martedì 22 dicembre 2015
sabato 12 dicembre 2015
Eleonora Fiorani: intervento al convegno Logic Lane
La “sfida allo sguardo” del corpo
artificiale
Eleonora Fiorani
E’ alle dinamiche
di costituzione del soggetto che Caronia ha rivolto la sua attenzione nel suo
intervento in Girare su se stessi. Emancipazione, libertà, liberazione, in E
manu capere. Come Foucault Caronia abbandona l’approccio tradizionale al
problema del potere basato su modelli politico-istituzionali per volgersi al modo in cui il potere penetra
nel corpo vivo dei soggetti e delle loro forme di vita. Disciplinando i corpi,
includendo la nuda vita nei meccanismi e nei calcoli del potere statuale, la
politica si trasforma in biopolitica, ben più capillare e insidiosa del
precedente potere che “uccide e lascia vivere”.
E’ questo soggetto desoggettivizato a me pare
il tema sempre sotteso delle teorizzazioni di Caronia del cyborg che vorrei a
sua volta definire un corpo desoggettivizzato perché è proprio la figura del
cyborg che mostra come “sono le strutture, il sistema stesso del
linguaggio - e non il soggetto - che parlano” per cui si rende inevitabile
l’incontro con il corpo, che è esteriorità visibile ed esemplare su cui non
solo il potere si istoria, con le sue pratiche e le sue discipline, ma è un
corpo inteso come la superficie di iscrizione delle tecnologie e un luogo
attraversato dal desiderio.
Nell’aggiornamento
che Caronia fa del testo del 1985 nel 2001 in relazione con il postmoderno sono
infatti protagoniste le tecnologie del linguaggio. Il linguaggio non
media solo il nostro rapporto con il mondo e con gli altri, è costitutivo del
nostro stesso Io, della coscienza e della corporeità.
Se per
Merleau-Ponty è il corpo che parla, per Caronia sono i saperi, le tecnologie e
le configurazioni linguistiche che lo parlano. Rifacendosi a Dick, Cronenberg,
Ballard ma anche a Lacan e allo strutturalismo, a Nietzsche e a Foucault,
Caronia con la figura del cyborg presenta il corpo come un luogo in cui si iscrive l’immaginazione che
è un dispositivo non solo riproduttivo, ma produttivo, che ricombina, integra,
progetta, configura, e interattivo che incide sull’ambiente. L’era immateriale
configurata dalle nuove tecnologie infatti non significa affatto la fine del
corpo, ma un suo mutamento. L’immaginario penetra e si iscrive nel nostro
sistema nervoso come diceva Ballard.
E’ su questo
terreno che si iscrive il corpo mutante e disseminato del cyborg e il fatto che mai come oggi si è parlato
tanto della corporeità. E’ il corpo visto come macchina al lavoro che tende al
simbolico mondo delle protesi, e agli strumenti che dilatano le capacità motorie
e manuali e quelle intellettuali. Scompaiono i confini tra corpo e tecnologia,
tra mente e macchina. Il nostro corpo è sempre più un corpo tecnologico per cui
si ridefinisce la percezione umana, che non si può scindere in compartimenti
stagni, e ciò investe il corpo nella sua totalità.
E se da sempre, addomestichiamo e “indossiamo” il nostro corpo,
costruendo su di esso un altro corpo, facendone la conferma ai processi sociali
e rendendolo insieme individuale, più proprio a chi lo “indossa”. E se fin dalle
origini, per quanto possiamo parzialmente ricostruire, il corpo è stato
ampliato da protesi e apparati “artificiali” che ne modificano le possibilità
di interazione e di presa e di costruzione di se stesso e del mondo, il corpo
protesico e macchinino messo in atto dalle nuove tecnologie, muta la stessa
“materia prima” biologica dell’uomo (Caronia, 1996). Le nuove tecnologie
contribuiscono a disseminare a dismisura, con l’interposizione di interfacce
tra l’io e i suoi organi periferici, il corpo invisibile e più esteso dei
sensi. La realtà virtuale lo dissemina nelle reti e negli spazi virtuali. Per
questo non è facile dire dove termini il corpo, che già i nostri sensi
estendono oltre la pelle, che ha occhi come dice la Ackerman (1991), è la linea
di confine, o “la prima interfaccia” del nostro corpo, il luogo degli scambi e
del contatto.
La realtà virtuale si può vedere, toccare, sentire, ci conduce in un
ambiente tattile, aggiungendo la mano alla mente. Il casco e la manopola
agiscono come sorta di pelle artificiale e riescono anche a costituire un
efficace meccanismo per interagire nello spazio virtuale. Possiamo realizzare i
nostri sogni, viverli da dentro, toccarli. E già si è fatto corpo l’antico
sogno del doppio. Il mondo stesso è ora un’illusione del mondo creato dalle
nostre protesi.
Ciò rimette
in causa il luogo di formazione delle immagini mentali e determina una crisi
senza precedenti della rappresentazione. E insieme si dà uno ampliamento ed
estensione dei nostri sensi, come se avessimo il “cervello fuori dal cranio”, e
i “nervi fuori della pelle”, come dice A. Caronia (1993), con effetti tali da
richiedere un oltrepassamento del linguaggio o un nuovo ambiente perché “quando
si è in grado di creare ogni tipo di realtà non c’è più bisogno di descrivere
il mondo” (Lanier). “In Ballard – scrive Caronia in Archeologie del virtuale (2001: 99) “l’interno e l’esterno, il
corpo e il mondo diventano l’uno in funzione dell’altro, anzi si compenetrano,
diventano un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una
scrittura crudele e impietosa la fine della modernità”.
L’emersione
della realtà virtuale, aprendo nuove possibilità di ricerca e di progettazione,
ci ha reso consapevoli che la visione del nostro corpo non è data una volta per
sempre: il corpo è storia, e la sua storia è quella della sua progressiva
artificializzazione, fino all’ibridazione. E l’ibrido definisce una nuova
morfologia, qualcosa che non ha ancora identità e non ripete forme o realtà già
esistenti. Rompe gli schemi e non rientra nelle tassonomie.
L’uomo non è
più confinato nella sua pelle. <<La percezione cibernetica implica
tecnologie transpersonali, quelle della comunicazione, della condivisione,
dello scambio, della collaborazione, la tecnologia che ci rende capaci di trasformare
il nostro essere, di trasferire i nostri pensieri e di trascendere i limiti del
nostro corpo.>>, scrive De Kerckhove (2000/2001).
Il corpo
virtuale implica una nozione di identità che si costruisce e si modifica in
connessione con altri nei processi comunicativi virtuali. Il “corpo flusso” del
cyborg è un corpo senza confini, senza identità fisse, che si confonde con
l’esterno, un corpo che si modifica all’infinito. Il trattamento digitale delle
immagini (morphing) ci avvia a corpi fluidi e malleabili. Negli immaginari
indotti dalle nuove tecnologie si delineano i nuovi territori, in cui le
ibridazioni degli uomini con le macchine prospettano nuovi vissuti estetici e
nuove modalità di conoscenza e di fruizione. L’accettazione di una logica di metamorfosi
e di flusso implica non solo che sia l’uomo a modificare il suo corpo, ma che
il corpo stesso possa scegliere la metamorfosi continua.
Attraverso
l’innovazione tecnologica (ingegneria genetica, biotecnologie, robotica), il
corpo funge da soggetto tecnico e diviene oggetto da riprogettare: è un
corpo-oggetto-macchina, sempre più determinato dalle protesi motorie,
sensorio-percettive e intellettive. O, come lo pensa Sterlac, è un “corpo
cavo”, aperto ai nuovi organi artificiali.
Il corpo virtuale
non ha né carne né sangue ma è il tramite tra i corpi di carne e di sangue. Inoltre
il corpo virtuale riannoda i fili del perduto “corpo dionisiaco”, evocato dalle
Avanguardie di primo Novecento e il contemporaneo “corpo glorioso”, che
proietta su di sé segni d’arte: un corpo aperto che si offre al mondo sia con
la liberazione totale del corpo sia con il suo ingresso in un involucro e
perfino con la sua metafisica distruzione a vantaggio del macchinino e della
marionetta, che non sono il meccanico o il macchinale, ma caso mai macchine
desideranti e macchine celibi. Per significare un corpo nuovo.
Il corpo non
è solo il “luogo” privilegiato della strategia repressiva, che normalizza il
desiderio e lo riconduce alle istanze della Legge. E’ anche il luogo in cui recuperare
il corpo e far valere i piaceri e i saperi nella loro molteplicità, in un
movimento aperto di differenziazioni e di metamorfosi. Racchiude anche,
istoriata nella sua carne, la potenza della vita e del desiderio. E’ questo che
ha richiamato l’attenzione di Caronia per il cyber manifesto di Donna Haraway.
E il
riferimento a Deleuze che parte dal corpo e permanendo in esso pone il rapporto
con la molteplicità e la diversità, indagando già a partire dalla Logica del
senso (1969), attraverso Nietzsche, il rapporto tra singolarità preindividuali
e individuazione corporea. Perché per Deleuze corpo è superficie scivolosa,
opaca, tesa, flusso amorfo e indifferenziato. E dato che non c’è fondamento, è
senza fondo. E quindi pensa il corpo al singolare, senza organi, come dice
Artaud, spogliato di ogni dimensione organica, che diviene il “luogo di
trasmigrazione”, di registrazione di effetti, di visibilità, udibilità,
dicibilità, individuazione, il luogo da cui affiorano i continenti e tutti i
nomi., Percetti e affetti sono autonomi e autosufficienti, sono il divenire non
umano dell’uomo.
Così ora che siamo di fronte a un mutamento epistemico radicale che
rivaluta la conoscenza sensoriale per una nuova qualità della vita, il corpo si
fa racconto attraverso la propria esperienza fisica e si apre un diverso
approccio ai modi e ai campi del sensibile, per andare a interrogare le reti, i
grappoli, i fasci sensoriali, la polisensorialità della significazione (J.
