaggi, anche se più breve come lunghezza del precedente I figli della mezzanotte, il nuovo romanzo di Rushdie riscatta quella dispersione con un’idea di fondo più compatta: la vergogna rimossa, nascosta (quella dell’”eroe marginale” Omar Khayyam a cui le sue tre madri la hanno nascosta, ma anche quella del Pakistan che vuole dimenticare a forza il suo passato indiano) genera una violenza bruta, incontenibile, feroce. Quella di Sufya Zinobia e della Bestia che la abita, che porterà Raza e Omar alla morte. Quando ha compiuto il massacro finale Sufya scomparirà, “come se non fosse mai stata altro che una voce, una chimera, la fantasia collettiva di un popolo represso, un sogno nato dalla loro rabbia”. Dalla stessa rabbia nascono forse le storie di Rushdie, di V. S. Naipaul, di Nadine Gordiner, tutti scrittori che usano l’inglese senza che questo sia la loro madre lingua, e per cui la “crisi del romanzo” sembra non essere mai esistita.

Salaman Rushdie, La vergogna, Garzanti, pp. 260, L. 18.000

mercoledì 17 febbraio 2021

Antonio Caronia: Fra le stelle o sotto la terra

 

 
Linus ottobre 1983

Se la pratica del serial funziona per i film, si sarà detto Arthur C. Clarke, perché non provare anche con i libri? Ed ecco arrivare, dopo Superman II e III, dopo il ciclo di Guerre Stellari, in lieve anticipo sulla riesumazione nientemeno che di James Bond (Octopussy), anche il seguito, ahinoi, 2001: Odissea nello spazio. Uscito l’anno scorso in Inghilterra e USA, 2010 Odissea due viene ora tempestivamente tradotto in italiano (Rizzoli, pp. 286, L. 16.000). Ma, come già in molti esempi cinematografici, la ripresa di ambienti, personaggi e situazioni della “più grande storia del secolo” maschera anche stavolta nient’altro che la stanchezza di ispirazione e sclerosi della fantasia. Il che, fra l’altro, mi riconferma nella convinzione che Clarke sia autore quasi sempre piatto e mediocre, e che solo il fortuito incontro con Kubrick abbia prestato anche al romanzo di 2001 quel fascino che tutti ricordiamo, e che non era forse che l’eco delle immagini del film. Con la consueta precisione tecnica che gli deriva dalla formazione scientifica, Clarke descrive il viaggio dell’astronauta Leonov con equipaggio misto russo-americano alla volta della Discovery per riuscire a liberarla dalla posizione di stallo in cui l’avevamo lasciata alla fine di 2001 (nella zona di Giove, come nel film) e riportarla sulla terra. Nel corso della missione assistiamo quindi alla riattivazione del mega-computer Hal, alla ricomparsa del gigantesco monolito, ad alcuni scorrazzamenti dello spirito disincarnato dell’astronauta Bowman (protagonista del fantasmagorico finale di 2001, insomma, non fa che confermare la ripetitività e la stanchezza di chi si ostina a scrivere la fantascienza come negli anni 40 e 50. Perché, se è vero che la natura imita l’arte, come dice lo stesso Clarke nella sua introduzione al libro, questo succede proprio perché la natura come esisteva prima dell’era spaziale sta scomparendo, e al suo posto c’è la natura ricreata e modellizzata dalla scienza e dalla tecnica. È chiaro comunque che chi apprezza questo tipo di fantascienza troverà in 2010 un libro onesto, godibile e ben costruito. Le mie preferenze vanno – ho appena bisogno di ricordarlo ai lettori di Linus – alle invenzioni di figure e di società che vanno verso un “oltre” l’uomo, agli esperimenti di torsione del corpo e dello spirito umani, alle sociologie aliene. Fra i titoli più recenti di questo tipo, almeno due vanno ricordati: Il primo è Mockingbird di Walter Tevis, disponibile in due traduzioni (Solo il mimo canta al limitare del bosco, Nord, L. 5000; Futuro in trance, Mondadori, L. 4000; devo ringraziare l’enciclopedica Silvia Quai per averlo segnalato fin da luglio). L’altro è una novità solo per l’Italia, visto che in America è uscito oltre dieci anni fa: si tratta di L’alveare di Hellstrom (Nord, pp. 278, L. 6000) ed è di Frank Herbert, l’autore di Dune. Mentre l’utopia negativa di Tevis, pur contenendo una delle figure di androidi meglio costruite nella fantascienza degli ultimi anni, mi sembra però viziata da una vena di moralismo che affiora qua e là, una sorta di rimpianto per il buon tempo andato, ho trovato il libro di Herbert molto lucido, compatto e straordinariamente attuale. Attraverso la rielaborazione di figure e situazioni della fantascienza più classica, due società sono messe a confronto. Da un lato quella umana, quella a noi nota, sia pur vista attraverso l’esasperazione deformante dell’ambiente designato a rappresentarla, che è un’agenzia informativa ultra-segreta del governo americano; dall’altro la società “nuova”, l’Alveare, organizzato in parte sul modello delle comunità di insetti, ma costituito di umani mutati geneticamente e dotato di una mente collettiva, di una sua razionalità. L’interesse dell’opera (che si situa all’incrocio tra il genere utopistico e quello “genetico/robotico” inaugurato da Frankenstein) sta nello scontro violento che oppone i due poli, L’alveare e l’agenzia governativa, portatori di modelli, valori, interessi, metodi, assolutamente contrapposti. L’autore, come nota giustamente Pagetti nella sua introduzione, si rifiuta però di prendere chiaramente posizione a favore dell’uno o dell’altro campo, sottolineando semmai con maggior crudezza il cinismo e il disprezzo della vita che caratterizza il mondo degli umani. Lorrore istintivo del lettore per la figura dell’insetto, che giganteggia dietro a tutta la narrazione, si bilancia in questo modo con lo spettacolo della meschinità e del cinismo delle spie, contribuendo alla sospensione, oltre che dell’incredulità, anche del giudizio morale; e quella che trionfa è, al fondo, una grande rappresentazione dell’inconscio (non si dimentichi che entrambi i poli del romanzo, l’Alveare e l’agenzia, sono, ognuno a loro modo, nascosti, segreti, e questa è la condizione della loro sopravvivenza). Come se, per dirla con Villiers de L’Isle Adam, “per trovare l’ideale si dovesse prima passare per il regno delle talpe”.