Fontanille).
La mutazione e l’ampliamento delle sensorialità e del mondo
esperienziale è stato il grande tema dell’immaginario cyborg e del posthuman. E
porta oggi alla ricerca di sensazioni nuove, apre a nuove frontiere della
sensibilità e a nuovi linguaggi.
Il corpo è
infatti anche corpo sovversivo, dotato di una propria intenzionalità, luogo del
desiderio, dove si fa visibile di quale società il corpo ha bisogno, e quale
desidera, sogna: e lo fa anche
producendo sintomi ribelli e “caotici” che aprono continue brecce nei conflitti
tra mente e corpo, natura e cultura, corpo individuale e sociale.
Merito di
Caronia con la sua analisi del cyborg è anche l’aver assunto lo scacco
analitico che si manifesta nell’eccedenza di discorsi e saperi che investono il
corpo. Per questo il libri di Caronia terminano sempre con delle domande che
aprono a nuovi percorsi, che sono quelli del mutamento di paradigma aperto
dalle nuove tecnologie che connettono non solo persone, ma cose, prodotti e
tutti gli oggetti generati dai dati, e dai nuove forme di vita degli oggetti tecnici
e da quella che è stata chiamata la terza rivoluzione digitale dei nuovi
artigiani digitali, dei marker e dei fablab.
sabato 5 dicembre 2015
Massimiliano Viel: intervento al convegno Logic Lane
Do Androids Sing in the Shower?
Massimiliano
Viel
LOGIC
LANE - ANTONIO CARONIA. Milano 5/6 06 2015
Quando
mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro ho subito pensato di
indagare il possibile legame tra l’opera di Philip Dick, un autore spesso
associato al nome di Antonio Caronia e che anch’io ho letto molto, e un tema
che mi interessa particolarmente e cioè quello del rapporto tra musica e
potere. Non a caso: la musica è sempre presente da qualche parte nelle opere di
Dick, un po’ come lo sono i gatti, ed arriva persino a meritare l’apparizione
nel titolo di un romanzo; si tratta di Scorrete Lacrime, Disse il Poliziotto,
titolo che riecheggia quello di “Flow my tears”, forse la composizione più
conosciuta di John Dowland, compositore rinascimentale inglese.
Quello
del potere, poi, è un tema addirittura onnipresente e pervasivo nel lavoro di
Dick. Lo troviamo a partire dal microcosmo della vita famigliare, tipicamente
tra il protagonista e sua moglie o la sua amante, o negli equilibri di un
gruppo di amici, come in Un Oscuro Scrutare o più in generale di un
gruppo di persone, come ad esempio in Ubik o in Labirinto di Morte,
fino a coinvolgere non solo l’intera società spesso ingabbiata in una distopia
totalitaria, sia essa di stampo militarista, religioso o consumista, ma anche
l’intera esistenza umana, o almeno quella del protagonista, perso tra mondi
paralleli, governati da divinità personalzzabili, come Palmer Eldritch, o
ingannato dal velo di illusione intessuto da forme biologiche parassite e
aliene per noi inconcepibili, come la Zebra di VALIS.
Ciononostante,
è estremamente difficile individuare nel lavoro di Dick una relazione esplicita
tra musica e potere, così che forse l’unico esempio che possiamo trovare è nel
finale di Radio Libera Albemuth, che è per così dire la “prova generale”
di VALIS, trilogia che costituisce l’ultima opera di Dick. Nella conclusione di
questo romanzo, la musica di una band pop è l’ultima opzione rimasta ai ribelli
per riuscire a delegittimare il dittatore Fremont, attraverso la diffusione di
messaggi subliminali. Dunque comunque alla fine non si tratta della musica in
sé che ha il potere di indurre la sovversione, ma del testo che in essa può
essere nascosto.
Eppure
proprio la musica, con la sua complessa architettura di relazioni tra scale,
note, accordi, figure e melodie che si ripetono e vengono variate, con le sue
forme e i suoi organici vocali e strumentali, ma allo stesso tempo con
l’ampiezza della sua diversità interculturale ben si presta a esemplificare il
processo di costruzione di un’ideologia e il suo volersi porre come orizzonte
di senso nel regime totalitario.
E
forse è proprio per questo motivo che ci sembra eccessivo pensare alla musica
come uno strumento di soggezione: in fondo la musica allieta, ci emoziona (come
vuole la retorica di massa); e se non è così, non è musica: è rumore, non ci
dice niente e guardiamo con sospetto chi sostiene che ciò che per noi è un
insensata accozzaglia di rumori per altri è musica. Ma anche quando la
riconosciamo come musica, la musica degli altri pur aliena ed esotica, spesso
non possiamo evitare di considerarla l’espressione di un livello culturale
inferiore rispetto al nostro, che è quello di
“esseri civili”. Oppure la facciamo discendere da un concettualismo che
interpretiamo più come truffa, come mistificazione, che come genuina manifestazione
musicale.
Oggi
si litiga molto sulla musica. Anche se siamo lontani dalle risse che
scoppiavano durante i concerti di musica contemporanea negli anni ’60, è facile
offendere qualcuno dicendogli che non apprezziamo un dato brano musicale che
magari viene adorato dal nostro interlocutore o peggio se gli smontiamo il
brano e lo riportiamo a banali cliché. Ciò avviene tipicamente perché ci
identifichiamo con la musica che ascoltiamo e se qualcuno rifiuta la nostra
musica è un po’ come se rifiutasse noi stessi. Siamo in genere disposti a tollerare
chi ha gusti alimentari diversi dai nostri, ma per qualche motivo con la musica
questo ci riesce più difficile; come diceva un meme di qualche anno fa: “se ci
devono mettere in prigione perché scarichiamo musica, che almeno ci dividano a
seconda dei generi musicali”.
Dunque
oggi sembra che l’ascolto musicale si stia spostando dal riconoscimento di
strutture al riconoscimento di generi, operando una formazione identitaria, una
distinzione sociale, non più attraverso il grado di sensibilità, ma attraverso
l’orientamento di questa verso specifici target, che formano le coordinate
sempre diverse di ciò che chiamiamo “musica”. Insomma, la musica oggi viene in
qualche modo reificata: diventa parte di un arredo, viene indossata come un
indumento, o un tatuaggio.
Formare
le identità, magari identità ad hoc, è uno strumento fondamentale nella
dominazione. L’identità non è semplicemente il modo con cui noi ci distinguiamo
dagli altri, ma è soprattutto la membrana cognitiva con cui diamo un senso al
mondo, è il nostro Umwelt personale. Così che noi non percepiamo
la nostra identità in sé, ma piuttosto l’alterità di ciò che ci circonda contro
la quale ci ergiamo in difesa, per così dire, della nostra integrità di senso.
Non c’è quindi da stupirsi se la musica, con la sua liquidità inafferrabile e
la sua pervasività inevitabile, possa divenire lo strumento ideale per formare
i cittadini del regno, della Prigione di Ferro Nera, come la chiama Philip Dick,
entro la quale siamo rinchiusi. E questo vale anche se la finalità diretta è
semplicemente quella di diffondere il più possibile un’opera musicale per avere
maggiori profitti, anzi, vi è una precisa connessione tra ripetizione e
modulazione della coscienza. Ed è proprio questo il punto: è attraverso la
ripetizione che si forma l’universo che incontriamo, come uno specchio sempre
incrinato.
Insomma,
è naturale quindi che mi sarebbe piaciuto leggere un romanzo di Philip Dick, in
cui per una volta fosse proprio la musica a squarciare il velo dell’illusione
costruito dal demiurgo parassita per dominarci e trasformarci in un docile e
insensibilmente felice gregge.
Magari
la storia sarebbe potuta iniziare a partire dal finale di Radio Libera
Albemuth, quando il protagonista, che è lo stesso Philip Dick, dall’interno
della prigione in cui è stato rinchiuso si rende conto che i messaggi
subliminali non sono bastati a sconfiggere il dittatore e che anzi, sono gli
stessi giovani, i destinatari di questi messaggi sovversivi, a consolidare il
potere del tiranno.
In
prigione però, lo scrittore si accorge del dilagare di uno strano culto i cui
adepti si riuniscono segretamente per ascoltare in silenzio un singolo suono o
a volte un accordo che continua per ore e ore, apparentemente senza minime
variazioni. Ovviamente Philip Dick, grande appassionato di Wagner e di Linda
Ronstadt, rifugge da questa setta, ma tra i detenuti incontra una giovane
ragazza, che è stata incarcerata per aver spacciato vinili di musica
degenerata. Questa introduce il protagonista a un mondo di culti e di pratiche
di ascolto di cui non aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza: chi ha fatto
voto di ascoltare per il resto della propria vita solo Gute Nacht di
Schubert, il primo Lied del Winterreise, chi invece è devoto al rumore
bianco, che per definizione contiene tutte le musiche del passato e del futuro
e cerca di recuperarle scolpendo con l’ascolto il rumore bianco come un blocco
di marmo, chi si riunisce per ascoltare le musiche portate dai singoli adepti,
però tutte insieme contemporaneamente, e tanti altri culti ancora.
Il
romanzo poi avrebbe potuto seguire il percorso esistenziale di Dick mentre si
addentra in queste pratiche vietate dal regime, descrivendo come ogni nuovo
esercizio dell’ascolto lo conduce a una diversa percezione del mondo intorno a
sé, un po’ come un’esperienza psichedelica. E piano piano il mondo si
trasforma. Il meccanismo di proiezione della realtà fittizia, il Vasto Sistema
di Intelligenza Vivente Attiva o VALIS come lo chiama Dick, sembra vacillare
perché non riesce a sostenere i continui cambiamenti cognitivi del
protagonista: dove prima c’era una cella ora c’è una palude, dove c’era un
secondino ora c’è una sorta di legionario romano da incubo, nel cielo ogni
tanto si può scorgere un gigantesco sguardo malevolo e sogghignante, ma soprattutto
al posto dei muri della prigione ora c’è lo spazio aperto. Che quello che si
percepisce sia la vera realtà, il sostrato, non è certo. Quello che è invece
certo è che il velo di Maya è stato squarciato. Ma solo per un momento.