sabato 13 febbraio 2021

Antonio Caronia: Scriversi addosso

 


Linus settembre 1982

L’autoriferimento imperversa: in filosofia, nel cinema, nella narrativa. Ogni film parla di mille altri film, ogni libro di mille altri libri. C’è chi dice che è sempre stato così, ma forse in epoche precedenti era più che altro un problema di linguaggio: riferirsi a forme linguistiche analoghe era un modo per marcare la propria appartenenza ad un genere espressivo (per esempio un genere letterario) e poter fare così un discorso sul mondo, sulla realtà. Oggi questo è per lo meno problematico. I libri, i film, i fumetti sembrano esaurire il proprio discorso nell’ambito di una fitta rete di citazioni e di rimandi, senza riuscire a dire nulla sul mondo e sulla realtà, a volte senza neppure volerci provare. E l’autoriferimento ha naturalmente invaso anche la fantascienza. L’ultimo romanzo di Heinlein apparso in Italia (Il numero della bestia, Sonzogno 1981, L. 14.000) è un remake (gradevole o sgradevole, a seconda dei punti di vista) di tutta la fantascienza avventurosa degli anni Venti e Trenta, debitamente citata nel testo in modo esplicito e, si direbbe, ostentato, dal ciclo marziano di E. R. Burroughs, che fornisce addirittura nomi e caratteristiche dei protagonisti, allo Skylark di “Doc” Smith al Gray Lensam e così via. Quello che nel romanzo di Heinlein è, appunto, esplicito, ostentato e teorizzato (in modo che non abbiamo solo un’opera di fantascienza che si riferisce alla fantascienza, ma in cui la fantascienza è la vera e sola protagonista), è mascherato e coperto nel romanzo di Norman Spinrad A World Between (Tra due fuochi, Nord, 1982, L. 6.000): ma la sostanza, mi sembra, non cambia. A World Between riprende il filone della fantascienza utopista o post-utopista, quello delle società ideali, dei loro pregi e dei loro difetti, per capirci, e lo fa rispondendo, in qualche modo, alla fantascienza delle donne, più alla Joanna Russ di The Female Man, a quanto sembra, che alla Ursula Le Guin di The Dispossesed (I reietti dell’altro pianeta, recentemente ristampato dalla Nord). La domanda che si pone Spinrad è infatti: è possibile che uomini e donne trovino un equilibrio fra pubblico e privato, fra amore e politica, tale da reggere alle inevitabili tensioni tra i sessi? La domanda è posta e risolta con una sapienza narrativa gradevole, anche se un po’ scontata. Sul mondo di Pacifica un equilibrio del genere già esiste, all’inizio del libro, ma è venato da impercettibili crepe, che si allargano drammaticamente quando il pianeta diventa teatro dello scontro tra le femocratiche, espressione di tendenze femministe oltranziste, e la Scienza Trascendentale, una élite interplanetaria di super-scienziati che incarna ideali faustiani con qualche sfumatura nazista e abbondante ispirazione tecnocratica. Questa guerra polarizza anche su Pacifica lo scontro tra i sessi, mettendo in luce le debolezze di quell’esperienza di integrazione e minacciandone il proseguimento. Alla fine però trionfa l’intesa sessuale e politica tra il presidente di Pacifica, che è una donna, e il suo ministro dei Media nonché marito e amante: le opposte fazioni vengono raggirate e neutralizzate, e i pacificani possono utilizzare sia le conoscenze della Scienza Trascendentale depurate dell’ideologia che le accompagna, sia alcuni spunti delle femocratiche, senza tuttavia tradire il loro modello. Spinrad non riesce a ripetere l’esperienza del suo primo romanzo, Jack Barron e l’eternità (Fanucci, 1973, L. 7.000), né sembra capace di trasformare, come la Le Guin, l’ideologia in meccanismo narrativo. Giudicato sul terreno delle prese di posizione, A World Between è un libro stucchevole e noioso, che esprime un’ideologia passatista e nostalgica (tornare a “prima della crisi”, “parlare sottovoce, al cuore” invece di urlare e scannarsi in nome del fanatismo): nonostante esprima tematiche più vicine a noi, rimane inferiore, come resa complessiva, sia all’introspezione dei Dispossesed che alla rabbia e all’ironia di The Female Man. Ma forse non è così che va letto: nelle sue parti più riuscite, che sono, come già in Jack Barron, quelle che descrivono la rete dei media di Pacifica, l’esaltazione kennediana della “democrazia elettronica” lascia il posto a una descrizione più fredda ed efficace della comunicazione elettronica. E la Scienza Trascendentale che altro è, anche questa volta, se non l’intero armamentario delle scienza della fantascienza? La sconfitta dei trascendentali, allora, può forse significare, anche per Spinrad, una coscienza della fine della fantascienza, di questo “buon, vecchio immaginario” che ci ha nutrito per tanto tempo e oggi ci lascia, parlando di se stesso per l’ultima volta.