Ora
però la resistenza sa finalmente cosa deve fare per sconfiggere il tiranno. Non
c’è bisogno di sottoporre gli ascoltatori a messaggi subliminali, tutto il
contrario: occorre far ascoltare a tutti i suoni e le musiche del mondo.
Bisogna occupare le televisioni, le radio, le sale da concerto e fare musica,
suoni, rumori di tutti i tipi. Certo anche Wagner e Linda Ronstadt hanno il
loro posto in questa babele sonora, ma il loro ruolo è cambiato: ora sono una
voce tra un miliardo, tra mille miliardi. Sono una possibilità, un percorso
sonoro unico. Ancora di più perché l’ascolto liberato delle persone può trovare
in questi brani ogni volta suggestioni diverse.
E
così alla fine, con il diffondersi di questa esplosione di diversità di ascolti
e pratiche, tutti riescono finalmente a vedere il tiranno per quello che è, la
Prigione di Metallo Nera viene distrutta e ora è possibile costruire una nuova
società. Ma un nuovo tiranno si sta già preparando per salire al potere.
Ecco,
un romanzo di Philip Dick sul rapporto tra potere e musica avrebbe forse potuto
avere una trama come questa. Oppure chissà, forse, anzi molto probabilmente, il
romanzo sarebbe stato completamente diverso.
sabato 28 novembre 2015
Jaromil Rojo: intervento al convegno Logic Lane
Il funerale di Antonio
Caronia, di quel ragazzaccio coltissimo, infaticabile
attivista e generosissimo educatore e studente al contempo, che era Antonio
Caronia, e' stata una celebrazione straziante per me, come per molti giovani
presenti. C'era gente di tutte le eta', c'erano svariate generazioni a
rendergli omaggio. Ci ha accolti la musica dell'angosciante ed al contempo
leggera performance "Superman" di Lori Anderson, a sottolineare la tensione,
l'ansieta', l'urgenza di quell'uomo cosi' speciale: il discorso di Antonio
sempre teso ad una critica all'Occidente, alla nostra ragion d'essere, una
critica molto utile, su cui meditare, per chi si sente sempre e comunque
titolare del bene, della ragione e del diritto di sentirsi vincitore sulle
macerie.
Il vuoto lasciato dalla perdita di Antonio Caronia per la cultura hacker
Italiana e' grande. Anche piu' grande se si considera quanto manchera' alle
generazioni future, nativi digitali, Cyborg inconsapevoli, utenti di una
tecnologia che a sua volta li usera' nella loro inconsapevolezza. A noi giovani
cyborg Antonio sapeva trasmettere le gioie e i dolori della contaminazione e
della consapevolezza. Antonio non insegnava, ma coltivava consapevolezze e lo
faceva con il ritmo spasmodico di un adolescente erudito, pazzo d'amore, pazzo
per parlare, pazzo per vivere.
In un operetta Carmelo bene una volta impersono' un'intervista post-mortem allo
scultore Gaudi' che, alla domanda di come definisse il suo ruolo in vita,
rispose che lui si considerava un "giardiniere di pietre". Oggi penso che
Antonio fosse un giardiniere di coscienze come pietre, ma non di pietre
preziose sul mercato. Lui proprio come Gaudi' amava pietre la cui preziosita'
deriva dalle loro irregolarita', da inaspettate curve ed asprezze aggraziate,
piuttosto che dalla forma imposta di prismi perfetti e dal valore a loro dato
sul mercato.
Antonio non voleva morire. Questo mi rattrista oggi. Antonio era avido di vita,
del sapere sempre nuovo che era linfa per i suoi intrecci di senso, intuizioni
trasversali, evoluzioni sul filo d'acciaio ben teso di una tecnologia sempre
piu' levigata ed affilata che lui sapeva ben comprendere, seguire, riavvolgere,
identificando nella centralita' del corpo umano il terreno demilitarizzato tra
i confini aspri di capitale e biopolitica.
Nel mezzo di discorsi sempre attuali che hanno a che fare con la privacy, con
l'approccio od il rifiuto della tecnologia, in definitiva con l'accettazione o
meno della purezza, trovo gli scritti di Antonio incredibilmente,
sorprendentemente, eroticamente attuali, inviti a confrontarsi con l'empieta'
del reale, con l'amore per quella che e' e rimarra' sempre l'eredita dei
diseredati nelle modalita' di ibridazione tra presente e futuro, tra esseri
umani e macchine.
Antonio aveva una conoscenza enciclopedica, sterminata, dei suoi tanti libri
che pareva conoscere uno per uno, pagina per pagina. Era al contempo un
matematico ed un filosofo ed era in grado di citare e combinare pensieri colti
da ambiti estremamente diversi, con rigore intellettuale ineccepibile. Ed era
anche un artista lui stesso, di quelli che plasmano identita', esistenze,
relazioni. La prima volta che lo vidi di persona in questa vita, con quel suo
cappello nero a falda larga, la sua presenza mi scosse con una visione: era lui
quel famigerato Dottor Sax, l'essere ai confini dell'Interzona che saltava fra
i tetti e le ombre nei sogni di Jack Kerouac, che distorceva le visioni di
Cody, che ispirava gli angeli del Dharma. A seguito di tale frequentazione
fuori dall'accademia la mia impressione mi e' stata confermata piu' volte:
quell'uomo cavalcava i serpenti. Piu' tardi, negli ultimi anni, ho avuto la
fortuna sfacciata di poter studiare con lui ed ho compreso quanto non sia solo
una presenza spiazzante la sua, ma anche una sostanza, cioe' un'erudizione
sconfinata, disarmante, unita ad una pulsante passione per la letteratura ed a
una rigorosa pratica da militante politico che non ha mai abbandonato.
Antonio si e' sempre dato per gli altri, non risparmiava nulla. La vita di
Antonio e' un monito per tutti i sessantottini che si dilettano a ricordare i
tempi passati ed oggi son forti di posizioni di privilegio guadagnate nel
progressivo abbandono della militanza: Antonio non ha mai ceduto al privilegio.
Lo abbiamo visto impegnato sin negli ultimi giorni in occupazioni a piazza
affari con il megafono in mano, fino al punto di rischiare il suo contratto con
l'Accademia di Brera, una posizione che ci ricorda artisti come Beuys. Antonio
non ha mai abbandonato l'attivismo militante e nel continuare ad insegnare fino
agli ultimi goccioli di vita, negli ultimi giorni, ha dato prova di una
passione maniacale per i suoi studenti, per le nostre ricerche, percorsi, per
la nostra liberta' di sentire.
Non c'e' nessun'altro che possa sostituire Antonio Caronia in Italia oggi,
questo e' un nodo che si stringe alla gola di tanti, inesorabilmente, anno per
anno. Non ultima, nel ciclo di occupazioni che si perpetuano nelle accademie e
universita' e scuole di tutto il mondo, si riconosce il senso della passione di
Antonio per la descolarizzazione di Ilich, tema a lui caro: e' ora di camminare
da soli, anche se ci cedono le gambe, a costo di metterci sui cingoli o sui
trampoli. A costo di sbagliare, a costo di non essere piu' accettabili
nell'implosione borghese del reale, nella totalizzante presenza di una
modernita' che a cicli ricorrenti ci si rivela ipocrita e vuota di senso.
Oggi raccomando a chi non l'ha fatto, dobbiamo leggere e ascoltare quel che ci
ha lasciato Antonio Caronia, sforzarci di condividere e criticare il suo punto
di vista mai scontato, raramente allineato, sempre teso a superarsi, farci
prendere per mano lungo le sue strade non-strade, battute da pochi e senza
alcuna divisa agli angoli per rassicurarci che sia la via giusta o sbagliata,
pericolosa o sicura, bugie inutili.
"" (Cyborg) (gia' citato da Maurizio Guerri) Qui sta la sua forza (di Donna
Haraway): nella sua estraneita' al mito della trasparenza del linguaggio, nella
sua capacita' di tornare a parlare una lingua radicata nel corpo senza doverla
riferire a una presunta dimensione originaria, nel far agire insomma dentro al
linguaggio il residuo extralinguistico e corporeo che l'informatica del dominio
tenderebbe a cancellare. ""
attivista e generosissimo educatore e studente al contempo, che era Antonio
Caronia, e' stata una celebrazione straziante per me, come per molti giovani
presenti. C'era gente di tutte le eta', c'erano svariate generazioni a
rendergli omaggio. Ci ha accolti la musica dell'angosciante ed al contempo
leggera performance "Superman" di Lori Anderson, a sottolineare la tensione,
l'ansieta', l'urgenza di quell'uomo cosi' speciale: il discorso di Antonio
sempre teso ad una critica all'Occidente, alla nostra ragion d'essere, una
critica molto utile, su cui meditare, per chi si sente sempre e comunque
titolare del bene, della ragione e del diritto di sentirsi vincitore sulle
macerie.
Il vuoto lasciato dalla perdita di Antonio Caronia per la cultura hacker
Italiana e' grande. Anche piu' grande se si considera quanto manchera' alle
generazioni future, nativi digitali, Cyborg inconsapevoli, utenti di una
tecnologia che a sua volta li usera' nella loro inconsapevolezza. A noi giovani
cyborg Antonio sapeva trasmettere le gioie e i dolori della contaminazione e
della consapevolezza. Antonio non insegnava, ma coltivava consapevolezze e lo
faceva con il ritmo spasmodico di un adolescente erudito, pazzo d'amore, pazzo
per parlare, pazzo per vivere.
In un operetta Carmelo bene una volta impersono' un'intervista post-mortem allo
scultore Gaudi' che, alla domanda di come definisse il suo ruolo in vita,
rispose che lui si considerava un "giardiniere di pietre". Oggi penso che
Antonio fosse un giardiniere di coscienze come pietre, ma non di pietre
preziose sul mercato. Lui proprio come Gaudi' amava pietre la cui preziosita'
deriva dalle loro irregolarita', da inaspettate curve ed asprezze aggraziate,
piuttosto che dalla forma imposta di prismi perfetti e dal valore a loro dato
sul mercato.