mercoledì 10 febbraio 2021

Antonio Caronia: Il pelo e il vizio

 


Linus agosto 1980

Anche questa volta, visto che l’estate impazza e voi siete probabilmente più refrattari del solito alle nostre più sconvolgenti elucubrazioni, ci limitiamo a passarvi alcuni modesti consigli di lettura, rimandando all’autunno una (peraltro doverosa) riflessione sul perché vi andiamo propinando mensilmente questo sconnesso discorso a più voci, sulla cui ricezione siamo comunque angosciosamente privi di dati. Anche sull’efficacia di questi consigli, in realtà, nutriamo dubbi consistenti. Da un primo, sommario esame, infatti si può assumere l’ipotesi che i lettori di Linus si distribuiscano, rispetto alla nostra rubrichetta, nelle categorie seguenti: 1) appassionati ultra informati di fantascienza, che hanno letto già tutto prima di noi e che si fanno un baffo delle nostre recensioni/segnalazioni; se le leggono, lo fanno solo per poterci irridere e/o prenderci in castagna alla prima inesattezza; 2) intellettuali, fumettofili e affini, moderatamente interessati alla fantascienza, che giudicheranno troppo “iniziatico” il nostro discorso e continueranno con più profitto a leggere Gabutti; 3) i restanti lettori, mediamente squilibrati, che saltano senz’altro la rubrichetta. Sarebbe confortante per noi poter ipotizzare l’esistenza di una categoria 4), non vuota (sarebbe sufficiente all’uopo che contenesse anche un solo elemento), costituita da lettori non esclusivi di fantascienza, che per la loro vivacità intellettuale siano stufi di leggere Asimov, ma abbastanza digiuni di semiologia da poter essere incuriositi dalle letture che noi proponiamo. Nella speranza perciò, che la nostra fatica possa continuare ad essere annoverata tra i servizi sociali, sia pure nel senso restrittivo qua sopra esposto, torniamo a bomba. Che cosa si può leggere, quest’estate in Italia, di quella “nuova fantascienza” di cui ci sentiamo immeritatamente dei modesti divulgatori? Non molto, la risposta è ovvia. Avremmo voluto segnalarvi, fra i primi, l’ultimo romanzo di John Varley, uno fra i più interessanti nuovi autori americani, che ha al suo attivo una bella raccolta di racconti, The persistence of vision (alcuni sono apparsi in Italia sulla defunta Robot e sulla Rivista di Isaac Asimov) e il romanzo Linea calda Ophiucus, qui pubblicato da Sonzogno. Varley è, in qualche modo, uno dei continuatori di Delany, soprattutto per quanto riguarda le tematiche della sessualità e della crisi della personalità, per le quali è ovviamente debitore anche alla nuova fantascienza femminileJohn Varley, : ma non si fatica a riconoscere nelle sue opere anche l’influenza di Ursula Le Guin. Il romanzo Titan, uscito in usa l’anno scorso, riepiloga un po’ i temi e luoghi a lui cari (la sessualità, appunto, lo scarto tra oggettività e soggettività, la crisi dell’individuo in rapporto alla scienza e alla tecnica), proiettati questa volta sullo sfondo dell’ignoto e della presenza della trascendenza: siamo infatti su un pianeta “vivo”, che ha creato sul suo corpo un mondo mitologico, con apporti greci, cristiani e di altro tipo: lì la storia è veramente “il sogno di un folle”, e se centauri e gli angeli non sono più una metafora, il pianeta Gea può esserlo benissimo. In realtà, però, è inutile che andiamo avanti: questo romanzo in Italia, almeno quest’estate, non potete leggerlo, a meno che non leggiate l’inglese e non ve lo procuriate in edizione originale. Infatti Titano (Urania 839, Lire 1.000), che figura come l’edizione italiana di Titan, è stato trasformato in una storiella avventurosa per educande. Dev’essere stato un lavoro redazionale bestiale; episodi veri e propri non ne sono stati tagliati, anche se a volte qualche particolare mancante rende la storia un po’ balzellante e difficile da capire, ma tutto il testo è stato sottoposto ad una serie capillare di tagliuzzamenti, riassuntini, aggiustamenti, che lasciano a malapena lo scheletro e scarnificano abbondantemente il resto. Le più colpite sono state le scene erotiche, ovviamente (ma non pensate alla pornografia: il lettore ideale che ha in mente la signora Negretti, redattrice di Urania, sarebbe disturbato anche da una frase come questa: “La lingua di Bill era partita dai piedi di Cirocco e adesso stava esplorando il suo orecchio sinistro”, p. 4 dell’edizione tascabile americana, Berkeley 1980); e poi una miriade di osservazioni, particolari, gesti, movimenti, battute, certo “inessenziali” per sapere “come va a finire la storia”, ma forse importanti per delineare i personaggi. Questa dei tagli di Urania è una storia vecchia: ma lacune recenti dichiarazioni dei responsabili di Mondadori facevano credere che fosse anche una storia passata (v. Un’Ambigua Utopia n. 1, 1980 e La bottega del fantastico n. 1, 1980). Come dire: la Negretti perde il pelo, ma non il vizio (o forse sarà il contrario…). Non ci rimane, ahinoi, che ripiegare sulle riedizioni. E per fortuna c’è la Nord che, se quest’anno non brilla per le novità (a parte Il serpente dell’oblio, di cui vi abbiamo parlato il mese scorso), sta offrendo delle interessanti ristampe. Quelle che vale senz’altro la pena di leggere sono i due Dick, I giocatori di Titano (Narrativa d’anticipazione, L. 2.500) e I simulacri (Cosmo oro, s.i.p.) e l’ormai famoso I reietti dell’altro pianeta di Ursula Le Guin (Narrativa d’anticipazione, Lire 3.500). Quest’ultimo, nonostante l’orripilante titolo, è ormai un classico della fantascienza “politica” nell’epoca della crisi dell’utopia, e uno dei libri più belli della scrittrice dell’Oregon: chi non l’ha letto non può neanche rendersi conto dei difetti di Ursula Le Guin, che sono difetti di gran classe. Quanto a Dick, ormai è chiaro che egli è all’origine di quasi tutta la fantascienza più interessante degli ultimi vent’anni, e in particolare di tutta la tematica del contrasto (o dell’identità) tra realtà e illusione: anche i due titoli segnalati, il più interessante dei quali è I simulacri. Ma se volete saperne di più e meglio di come potremmo dirvelo noi, vi consigliamo di leggere le introduzioni di Carlo Pagetti a tutti e tre i libri.


lunedì 8 febbraio 2021

Antonio Caronia: Fianco destr!