Antonio non voleva morire. Questo mi rattrista oggi. Antonio era avido di vita,
del sapere sempre nuovo che era linfa per i suoi intrecci di senso, intuizioni
trasversali, evoluzioni sul filo d'acciaio ben teso di una tecnologia sempre
piu' levigata ed affilata che lui sapeva ben comprendere, seguire, riavvolgere,
identificando nella centralita' del corpo umano il terreno demilitarizzato tra
i confini aspri di capitale e biopolitica.
Nel mezzo di discorsi sempre attuali che hanno a che fare con la privacy, con
l'approccio od il rifiuto della tecnologia, in definitiva con l'accettazione o
meno della purezza, trovo gli scritti di Antonio incredibilmente,
sorprendentemente, eroticamente attuali, inviti a confrontarsi con l'empieta'
del reale, con l'amore per quella che e' e rimarra' sempre l'eredita dei
diseredati nelle modalita' di ibridazione tra presente e futuro, tra esseri
umani e macchine.
Antonio aveva una conoscenza enciclopedica, sterminata, dei suoi tanti libri
che pareva conoscere uno per uno, pagina per pagina. Era al contempo un
matematico ed un filosofo ed era in grado di citare e combinare pensieri colti
da ambiti estremamente diversi, con rigore intellettuale ineccepibile. Ed era
anche un artista lui stesso, di quelli che plasmano identita', esistenze,
relazioni. La prima volta che lo vidi di persona in questa vita, con quel suo
cappello nero a falda larga, la sua presenza mi scosse con una visione: era lui
quel famigerato Dottor Sax, l'essere ai confini dell'Interzona che saltava fra
i tetti e le ombre nei sogni di Jack Kerouac, che distorceva le visioni di
Cody, che ispirava gli angeli del Dharma. A seguito di tale frequentazione
fuori dall'accademia la mia impressione mi e' stata confermata piu' volte:
quell'uomo cavalcava i serpenti. Piu' tardi, negli ultimi anni, ho avuto la
fortuna sfacciata di poter studiare con lui ed ho compreso quanto non sia solo
una presenza spiazzante la sua, ma anche una sostanza, cioe' un'erudizione
sconfinata, disarmante, unita ad una pulsante passione per la letteratura ed a
una rigorosa pratica da militante politico che non ha mai abbandonato.
Antonio si e' sempre dato per gli altri, non risparmiava nulla. La vita di
Antonio e' un monito per tutti i sessantottini che si dilettano a ricordare i
tempi passati ed oggi son forti di posizioni di privilegio guadagnate nel
progressivo abbandono della militanza: Antonio non ha mai ceduto al privilegio.
Lo abbiamo visto impegnato sin negli ultimi giorni in occupazioni a piazza
affari con il megafono in mano, fino al punto di rischiare il suo contratto con
l'Accademia di Brera, una posizione che ci ricorda artisti come Beuys. Antonio
non ha mai abbandonato l'attivismo militante e nel continuare ad insegnare fino
agli ultimi goccioli di vita, negli ultimi giorni, ha dato prova di una
passione maniacale per i suoi studenti, per le nostre ricerche, percorsi, per
la nostra liberta' di sentire.
Non c'e' nessun'altro che possa sostituire Antonio Caronia in Italia oggi,
questo e' un nodo che si stringe alla gola di tanti, inesorabilmente, anno per
anno. Non ultima, nel ciclo di occupazioni che si perpetuano nelle accademie e
universita' e scuole di tutto il mondo, si riconosce il senso della passione di
Antonio per la descolarizzazione di Ilich, tema a lui caro: e' ora di camminare
da soli, anche se ci cedono le gambe, a costo di metterci sui cingoli o sui
trampoli. A costo di sbagliare, a costo di non essere piu' accettabili
nell'implosione borghese del reale, nella totalizzante presenza di una
modernita' che a cicli ricorrenti ci si rivela ipocrita e vuota di senso.
Oggi raccomando a chi non l'ha fatto, dobbiamo leggere e ascoltare quel che ci
ha lasciato Antonio Caronia, sforzarci di condividere e criticare il suo punto
di vista mai scontato, raramente allineato, sempre teso a superarsi, farci
prendere per mano lungo le sue strade non-strade, battute da pochi e senza
alcuna divisa agli angoli per rassicurarci che sia la via giusta o sbagliata,
pericolosa o sicura, bugie inutili.
"" (Cyborg) (gia' citato da Maurizio Guerri) Qui sta la sua forza (di Donna
Haraway): nella sua estraneita' al mito della trasparenza del linguaggio, nella
sua capacita' di tornare a parlare una lingua radicata nel corpo senza doverla
riferire a una presunta dimensione originaria, nel far agire insomma dentro al
linguaggio il residuo extralinguistico e corporeo che l'informatica del dominio
tenderebbe a cancellare. ""
sabato 21 novembre 2015
Antonio Tursi: intervento al convegno Logic Lane
Divorati da Cronenberg
La fantascienza e il conflitto dei corpi
Fantascienza e conflitto
Giusto per fare qualche esempio
si pensi a come le figure di Frankenstein e Dracula abbiano incarnato le
lacerazioni della incipiente società di massa, i conflitti tra l’individuo e le
nuove possibilità della scienza positivista, tra l’essere umano e le macchine
dell’industria, tra natura e cultura, tra linguaggi specialistici e incapacità
linguistiche, tra omologazione e distinzione. Nelle distopie della prima metà
del Novecento, nei mondi disegnati da Huxley, Orwell e Bradbury, il Sistema
politico, culturale, economico, militare si vuole e si pretende perfetto,
esente da conflitti, addirittura capace di suscitare la convinta adesione dei
suoi cittadini-sudditi. Eppure anche in quei mondi emerge e si dispiega –
seppure con esiti a volte tragici – una via di fuga, la necessità di opporsi, la
spinta a mettere in discussione e contrastare le certezze ufficiali e le bontà
predicate dai sistemi di dominio vigenti: l’ambito delle libertà, civili e
politiche ma ancor prima emotive, segna il conflitto con i regimi totalitari
dominanti. Le narrazioni di Philip K. Dick condensano un mondo postbellico e
postatomico: la seconda guerra mondiale e soprattutto la guerra fredda
divengono conflitti tra mondi, tra forme di vita, tra civiltà umane e non
umane, tra natura e tecnica, tra realtà abituali e stati di alterazione
mentale. Un ultimo esempio per giungere alla fine del secolo scorso è offerto
da William Gibson che nel suo ciberspazio condensa scontri epici tra forze
globali (la finanza, la tecnica, la criminalità) e nuove soggettività politiche
come i cowboy della consolle che sfruttando le pieghe di quelle stesse forze
globali aprono crepe per indispensabili spazi di libertà.
In generale, dunque, si può
affermare che non esistono mondi della fantascienza in cui “everything goes” e
non vi siano incrinature e increspature. Insomma, la fantascienza non è mai
stata utopia, semmai ambigua utopia. Non riconducibile alle costruzioni di
Platone, Moro e Campanella. Ma sempre capace di svelare un altro lato,
inquietante, destabilizzante, perturbante del mondo immaginato, cioè capace di
svelare l’ambiguità del nostro stesso mondo.
Orizzonte postumano
L’eco dell’annuncio nietzschiano
della morte di Dio si è riverberato in tanti passaggi della storia culturale
novecentesca. Ma all’approssimarsi della fine del secolo o, per il maggior
richiamo simbolico, del millennio si è intensificato il sentimento di chiusura
di un’epoca e dunque si è sempre più avvertita la necessità di individuare i
segni di una tale svolta: dalla fine delle grandi narrazioni al postmoderno,
dalla fine della storia alla postdemocrazia tutto è parso indicare un
compimento. In questa stessa temperie culturale si è iniziato a discutere di
postumano, della questione di cos’è o meglio di come deve comprendersi l’essere
umano. Le maschere attraverso cui noi ci comprendiamo o quanto meno ci
interroghiamo su noi stessi cambiano nel corso del tempo, inestricabilmente
legate ai contesti culturali, tecnologici, politici nei quali via via
avvertiamo di trovarci. E indubbiamente sul finire del Novecento le scoperte scientifiche,
le innovazioni tecnologiche, le prospettive globali hanno spinto in definitiva
a ripensare il senso stesso dell’umano. Mettendo a frutto esperienze e
paradigmi già maturati nel corso del secolo (si pensi solo al darwinismo e allo
sviluppo della psicologia) si è dispiegato un nuovo orizzonte concettuale.
Con postumano si è così messa in
discussione quell’eredità umanistica di antropocentrismo che, nel mentre
dichiarava l’essere umano (o meglio un certo essere umano: uomo, bianco, colto,
razionale e possidente) misura di tutte le cose, lasciava sul terreno macerie e
tragedie impensabili. Dell’essere umano si è compresa la dinamica emergenziale:
non si tratta di un essere fisso e immodificato (di cui rinvenire l’essenza) ma
di un’entità costruita nei tempi lunghi della sua filogenesi. Un processo nel
quale ciò che siamo abituati a riconoscere come non-umano ha giocato un ruolo
decisivo. L’antroposfera si è costruita infatti nel commercio continuo con la
tecnosfera e la teriosfera. L’uomo è il frutto di processi di contaminazione e
ibridazione con suoi i simili, che a volte si rivelano profondamente diversi,
con l’ambiente (animali, piante), con la tecnica di cui si è dotato e dalla
quale ha ricevuto spinte verso una riconfigurazione del suo stesso esserci (si
pensi a come le tecnologie di comunicazione intervengano nel configurare i
nostri brainframes).