 


Linus novembre 1983

Rivendicano un loro “fascismo” (sia pure in senso nostalgico, più nel senso di fascismo-movimento che in quello del fascismo-Stato), ma poi scrivono: “A un potere che ha fatto propria la simbologia e la prassi della morte, non si può che rispondere lottando per la vita, quella vera, quella dei non garantiti”. Inalberano ancora il motto “Il nostro onore si chiama fedeltà” ma parlano di nuovi giovani, di frammentazione contemporanea del linguaggio, di egemonia culturale. Leggono Evola ma anche Baudrillard, e quando parlano di se stessi e del proprio passato ammettono senza imbarazzo di avere anche imparato dai loro compagni di scuola di sinistra. Che i giovani di destra in tutti questi anni, non abbiano vissuto in mezzo a un deserto, ce lo potevamo immaginare. Ma quello che è più interessante è capire come una parte di essi sia evoluta, quali percorsi abbiano fatto, come mai appaiono (lo osservava Giovanni Tassani nell’incontro su “Sinistra e Nuova destra” del dicembre scorso a Firenze) più attrezzati dei loro coetanei di sinistra ad affrontare questa nuova fase di dopo-guerra civile. “Sorpresi”, come essi stessi confessano a volte, dal Sessantotto, i giovani di destra hanno attraversato gli anni Settanta subendo l’egemonia culturale e (dove più, dove meno) l’impatto fisico della sinistra. Hanno imparato a proprie spese gli effetti paralizzanti della polarità, a destra, fra le posizioni di tipo reducistico e nostalgico e quelle della lotta armata. Hanno dovuto, anche loro, fare i conti politici e pratici con le proprie “variabili impazzite”. Poi , poco a poco, ne sono usciti. Una larga parte di loro, attraverso l’esperienza dei tre campi Hobbit del 1977, ’78 e ’80 e della formazione dell’area della Nuova destra, dopo un periodo di permanenza fuori dal Msi in attesa che Rauti trovasse una collocazione interna più stabile, si è dedicata alla riorganizzazione del Fronte della Gioventù. Il Fronte è un’organizzazione che in molte città, rispetto all’immobilismo o alle incertezze della sinistra, appare in crescita di iniziativa e, forse, di successo. I responsabili del FdG di Milano, dove più che altrove si era fatta sentire la stretta della sinistra e dell’”antifascismo militante”, parlano orgogliosi dei nuovi circoli sorti l’ultimo anno in provincia, dei convegni e delle assemblee, del lavoro di selezione e formazione dei quadri, della tiratura del loro giornalino, “Fare fronte”, arrivata nel corso dell’anno a 2000 copie. Si tratta, come si vede, di un’organizzazione ancora modesta rispetto alle dimensioni dei gruppi extraparlamentari di dieci anni fa e della Cl di oggi, ma è la linea di tendenza che indica la crescita. Appaiono sicuri di sé, culturalmente aggiornati, consapevoli delle difficoltà ma fiduciosi nella loro linea. “Quando abbiamo ripreso la militanza nel Msi”, dice Marco Valle, segretario del FdG di Milano, “abbiamo trovato una situazione di frammentazione anche nelle nostre aree giovanili. Più che aggregazioni politiche, c’erano bande e circoli che si dicevano fascisti, ma il cui punto di riferimento era più che altro musicale o sportivo. Del resto questa è la caratteristica dei giovani di questi anni, essenzialmente nichilisti, molto meno permeabili alla politica delle generazioni precedenti, di destra e di sinistra. Dobbiamo evidentemente adattare il nostro linguaggio, comprendere le loro specificità”. “E anche”, aggiunge il vicesegretario Luca Bertazzoli, “individuare i luoghi e i meccanismi della loro socializzazione primaria. A Milano, adesso, stiamo appunto discutendo se la scuola sia uno di questi luoghi, cosa che a noi sembra sempre più dubbia”. A questo livello dell’analisi le considerazioni, a volte anche assai articolate, sono molto simili a quelle della sinistra (il che dimostra comunque, che un