Nell’orizzonte postumano si aprono
o si riaprono diverse e fondamentali partite. La prima tra esse riguarda ciò
che più e da sempre sentiamo ancoraggio “naturale”: il nostro corpo. Anch’esso
va ripensato e compreso non come datità ma come retaggio di lunghi processi
filogenetici, processi di adattamento e sfida all’ambiente nel quale abitiamo.
Esso “diventa uno spazio di accoglienza, è un corpo teatro capace di ospitare
le alterità” (Marchesini, 2014. 51). Le antropotecniche, oggi sempre più legate
agli sviluppi dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie, ci confrontano
quotidianamente con processi che intervengono direttamente e profondamente nel
disegno del nostro corpo. E con le sfide, in tutto e per tutto politiche, su
chi decide le direzioni di questi processi.
Come scrivevamo insieme a
Caronia: “l’atteggiamento più giusto, di fronte alle tematiche del postumano,
ci pare quello che Karl Marx propose di fronte al capitalismo: non rifugiarsi
in un impossibile «ritorno al passato», ma assumere coraggiosamente la nuova
situazione economica, sociale e culturale per fare emergere al suo interno le
possibilità di liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dal dominio, un
obiettivo che solo le nuove condizioni, e non le antiche, permettevano. Così
oggi affrontare i problemi del postumano significa lavorare perché le nuove
possibilità dispiegate dalla tecnologia significhino possibilità di emancipazione
e di sviluppo di nuove soggettività” (Caronia, Pireddu, Tursi, 2007).
Dalla tv alle reti: un regista mediologo
David Cronenberg ha segnato uno
dei momenti in cui la fantascienza, attraverso il medium cinematografico, ha
saputo meglio condensare uno dei
passaggi mediologici cruciali del secolo scorso: cioè il ruolo profondo dei
media elettronici e in particolare della televisione. Videodrome (1983) ci ha messo di fronte alle caratteristiche
decisive della televisione: al suo essere ambientale (e non riducibile ad un
mero strumento) e al suo essere tattile (e non legato unicamente al regime
visivo).
Se la nostra cultura tipografica
secolare aveva affrontato la sfida televisiva riconducendola ad un’ennesima
traduzione dello spazio alfabetico (visione e linearità), McLuhan da parte sua
aveva provato a mostrare che la televisione impianta uno spazio diverso segnato
da un profondo coinvolgimento submuscolare, tattile se non sinestetico. Cambia
tutto. Cambia la nostra percezione dello spazio e del tempo, cambiano i modelli
di relazione sociale, cambia l’immagine di noi stessi. Ci siamo trovati
lanciati in un villaggio globale assai turbolento senza però aver cambiato le
nostre modalità di interpretazione. Di fatto, McLuhan è stato per diverso tempo
considerato un pensatore eccentrico, borderline,
al limite bizzarro. Incapace di elaborare un condivisibile paradigma di
comprensione dei media e in generale del nostro mondo.
Cronenberg, non estraneo al
dettato mchluhaniano, ha saputo cogliere e rendere percepibile il medium
televisione: Videodrome ci ha offerto
scene di pulsazioni degli aggeggi televisivi, di piccoli schermi che
risucchiano corpi, di corpi che ospitano e liberano aggeggi, di desideri che si
incontrano sulle superfici dei tubi catodici, di ibridazioni tra umano e
tecnologico, di immersioni profonde in ambienti televisivi, di emergenza di una
nuova forma di vita.
Inoltre, Videodrome rappresenta il consolidarsi del nuovo regime mediale
come conflitto tra progetti alternativi, tra istanze divergenti. “Ci dimostra
che il processo non è affatto indolore, che attorno alle nuove caratteristiche
del mezzo, attorno all’esperienza totale di quella televisione avvolgente e
violenta che è «Videodrome» si scatena il conflitto dei poteri e degli
interessi” (Caronia, 2010: 23). Come spiega nello stesso film, O’Blivion,
bizzarro massmediologo, attraverso un videomessaggio: “la lotta per il possesso
delle menti in America dovrà essere combattuta in una videoarena, col
Videodrome. Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne
consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del
cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno della
televisione”.
Un conflitto che dunque ridisegna
l’essere umano, la sua carne, sino a far emergere un ibrido tra corpo e
comunicazione, tra psiche e segnali dell’etere, tra sistema nervoso e
immaginario, tra “realtà” e allucinazioni. “I processi biologici [sono
presentati da Cronenberg] come origine, tramite, centro organizzatore e campo di
battaglia dell’immaginario” (Caronia, 2001: 81). Il protagonista, Max Renn,
alla fine desidera andare oltre sé stesso, oltre la sua umanità: si spara
gridando “Gloria e vita alla nuova carne!”. Allo stesso tempo il teleschermo di
fronte a lui esplode in una proliferazione di membra e interiora, in un diluvio
di sangue. Così la fusione tra uomo e ambiente televisivo è completa e
profonda. Ed è avvenuta spingendo oltre l’uomo e oltre il suo rassicurante
ambiente abituale, verso una superficie scontornata che amalgama pelle e
transistor, carni e metalli, desideri e immaginari senza soluzioni di
continuità.
Le stesse tematiche si
ritroveranno in eXistenZ (1998),
proiettate però in questo caso nel mondo dei videogiochi. A segnalare che
quella condensazione del regime televisivo, incentrata sul ruolo decisivo del
sensorio corporeo, si proietta nei nuovi media digitali e reticolari, ne segna
il terreno di coltura. A segnalare che le poste in gioco in entrambi i casi
sono i nostri corpi e i nostri ambienti quotidiani. A segnalare che sfide e
conflitti continuano a presentarsi e a coinvolgerci in profondità. Sin dentro
le nostre viscere.
La quotidianità tecnologica di un romanzo
Cronenberg negli ultimi suoi
film, film girati dopo il passaggio di millennio (da Spider a Cosmopolis, da The History of Violence a The Dangerous Method), non ha più trattato
in modo diretto e ossessivo di tecnologie, in particolare di tecnologie di
comunicazione, della loro profonda ibridazione con il corpo umano. Inoltre,
pare difficile riportare questi film al genere fantascienza. Ha trattato altri
temi e approfondito vissuti psicologici senza però mai tradire la sua
attenzione alla bio-chimica dei corpi. Quello che potrebbe sembrare un
ampliamento tematico o addirittura un superamento di certe tematiche, potrebbe però
valere come spia di altro: altro che riguarda ancora e fortemente lo scenario
mediale.
A un certo punto, dopo una
stesura che sappiamo essere stata lunga, un affermato e visionario regista
cinematografico ha dato alle stampe il suo primo (e sinora unico) romanzo: Consumed (Divorati nella traduzione italiana). Naturalmente questo passaggio
di piattaforma espressiva induce a interrogarsi sul perché un regista che,
attraverso i suoi film, nei temi trattati sul grande schermo, con il suo
peculiare stile, ha lavorato su un immaginario che a stento poteva trovare
espressione in un medium, il cinema, in tutto moderno, ha deciso di utilizzare
una forma mediale modernissima quale il libro stampato (e nella fattispecie un
romanzo) per ritornare ad esplorare alcune questioni per lui centrali, per
tornare a dar voce alle sue tradizionali ossessioni.
Una forma mediale, il libro, che
inoltre pone un altro medium moderno, la fotografia, in una posizione centrale
nella vicenda narrata, ne fa una sorta di indispensabile oggetto narrativo. I
due protagonisti, Naomi Seberg e Nathan Math, sono fotogiornalisti freelance. E
durante tutta la narrazione si discorre di macchinette fotografiche, di diversi
modelli e marche, e poi ancora di pellicole, obiettivi, inquadrature, angolazioni,
luminosità, foto autentiche e contraffatte.
Infine, come gli ultimi suoi
film, anche Divorati, sebbene pervaso
da ossessioni antiche di Cronenberg e perciò attento agli scenari mediali, è
solo parzialmente riconducibile al genere fantascienza.
Insomma, Cronenberg non mostra
per diverso tempo tecnologie futuristiche o comunque invasive, giunge infine a
scrivere un romanzo non proprio di fantascienza e ne pone al centro la
fotografia. Quale conclusione possiamo trarre da queste circostanze? L’autore
canadese ci sta segnalando qualcosa? Qualcosa che forse vale come negativo di queste stesse circostanze?
Divorati si apre con uno schermo di un computer portatile, quello
attraverso il quale Naomi esplora l’abitazione dei coniugi Aristide Arosteguy e
Célestine Moreau (“Naomi era nello schermo” sono le prime parole del romanzo).
Durante tutto il romanzo, le nostre
tecnologie e piattaforme di comunicazione sono costantemente richiamate: dall’iPhone
all’iPad, dal MacBook Air alle schedine di memoria SD, da Adobe Lightroom a
Photoshop, da YouTube a Skype, da Facebook a Google. Esse rappresentano lo
sfondo della vita quotidiana di Naomi e Nathan esattamente come rappresentano
lo sfondo della vita quotidiana di ciascuno di noi. E naturalmente come l’acqua
per i pesci queste tecnologie rischiano di essere sempre più inavvertite nel
momento stesso in cui si normalizzano e ci circondano nelle routine quotidiane.
Cronenberg, astenendosi dal mostrare tecnologie futuristiche e invasive nei suoi
ultimi film e richiamando le nostre macchinette quotidiane in un libro che
ruota intorno alla fotografia, ci avverte proprio di questa quotidianizzazione dei media digitali.
Comprendere il loro carattere ambientale, da un lato, diventa più difficile perché
ormai ne siamo costantemente immersi ma, dall’altro, è una possibilità offerta
a ciascuno e non più solo un’esperienza eccezionale, qual’era quella a cui
aveva avuto accesso – nel caso di Videodrome
– il produttore televisivo Max Renn. Una possibilità che diviene più che mai
necessario cogliere per muoversi agilmente nel nuovo scenario mediale, individuarne
gli elementi conflittuali e non lasciarsi risucchiare in una narcosi da Narcisi
postmoderni, non lasciarsi sommergere dalla “inesorabile, rovente colata lavica
della tecnologia” (23).