certo inserimento sociale ce l’hanno). Ma mentre a sinistra l’analisi del mondo giovanile e la fine dell’ubriacatura ideologica produce il più delle volte cautela, tendenza a rimanere il più possibile aderenti a un terreno di rivendicazioni immediate, qui è diverso. “Ai giovani”, è sempre Valle che parla, “noi vogliamo far riscoprire il gusto della politica, ma non nei termini dei giochi di piccolo cabotaggio: la politica la concepiamo come sogno, come avventura, anche come mito, mito della rivoluzione. Il superamento rivoluzionario del capitalismo è l’esigenza centrale di questi anni, dopo che le vecchie antitesi, fascismo/antifascismo, destra/sinistra si sono del tutto logorate. E oggi il nemico principale fra i giovani è la presenza neo-moderata di Cl”. E l’estrema sinistra? “Non abbiamo preclusioni nei loro confronti”, dice Bertazzoli, “come ne abbiamo invece verso la Fgci, che consideriamo una forza reazionaria. L’antifascismo militante, d’altra parte, è morto e sono ben altri i problemi su cui si deve misurare chi vuole far politica fra i giovani oggi: il post-terrorismo, il problema dei missili e dell’indipendenza nazionale, i nuovi saperi che crescono in una situazione di grave crisi”. Questa tendenza a privilegiare discorsi generali rispetto a obiettivi immediati è naturalmente indizio di una debolezza della giovane destra, perché indica un radicamento ancora scarso in situazioni concrete. Ma potrebbe anche essere, in certe condizioni, un punto di forza, se consentisse loro una certa aggregazione di giovani “nostalgici” di sicurezze, idee-forza, ideologie. Il loro discorso sull’indipendenza nazionale sa molto (né essi lo nascondono) di gollismo: la loro opposizione è ai missili americani, mentre vedrebbero di buon occhio un armamento atomico nazionale. Il loro collocarsi nella “galassia fascista”, pur con un’accentuazione mistica e neo-romantica, è indubbio. E poi, dal punto di vista delle ascendenze storiche, fanno comunque parte di quella destra radicale che (come Giorgio Galli ha spiegato così lucidamente) si rifà a una tendenza ben viva della cultura occidentale, anti-ugualitaria, anti-illuministica e per così dire, “tradizionale”. Ma, vista l’ampiezza del terremoto ideologico e politico a sinistra, chi se la sente più di custodire certi steccati? Il “pensiero della differenza” non è oggi discusso (e spesso, in una qualche variante, assunto) anche a sinistra? La rivalutazione delle culture regionali e delle tradizioni popolari non è uno dei caratteri anche della nuova cultura politica, della sensibilità dei giovani di sinistra? E i giovani di destra, quando proclamano la loro tenace avversione all’”american way of life”, non riprendono in fin dei conti un punto centrale della visione politica della sinistra, nuova e giovane, della fine degli anni Sessanta (al punto di ricalcarne, a volte fin troppo smaccatamente le formulazioni)? Ma neppure su questo c’è da stupirsi, perché sulle “coincidenze” fra un certo Evola e un certo Adorno, negli ultimi tempi, qualche luce è stata fatta. Il punto è semmai vedere quale grado effettivo di comprensione (e di trasformazione) della realtà siano in grado di assicurare queste posizioni – di destra o di sinistra che siano – di derivazione “apocalittica”. Il fatto è che il linguaggio e l’ispirazione dei giovani del Fronte, quando si va un po’ a fondo, assomiglia molto più a quello della Nuova destra che a quello della dirigenza del Msi. E se le soluzioni date ai problemi sono quasi sempre discordi, resta il fatto che i titoli dei problemi siano quasi sempre gli stessi, fra i giovani di sinistra come fra quelli di destra. Il che, in una fase di transizione come quella che viviamo, è forse la cosa più importante, se è vero che l’individuazione dei problemi condiziona già in buona parte le risposte.