La nuova carne e l’approdo dei corpi
Le macchinette fotografiche
utilizzate costantemente da Naomi e Nathan servono a catturare i corpi o meglio
la carne pulsante di molti dei personaggi che appaiono nelle pagine del
romanzo. Un’azione di mediazione che non è affatto neutra ma densa di
significato. Per esempio, osservare le diverse foto di Chase Roiphe scattate
con differenti obiettivi da Nathan, permette a Naomi di scoprire la progressiva
attrazione erotica tra i due. Un’azione quella fotografica che si estende
attraverso le reti telematiche. Dunja, ragazza slovena prossima alla morte,
chiede a Nathan: “mettile in internet e manda queste immagini di me
nell’universo, dove proseguirò la mia esistenza extracorporea” (37). E più
generalmente, “non essere fotografati giornalmente, magari da se stessi, non
essere registrati e videoripresi e dispersi nei turbolenti venti della rete
signific[a] lambire l’inesistenza” (56). Questi venti fanno sì che le foto
(oltre alle dicerie) circolino velocemente e stabiliscano il senso provvisorio
ma comune di una storia: in Divorati,
le ipotesi sul caso di omicidio-suicidio sessual-cannibal-filosofico di
Célestine Arosteguy.
Solo verso la fine del romanzo,
cioè solo dopo le vicende concitate, gli spostamenti planetari e
l’investigazione on the ground
portata avanti da Naomi, scopriamo che quelle foto testimonianza di un atto
efferato e sanguinolento sono contraffazioni. La conclusione a cui giungiamo
(in un finale comunque aperto) è che Célestine non sia stato affatto uccisa ma
si sia trasferita in Corea del Nord, abbia disertato la République, estremo gesto politico da parte di “un patrimonio
nazionale”, di “un ideale francese”, che non è mai stata attratta
dall’astrattezza della politica. Su quelle foto, sulla loro capacità di
catturare o ancor di più costruire e veicolare la nuova carne, si è giocata una
partita globale tra poteri. Quello degli intellettuali protagonisti delle
vicende, quello degli investigatori francesi, quello dei cospiratori, quello
dei depistatori e quello dei fotogiornalisti. Oltre che quello di un’opinione
pubblica globale i cui nervi sono sempre più facilmente sollecitabili
attraverso la Rete, vero sistema nervoso centrale dell’attuale villaggio
globale, “una tribuna per la pubblica accusa” (167).
La contraffazione delle foto è
operata però grazie ad un'altra tecnologia, non futuribile ma sicuramente
ancora in fase di sviluppo e diffusione: le stampanti 3D. Macchinette di un
cortocircuito tra regimi diversi e dimensioni eterogenee. Capaci di tradurre la
visione in tangibilità, lo schermo in oggetto, i bit in atomi. Sono esse, più
che le fotografie, ad aver costruito in bioplastica la carne oggetto del
romanzo: le membra straziate e disperse di Célestine, compresi tendini
strappati, vasi sanguigni rotti, ghiandole ormonali esposte, muscoli sfibrati
(oltre che le membra di altri personaggi che veicolano se stessi o parti di sé across the world). Grazie a queste
stampanti e al ritocco artigianale degli oggetti da loro prodotti, si sono costruite
le prove dell’omicidio efferato, segnato da presunti atti di cannibalismo,
della filosofa francese. Prove che catturate dalle fotografie e disseminate
nella rete hanno orientato le vicende del romanzo e le indagini svolte dai diversi
personaggi.
Tecnologie – la fotografia e
ancor di più e prima le stampanti 3D – che costruiscono corpi, organi, viscere,
una carne del mondo, un paesaggio corporeo attraverso il quale definiamo le
nostre identità. E lo stesso fanno le tecnologie audio, protesi acustiche la
cui sofisticatezza è stata incrementata dal digitale “ben oltre la
fantascienza” e che vengono riprogrammate per offrire nuovi paesaggi sonori o
detto in altri termini per offrire la possibilità di sperimentare nuove
identità. Tecnologie che sono perciò al centro di conflitti globali di potere.
La Corea del Nord, dittatura paradigmatica in un mondo di free countries, è base operativa per cospirazioni globali che hanno
al centro la riprogrammazione delle tecnologie audio e lo sviluppo delle nuove
stampanti, la costruzione attraverso il dominio sulla tecnica di un nuovo
impero economico-tecno-neurologico-politico.
Questi scontri globali sulle
tecnologie che costruiscono la nuova carne del mondo configurano uno scontro
profondo sul modo stesso in cui ci comprendiamo, comprendiamo i nostri corpi, configuriamo
le nostre identità ibride. Cronenberg rispolvera in Divorati la sua indagine più proficua e perspicua, quella
sull’estetica contemporanea, vera cartina di tornasole delle dinamiche politiche
attuali. Un’estetica nuova si configura nell’ibridazione tra tecnologie e
corpi, un’estetica che spinge “verso l’accettazione culturale di concetti di
bellezza in passato ritenuti tabù, concetti che un tempo indicavano malattia e
prossimità alla morte ma che adesso avrebbero ipnotizzato e sedotto” (64). La
malattia che eccita, la seduzione del decadimento, il profumo della morte, le
disfunzioni corporee (come quella di Peyronie), la disabilità umana, i nuovi
corpi che emergono dall’amputazione di parti (apotemnofilia): modalità di una
bellezza che si contrappone a quella classica basata sulla conformità e
sull’armonia. Una bellezza capace di competere con quella naturale o addirittura
di superarla per capacità di seduzione, una bellezza all’altezza delle nuove
condizioni industriali/tecnologiche dell’uomo. Un riallineamento dell’estetica
che fa perno sulla diversità stessa, diventata “afrodisiaca e stuzzicante”
(241). E intorno a questa bellezza che si costruiscono nuove identità, che si
giocano perciò gli scontri di potere. In un mondo in cui il “vero oggetto
dell’innata brama di bellezza erano adesso le merci, i prodotti industriali”
(99), in cui il corpo stesso è ridotto a merce, è omologato, è triturato
dall’“insaziabile ethos consumista occidentale che tutto divora” (335), è
costruito come prodotto dalle tecnologie, non ci resta che diventare
consumatori di noi stessi, appropriarcene in modo estremo, essere divoratori
della carne ormai sconfinata oltre i confini della nostra pelle. Ritagliare
nella carne del mondo, il nostro corpo. E farlo con un gesto chirurgico, di
profonda incisione, più profonda del morso del vampiro. Si tratta di
incorporare “con la bocca, le labbra, con il mordere, il masticare, l’ingoiare,
il digerire, lo scoreggiare, il cacare” (156). E solo sperimentando “questa
bocca, la bocca del cannibale, la bocca dei mille morsi, mille atrocità umane”
(156) si potrà abitare in un nuovo paesaggio corporeo. Abitare un corpo ibrido,
aperto, contaminato. Che non rappresenterà più il porto di partenza dal quale
sicuri guardare il mondo ma l’approdo instabile del nostro cammino nel mondo[1].
[1] “Per
carne si può intendere una vita corporea espansa, una massa organica che si
spinge cioè oltre la prigione di ciò che chiamiamo corpo, oltre la pelle che la
racchiude e le ossa che la sostengono. La carne non fa da sostegno alle
raffigurazioni sociali dell’identità, mentre invece è appunto il corpo a
farsene carico. Questa differenza tra carne come materia vivente senza confini
e, di contro, corpi come soggetti socialmente confinati, è molto importante”
(Abruzzese, 2005: 201). E proprio la questione dei confini è decisiva. Ciò che
caratterizza la “carne che emette calore, colore, odore, peso” è “l’assenza di
forma” (Abruzzese, 2008: [w]). La carne è dunque s-confinata. Di contro
troviamo la “postura figurale del corpo messo a distanza, inquadrato, valutato
secondo parametri ottici”. Se la carne è il mondo, il corpo riguarda la
società: “il corpo sociale si chiude in sé configurandosi come insieme di soggetti
separati dal fluire del mondo” (Abruzzese, 2008: [w]). Questa distinzione tra
carne e corpo permette dunque di comprendere le reti digitali come “una via di
fuga della carne dai corpi” (Abruzzese, 2005: 221).
La carne è “quella parte,
zona, membrana del corpo che non fa tutt’uno con esso, che eccede i suoi
confini o si sottrae alla sua chiusura” (Esposito, 2004: 173). Con tutta
evidenza la Carne non potrà mai tradursi in istituzioni essendo “una materia
mondiale antecedente, o successiva, alla costituzione del soggetto di diritto”
(Esposito, 2004: 182)
giovedì 19 novembre 2015
Nuvole marziane di Antonio Caronia: "Verità"
Sociologia Brera 14^ lezione 17 marzo 2010 (1.9'30'')
https://archive.org/details/LezioniBreraSociologiaCaronia2010
sabato 14 novembre 2015
Simonetta Fadda: intervento al convegno Logic Lane
EGEMONIA
DEL CINEMATICO
Vorrei
presentare alcune mie considerazioni che sono state influenzate anche dal
confronto con le teorie di Antonio. Premetto che le riflessioni e le analisi
critiche di Antonio a me sono arrivate soprattutto per il tramite del discorso,
sia a livello di conversazione all’interno di situazioni private, sia come mio ascolto
di sue parole nell’ambito di situazioni pubbliche tipo conferenze, più che
dalla sua copiosa produzione scritta, di cui ho letto solo piccole schegge
soffermandomi sui temi a me più vicini.
Delle sue
parole, quello che più mi è rimasto sono le suggestioni che i suoi ragionamenti
hanno suscitato in me, frammenti che hanno continuato a lavorarmi dentro e che
poi mi hanno portato completamente da un’altra parte, rispetto agli argomenti
al centro dei suoi discorsi. Questo, per me, è il dono prezioso che talune
riflessioni teoriche riescono a regalare, quelle riflessioni così ricche e
feconde da poter offrire, oltre al discorso esplicito, moltissimi altri spunti
e suggerimenti lasciati nascosti in mezzo ai nessi intessuti tra i concetti,
oppure fatti cadere lungo lo sviluppo dell’analisi. Come scatole cinesi, le
parole di Antonio a me hanno sempre regalato sorprese “collaterali”, stimoli
inaspettati e impagabili.
Io non
saprei dire il pensiero di Antonio, o analizzare le sue teorie. So dire solo
cosa mi ha dato, perché era molto generoso. A me, questa capacità di portare da
un’altra parte, che rintraccio nelle sue argomentazioni, ha offerto diversi
spunti che in questo periodo contribuiscono a guidare le mie riflessioni e dei
quali vorrei qui presentare sinteticamente alcuni punti.
In primo
luogo, mi riferisco soprattutto alle affermazioni e agli scritti di Antonio sui
media, sulle tecnologie e sulle loro implicazioni sociali e culturali. Confesso
di essere molto strumentale nella ricezione dei testi che leggo o studio, sono
un po’ monotematica e cerco sempre di portare tutto nell’ambito dei miei
maggiori oggetti d’interesse, ovvero le tecnologie visive e le ricadute
estetiche, culturali e politiche del loro utilizzo. I testi di Antonio cui mi
sono accostata sono stati molto produttivi in questo senso, perché oltre ad aiutarmi
a mettere a fuoco alcune problematiche politiche nell’uso dei media, hanno
generato un insieme di riflessioni su un qualcosa che per ora chiamo con un
termine probabilmente improprio, nominandolo come “il cinematico”[i],
un concetto che vuol definire un ambito legato all’idea di cinema, ma non
limitato al campo cinematografico in senso stretto e che qui cercherò di
introdurre.
In
generale, Antonio ha spesso chiamato in causa il cinema, sia perché si è
occupato anche dell’analisi di determinati film (come Avatar), ma soprattutto perché ha indagato gli orizzonti culturali
creati e messi in opera nell’interazione con le tecnologie e coi media visivi.
Nei suoi testi, è costante il riferimento allo scenario tecnologico
contemporaneo. Per esempio, il cyborg è un corpo organico che ha inglobato la
tecnologia e le cui percezioni sono mediate dalla tecnologia -e a rigore noi
tutti oggi siamo cyborg. Proprio l’idea di cyborg è stata per me un primo
spunto per spostare il discorso dal corpo in generale alla nostra esperienza fisico-organica
dei media visivi, portandomi a cercare di capire fino a che punto i media
visivi -che veicolano immagini di varia natura, ma tutte di matrice
cinematografica- stimolino la sensibilità dei loro fruitori e in che misura
siano capaci di innescare processi percettivi prima che cognitivi, modificando all’origine le reazioni “naturali”
di tipo percettivo, quelle che consideriamo automatiche e inscritte nel DNA.
Queste
domande sull’influenza delle tecnologie visive nel processo evolutivo umano,
nate da analoghe considerazioni di Antonio sulle modificazioni culturali e
sensoriali innescate dai media, sono state il punto di partenza che mi ha
portato a ragionare sul cinematico sia come forma attraverso cui oggi
comprendiamo la realtà, sia come forma attraverso cui si manifesta tout court
la realtà per noi, che abbiamo introiettato il cinematico –appunto!– come guida
visiva nella nostra esperienza del mondo. Cerco di spiegarmi meglio: ciò che
individuo con il concetto di cinematico non riguarda solo il film e la nostra
esperienza del film, ma ha a che fare con tutti gli schermi con cui noi
interagiamo abitualmente nel corso della giornata, dal computer al bancomat, al
telefonino. Il cinematico regola dall’interno le più diverse occupazioni che
strutturano la società (lavoro, formazione, intrattenimento) poiché è già
inglobato negli strumenti di cui abbiamo bisogno per dedicarci a nostro agio e
piacimento a tali occupazioni, offrendoci procedure già pronte cui ci sembra
naturale adeguarci. Il cinematico è fatto d’immagini in movimento, ma sono
immagini assolutamente eterogenee che si muovono secondo traiettorie non
lineari; sono immagini “fotografiche” oppure, più semplicemente, sono immagini
grafiche, o segni e icone; raccontano storie complesse, oppure guidano le
nostre azioni suggerendoci i percorsi. Il cinematico è il nuovo linguaggio
visivo con cui oggi ci confrontiamo comunque, anche se non lo desideriamo, un
linguaggio fatto d’immagini in movimento di qualsiasi natura, che utilizziamo
quotidianamente in modo più, o meno, consapevole. Qui mi piace riprendere una
frase detta da Mauro Folci ieri, che riprendeva a sua volta Wittgenstein e che
diceva, all’incirca: “creare un nuovo linguaggio significa creare una nuova
forma di vita”. Il cinematico è appunto il nuovo linguaggio visivo che media la nostra percezione della realtà
e struttura di conseguenza la nostra esperienza (cioè crea la nostra attuale
forma di vita).
Per dare un
esempio concreto, il video presentato qui ieri da Giacomo Verde è un’opera
decisamente cinematica, poiché mostra immagini grafiche di vario genere,
mescolate a fotografie e testi e rimontate secondo un ritmo da videoclip, creata
per “dare figura” a discorsi scritti, estratti dal libro sul cyborg di Antonio.
In pratica, abbiamo visto un video per leggere alcuni brani di un libro: i
brani in questione ora non li ricordiamo più (perché non li abbiamo letti, ma
solo guardati), però ricordiamo molto meglio il loro senso -o meglio, il senso
attribuito loro da Giacomo nella sua opera di miscelazione d’immagini
eterogenee. Questo è esattamente il modo in cui opera il cinematico, poiché il
cinematico è un linguaggio la cui caratteristica è proprio quella di
permetterci di guardare le cose introiettandole senza averne coscienza, in quanto
esse diventano elementi dell’ambiente visivo complessivo in cui siamo immersi.
Inoltre, il cinematico riesce a dare visualizzazione sia a oggetti concreti,
sia a processi astratti, un tempo “privi di figura”, e questa è la sua peculiarità
e la sua forza.
Oppure, un
altro esempio più evocativo per illustrare la mia idea potrebbe essere il
famoso incipit di William Gibson: “Il cielo sopra il porto aveva
il colore della televisione sintonizzata su un canale morto” (Neuromante, 1984), una frase che dà un’immagine
perfetta del modo in cui oggi la tecnologia, attraverso alcuni suoi effetti
visivi, è introiettata a livello percettivo.
Soprattutto, mostra in
che misura gli scenari tecnologici possano contribuire alla comprensione dei
fenomeni, ma anche quanto essi possano determinare il senso della realtà stessa.
Lo confesso, non sono una lettrice di fantascienza e questa citazione proviene da
uno dei pochissimi libri di fantascienza da me comprati e mai letto
completamente (e questo mi sembra una specie di “reato”, in un convegno su
Antonio!). Però, devo dire che anche se non ho letto tutto il libro, questa
frase mi si è stampata in testa e ha contribuito a farmi problematizzare la
nostra percezione del mondo attuale, un mondo completamente a misura tecnologica.
La porto qui come esempio della mia idea di cinematico, anche in relazione a
ciò che cercavo di dire a proposito della generosità teorica di Antonio, perché
mi sembra che riesca anche a dare un’immagine visiva al genere di salti
quantici del pensiero contenuti nei discorsi di Antonio, capaci di aprire
squarci di senso in direzioni inaspettate proprio come fa questa frase di
Gibson.
Tuttavia, complessivamente
l’aspetto per me più importante della produzione teorica di Antonio è il suo costante
richiamo agli effetti politici di abitudini e strategie culturali, in
particolare nell’uso delle tecnologie. Le trasformazioni/evoluzioni di funzioni
organiche che diventano modificazioni cognitive accompagnano la vita della
specie umana fin dagli esordi e potremmo, anzi, dire che costituiscono la
specificità della specie umana rispetto agli altri animali (e anche qui il
riferimento a Le Roy Gourhan, lasciato cadere come per caso da Antonio nel suo
discorso sul virtuale, mi ha innescato pensieri e domande assolutamente
stimolanti). Oggi sappiamo che è necessario ragionare sulle conseguenze sociali
e politiche di queste modificazioni cognitive indotte dall’utilizzo e
dall’interazione con il computer e con tutte le tecnologie basate su
possibilità di accesso/controllo remoto, perché le tecnologie non sono mai
neutre, ma funzionano in base ad assunti culturali e a finalità prevalentemente
economiche che determinano preliminarmente gli utilizzi e gli adattamenti a
livello sociale. Qui entra in gioco l’altro aspetto al centro delle mie analisi
in questo periodo, cioè quale sia l’influenza della cultura cinematica sulla
nostra capacità di azione autonoma e, quindi, che rapporto ci sia tra il
cinematico e un certo tipo di omologazione e di passività, oppure se queste non
siano delle maschere che nascondono invece ben diverse abilità d’azione.
In questo
senso ritorna l’argomento del corpo, non più e non solo il corpo cyborg, ma più
propriamente il corpo come immagine all’interno
della nostra cultura cinematica. Qui, a mio parere, c’è un forte legame con la morte
che da un lato è iper-rappresentata quasi in modo apotropaico, dall’altro è
assolutamente cancellata (pensiamo alla giovinezza dei corpi della pubblicità e
al conseguente imperativo giovanilista della nostra cultura). Come insegna
Freud, però, il rimosso ritorna sempre manifestandosi con immagini apparentemente
agli antipodi rispetto ai contenuti nascosti: così nei corpi giovani e magri
delle immagini -pubblicitarie e non- del panorama visivo contemporaneo in
realtà è messa in scena un’angoscia di morte evidente e paralizzante. Questo mi
ha portato a interrogarmi sull’effetto che produce l’essere esposti in
continuazione a immagini che o evocano l’angoscia di morte (pubblicità), oppure
rappresentano in modo esplicito proprio la morte reale (ISIS), interrogandomi
soprattutto sulle finalità politiche profonde dell’uso di questo tipo di
immagini.