sabato 6 febbraio 2021

Antonio Caronia: L'effimero dell'effimero

 


Linus gennaio 1982

È in corso una grande discussione sull'effimero. Essa sembra molto meno evanescente del suo oggetto, visto che la ritroviamo da mesi dentro a interventi, polemiche, dibattiti, sui fatti della cultura e dello spettacolo, in quasi tutti i giornali. Il film spazzatura, l’estate romana di Nicolini, I predatori dell’arca perduta, i convegni culturali e le mostre, ogni argomento di discussione ripropone lo stesso problema: che atteggiamento si deve assumere di fronte alla capacità sempre più evidente dell’industria culturale di creare e insieme soddisfare una domanda molto ampia di informazione ma soprattutto di spettacolo? Come si deve valutare la propensione del pubblico a consumare l’evento culturale, sia esso un film, una conferenza, una mostra, in modi sempre più simili, sempre più caratterizzati da ciò che qualcuno ha chiamato una “curiosità indifferente”? Che segno ha l’abbandonarsi di molti, soprattutto giovani, all’”evasione” nel libro o nel film fantastico? Gianfranco De Turris, che da solo o con Sebastiano Fusco, interviene ormai da parecchi mesi su queste pagine su questi temi, lo ha fatto, specialmente negli ultimi articoli, con la preparazione e l’attenzione anche a posizioni ben diverse dalle sue che lo hanno sempre contraddistinto. Della qual cosa, è chiaro, bisogna essergli grati, come delle lance che ha spezzato in favore del “fantastico” e contro i pregiudizi che contro di esso ancora circolano, anche e soprattutto – perché non riconoscerlo? – nella cultura di sinistra. Tuttavia, dato che mi sembra che le sue tesi facciano rientrare dalla finestra quello che poteva sembrare essere stato cacciato dalla porta, varrà forse la pena di discuterne un po’. Nell’articolo Trasgressione e degradazione, apparso sul numero di novembre, De Turris comincia a dare una descrizione del fenomeno un po’ bizzarra, che sembra corrispondere poco a quanto si vede in giro. I giovani che frequentano Massenzio, che visitano i bronzi di Riace, che riscoprono gli anni Cinquanta e leggono Tolkien, secondo il nostro “vanno alla ricerca di un ‘mondo di valori’ alternativo all'attuale”, rifiutano “l’ormai agonizzante società dei consumi, il materialismo e la secolarizzazione in nome di qualcosa di più alto”, che consiste in “più spirito e più religiosità, più coraggio e più amore, più lealtà e più onore”. Persino Umberto Eco, con il suo romanzo, si sarebbe fatto strumento inconsapevole di questa meritevole ricerca: volendo dimostrare che non esiste una conoscenza “tradizionale”, che la cultura non ha un centro, avrebbe invece finito per dipingere “l’affresco affascinante e coinvolgente di un mondo che è in totale opposizione ‘metafisica’ con quello dei nostri giorni” (controllare per credere, Il sogno medievale su Linus, ottobre 1981). Le obiezioni sono due. La prima riguarda l’esattezza, per così dire, della fenomenologia. Qui De Turris sembra descrivere, più che l’atteggiamento più diffuso tra i giovani e meno giovani consumatori dei prodotti culturali in esame, le opzioni ideologiche di ristretti circoli, di chi appunto colora la sua “rivolta contro il mondo moderno” di toni metafisici e spiritualisti. Ma, poco male, si potrebbe pensare: forse quegli atteggiamenti, quelle opzioni, sono ancora poco diffusi, ma desiderabili. Se essi corrispondono a qualche tendenza, sia pure ancora minoritaria, potrebbero essere aiutati a svilupparsi, a diffondersi. Ecco, vorremmo allora dichiarare la nostra più completa indisponibilità a un eventuale progetto di questo genere. Quello che a noi piace di questa epoca (accanto, ovviamente, a tante altre cose che ci piacciono meno) è proprio la sua disponibilità a liberarsi dalla metafisica, la sua capacità di fare a meno di categorie filosofiche, estetiche e pratiche di tipo forte (categorie grimaldello, o passe-partout, capaci di spiegare ogni cosa con eleganza e semplicità). Il costo di queste categorie l’abbiamo pagato un po’ tutti, sulla nostra pelle: figuriamoci se abbiamo rifiutato il dogmatismo marxista o razionalista classico per abbracciarne uno tradizionale, medievalista, spiritualista o che altro sia. E comunque, per chi voglia formulare qualsiasi progetto di trasformazione del reale (stravolgimento, rivolgimento e restaurazione che sia) è importante prima di tutto capire che cosa accade: il che a De Turris non riesce. Quando (sempre su Linus di novembre) se la prende con Pagetti, reo di aver colto anche nelle vicende italiane del ’78 (rapimento Moro) un “progressivo spostamento culturale nella direzione del fantastico e della fantascienza”, De Turris se ne esce con parole rivelatrici: parla di disagio di fronte “a una realtà indegna e miserabile”, contrappone la “trasgressione del reale” rappresentata dal fantastico alla “degradazione della realtà”, della politica, del costume, dei