In sintesi,
da alcune letture di testi di Antonio a me sono nate considerazioni che si
possono sintetizzare in questo modo: la cultura visiva contemporanea sembra basata
sullo spettacolo della morte da un lato, e sulla rimozione del corpo dall’altro,
e i due aspetti sono profondamente correlati. Forse, qui è necessario fare un passo indietro e
cercare di definire l’ambiente socioculturale in cui viviamo, ovvero la nostra
esperienza del mondo oggi, al presente. Nella contemporaneità, l’esperienza del
mondo è in primo luogo esperienza di un mondo
come immagine, nel quale noi stessi siamo immagine tra le immagini. Questo
tipo di esperienza del mondo è filtrata dalla visione e sembra ci sia ben poco
spazio per forme di reazione e dissenso, capaci di sottrarsi all’omologazione
coatta di desideri e aspettative, inoculata dalla cultura visiva che condiziona la nostra
quotidianità e che, paradossalmente, mentre coinvolge il corpo lo neutralizza. La supremazia mediale del
cinematico appare, infatti, come il fattore determinante di un immaginario
sempre più estraniato dall’esperienza viva del corpo, di cui si cura
maniacalmente l’immagine di superficie, ma di cui si temono le manifestazioni
emotive. Le attuali consuetudini tecnologiche basate sulle immagini hanno
profondamente modificato la sensibilità e, con essa, la capacità di gestire
positivamente la visceralità legata alla nostra struttura organica. Abbiamo
sempre più paura delle passioni, del tempo che passa e dei suoi segni, degli
umori corporali. Vogliamo correggere qualsiasi “imperfezione” fisica basandoci
su un’idea del corpo astratta e inorganica.
Il corpo ideale è androgino, adolescente, ai limiti dell’anoressia, glabro,
bianco, biondo. Un corpo che non tradisce mai, che non si rivela mai come corpo, ma si mostra sempre come immagine,
mentre il corpo vero è sentito come un involucro opaco con cui è faticoso
rapportarsi per conciliare vissuto visivo e vissuto fisico.
La rimozione del corpo è strettamente collegata alla nostra
assuefazione al martellamento d’immagini di matrice cinematografica da parte
dei media più diversi (cioè il nostro ambiente cinematico), che ci fa perdere
di vista la carica ipnotica e il potere di colonizzazione dell’inconscio di
questo particolare genere d’immagini. In questo contesto, i video diffusi
dall’ISIS sono un fulmine a ciel sereno che non soltanto ci costringe a
riflettere su se, e come, sia possibile depotenziare e sovvertire la forza
visiva della rappresentazione estetizzata della violenza (il problema che pone
da sempre il cinema di propaganda, da Leni Riefenstahl in poi), ma anche a
renderci conto di come siano intrinsecamente
violente in sé le immagini apparentemente innocue che costellano lo spazio
massmediale del nostro mondo “felice” e “in pace”. Come aveva già mostrato
l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, quando la fiction si capovolge per
diventare realtà, più che l’orrore di quella realtà inaspettata, a sconvolgerci
è il potere destabilizzante della sua immagine, capace d’impossessarsi del
nostro immaginario indipendentemente
dalla nostra volontà cosciente, modulandone le reazioni emotive e determinando
scelte e azioni. Il potere delle immagini è un potere che emana un fascino
fatale, annichilente, al quale soccombiamo senza accorgercene, come quegli animali
ipnotizzati dai serpenti. Probabilmente dovremmo partire da qui, dalle
strategie adottate da alcuni di quegli animali, che ai serpenti rispondono con
una contro-ipnosi subliminale e imprevista, cui il serpente non sa reagire e
che ribalta le sorti della sfida. Dovremmo fidarci di più del nostro corpo e
meno delle apparenze, anche quando sembrano più reali del reale perché
veicolate da immagini cinematiche, immagini cui crediamo ciecamente in quanto
nella cultura attuale esse sono assunte come Verità Visiva del mondo.
In breve, dovremmo cercare di giocare di più in
modo personale e consapevole con le immagini mettendo al centro il fatto che si
tratta d’immagini, cioè di qualcosa che non ha senso di per sé, ma possiede unicamente
il senso che riceve non solo da chi ha creato tali immagini ma soprattutto da
chi ne decide le modalità di circolazione e che perciò, come tale, è un senso
sempre de-costruibile e criticabile. Ancora più importante, inoltre, sarebbe
riuscire a svincolare con leggerezza la nostra esperienza viva dalla sua attestazione sotto forma d’immagine, un
tratto che oggi più che mai è sollecitato come un dovere, una sorta di verifica
indispensabile cui è necessario sottoporsi per confermare la propria identità
ed esistenza, ma che in realtà non è così imprescindibile e vitale -a dispetto
di tutte le nuove abitudini “social”.
[i] In inglese il
termine “cinematic” è usato per
definire tutto ciò che riguarda in generale il cinema, o il film, e si
differenzia dal termine più specifico “cinematographic”,
che si riferisce più precisamente al fare cinema e cioè alle tecniche, agli
stili di regia, alle scelte fotografiche; di conseguenza, cinematic è usato in tutti quei contesti in cui il riferimento al
cinema non è ristretto all’analisi delle caratteristiche fotografiche e
linguistiche dell’immagine, ma investe un ambito più ampio di influenza del
cinema. I lettori italiani lo hanno già trovato in questa accezione in alcuni
testi di teoria del film tradotti dall’inglese. Io utilizzo “cinematico” in
un’accezione ancora più ampia per descrivere l’ambiente percettivo e culturale
creato dalle immagini di matrice cinematografica (sia realizzate fotograficamente,
sia di sintesi), che compongono lo spazio sociale contemporaneo.
sabato 7 novembre 2015
Loretta Borrelli: intervento al convegno Logica Lane
“Non
abbiamo futuro, perché il nostro presente è troppo mutevole. Abbiamo solo
rischi di gestione. La ricomposizione degli scenari a partire dai singoli
eventi. L’individuazione di modelli” dice un personaggio di Gibson nel romanzo L’accademia
dei sogni
Ma
c’è di più della nostra realtà. La messa a valore del linguaggio e delle
relazioni implica la riduzione del linguaggio ad algoritmo, della relazione
alla connessione. Implica la restrizione degli spazi di libertà,
l’assoggettamento dei corpi, la normalizzazione dei linguaggi. Restrizione,
assoggettamento, normalizzazione, sono certo suggeriti dal sistema politico,
economico, mediatico, ma sono realizzati dalla più capillare rete di carcerieri
che mai si sia vista: noi stessi. Così funziona oggi l’intreccio (al quale
Michel Foucault dedicò i suoi studi), tra la società della disciplina e la
società del controllo (spesso dell’autocontrollo). Ecco perché (per usare il
termine spinoziano di Benasayag) questa è l’epoca delle “passioni tristi”.
Ma allora, se ormai ogni
aspetto della vita umana, ogni secondo del nostro tempo è coinvolto (sussunto)
nel processo di valorizzazione, dobbiamo rassegnarci all’eternità di questo
incubo? Io credo che possiamo uscirne, se vogliamo. Perché una segregazione a
vita nel purgatorio, quando il paradiso non arriva mai, a lungo andare è
intollerabile. E l’arte non ha nulla da dire (o da fare) in questa situazione?
Forse l’arte nel senso dell’“arte di mercato” è effettivamente sorda e muta a
questo proposito. Ma ci sono, per fortuna, altre esperienze: quelle di tanti
artisti – e anche persone che non si definiscono tali – che lavorano
all’interno o a contatto coi movimenti di opposizione sociale, e producono, più
spesso che opere, azioni e situazioni che mettono in discussione questa realtà.
Se oggi l’arte (o l’attività
prevalentemente espressiva degli esseri umani) ha un senso, deve parlarci di
questo. Deve parlarcene proclamando e praticando l’irriducibilità del
linguaggio all’algoritmo, la ribellione dell’espressione alla merce, la fuga
della vita dall’immaginario precotto ed eterodiretto. L’arte come tavolozza del
possibile oggi non può che essere ribellione e sovversione. Da sempre, come ci
disse Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, là cresce anche la salvezza”.
Questo testo è un estratto
di un articolo di Antonio Caronia dal titolo Soggettivita’, linguaggio,
ribellione pubblicato su D'ARS magazine, di cui Caronia fu collaboratore
per diversi anni, trovate online il testo completo. Nella conclusione Caronia
scrive:
È giusto quindi cominciare
con le parodie e con le beffe. La generazione più irrisa e truffata di tutta la
modernità sta affilando i suoi denti, le sue parole, le sue righe di codice.
Immaginari contro immaginari, parole contro parole, algoritmi contro algoritmi.
A questo mi sento i
aggiungere in consapevole dissonanza con lo stile di Caronia “relazioni contro
connessioni”. Mi riferisco a quelle relazioni che eccedono un'analisi di
sussunzione o tecnologica. Relazioni che si iscrivono nei corpi e che diventano
esperienza viva che risuona nell'altra o altro in cui è possibile sentire
l'esperienza della libertà. Un'esperienza che ci permette di fuggire dalla
fascinazione per false figure eroiche e per illusori prestigi accademici. Penso
di poter dire questa verità tanto più perchè il testo che ho appena letto parla
di un'esperienza particolare, l'intervento di un misterioso artista dal nome
Fosco Loiti Celant presso l'Università Statale nei giorni del Salone del mobile
del 2010. Questo azione politica nasceva non solo per gettare un sassolino
negli ingranaggi dell'enorme macchina culturale capitalistica ma soprattutto
per riflettere sul senso dato ai propri desideri. Cosa comporta soddisfare
ciecamente il proprio desiderio dal più piccolo cioè quello di avere in omaggio
un gadjet firmato a quello più grande, di creare un modello culturale
dominante? Domande che rimangono per fortuna senza risposta e che ci lasciano
l'inquietudine nella ricerca di significati che non siano dati una volta per
tutte.
https://www.youtube.com/watch?v=gkvA-bTnRys
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