media, affastellando i più importanti delitti politici degli anni Sessanta ad oggi, la P2 e il bambino nel pozzo. Se fosse veramente così, avremmo ben poco da stare allegri. L’interesse per il fantastico sarebbe veramente un isolarsi un po’ masturbatorio, e mentre nella Terra di Mezzo Elfi e Orchi si massacrano, spade rifulgono, e Hobbit tentano di conservare la propria indipendenza di produttori agricoli precapitalistici, le cose, qui da noi, continuerebbero a marciare come hanno sempre marciato in modo indegno, miserabile e degradato. A meno che la salvezza non ci arrivi da quei famosi giovani che cercano spirito, religiosità, coraggio, amore, lealtà e onore. Le cose stanno in modo un po’ diverso. Non è che la realtà fa schifo e quindi va “trasgredita” nell’immaginario (questo è quello che, ne fossimo coscienti o no, abbiamo pensato per tutti i nostri anni “politici”, dal ’69 in poi): è che la realtà ormai comprende tutto, e quindi ha dei problemi a farsi riconoscere come realtà, come un mondo distinto da un altro che non è realtà. Qui l’interesse attuale per la fantascienza e il fantastico trovano le loro radici: nell’incredibile accelerazione dell’innovazione tecnologica, nell’oggettivazione sempre più spinta delle funzioni sociali, che oltre (o insieme) a tutte le conseguenze disgregatrici della struttura sociale che per anni abbiamo denunciato porta con sé anche una modificazione del nostro immaginario, che ci apre possibilità prima impensate. De Turris fa bene a farsi beffe dei francofortesi in ritardo, dei lamentatori della morte della “cultura politica” o della “funzione critica della cultura”, ma poi non si accorge di assumere lo stesso atteggiamento moralistico e sdegnoso che rimprovera loro (o forse lo sa benissimo, e “ci marcia”). È il solito atteggiamento delle avanguardie, di chi predica una “verità” riconosciuta da pochi o, nel migliore dei casi, attende fiducioso che i molti (o, almeno, qualcuno in più dei pochi) prima o poi ci arrivano. È l’atteggiamento dei “critici del mondo moderno” di cui a più riprese De Turris ci fornisce la lista: Spengler, Guénon, Evola, Benda, Ortega y Gasset (non è incluso, molto opportunamente, Banjamin, ma avrebbe potuto esserci, con qualche cautela, Adorno). Tutti costoro (“ognuno secondo la propria personale angolazione”, ricorda opportunamente De Turris) hanno visto e descritto molto lucidamente le premesse e gli inizi dei processi che oggi vengono a maturazione: la morte del sacro, l’omogeneizzazione del sociale, la spersonalizzazione e l’oggettivazione, la diffusione e il trionfo della tecnica. In questo senso molte di quelle analisi (forse non tutte) sono apprezzabili e utilizzabili ancora oggi. Che cosa c’è, invece di utilizzabile in esse? Proprio quello che De Turris mostra di apprezzare, e che spiega le ragioni per cui quegli autori vengono assunti ad alfieri di tutta la cultura della destra più intelligente: la loro nostalgia per l’epoca che precede la modernità, per un mondo non diviso e non scisso, capace di vivere collettivamente e “in profondità” l’esperienza del mito e del rito (tutto questo lo spiega molto meglio di me Furio Jesi nel suo Culture di destra, edito da Garzanti). Ora ci sarebbe da discutere su quanto i mondi e le civiltà classiche, o comunque pre-moderne, siano corrispondenti a questo quadro (guardate, per esempio, il bellissimo lavoro che ha fatto Walter Burckert per quello che riguarda la società greca in Homo necans, uscito quest’anno da Boringhieri). E in tutti i casi questo mondo è ormai morto, spazzato via dall’avvento del capitalismo e della società industriale, che hanno trasformato irreversibilmente le condizioni di vita e le strutture sociali che rendevano possibili quelle esperienze. Il che non vuol dire, naturalmente, che tutta la funzione simbolica che si accompagnava al mito sia scomparsa: solo, si presenta riciclata in forme del tutto nuove, staccata dal senso che aveva in quelle società, dal sistema di credenze individuali e collettive che determinava fusa e mescolata con mille altri elementi dentro l’immaginario collettivo della nostra epoca, nel processo di continua osmosi e passaggio tra cultura “alta” e cultura “bassa” che caratterizza i dispositivi dell’industria culturale. Questa è l’operazione che ha fatto la fantascienza, questo è il “protocollo di lettura” con cui si leggono oggi anche le opere, o si vanno a vedere i film, del filone “fantastico”: a volte anche al di là delle intenzioni dei loro autori. Chi vuole assumere, di fronte a tutto ciò, l’atteggiamento dell’apocalittico, faccia pure. Tenga conto che questo suo atteggiamento è – come ha già dimostrato Eco quasi vent’anni fa – solo l’altra faccia della medaglia dell’integrazione più subalterna. Noi preferiamo tutto sommato nuotare nell'acqua che c’è, come Benjamin, “senza riserve per la nostra epoca, senza avere alcuna illusione nei confronti di essa”.